Appena fu buio, la colonna si
mise in marcia e cominciò subito la discesa. Allora, di là, fu veduto il vastissimo
semicerchio di monti, che serra la Conca d'oro, coronarsi di fuochi, come se
dappertutto vi fossero dei piccoli accampamenti. Se si volesse così avvisare il
popolo di Palermo perché si preparasse, o confondere i borbonici non si sapeva.
Ma intanto quei fuochi empivano di una forza misteriosa l'anima della colonna
in marcia, fino a crear l'illusione che da tutti quei punti movessero su
Palermo tante altre colonne di insorti, per assalirla da tutte le porte, e
trovarvisi dentro insieme con Garibaldi, il giorno seguente, a celebrar la
festa dello Spirito Santo. Era proprio la vigilia della Pentecoste. L'anno
avanti, il 27 maggio, Garibaldi aveva vinto gli Austriaci in Lombardia a San
Fermo; il 27 maggio del 1849 aveva messo piede sul territorio del Regno a
Ceperano, dietro il Borbone fugato da lui, generale della Repubblica romana:
anche una terza volta quel giorno poteva segnargli forse una bella data.
*
L'ampia strada, che oggi sale per
agevoli giravolte a Gibilrossa, allora non esisteva. Non era che un
sentieruccio giù pel ripidissimo pendio, dove bisognava camminare con l'olio
santo in mano, sull'orlo d'un borro tutto balzi e sfasciume. Eppure, per quella
traccia calò senza disgrazie tutto quel mondo, anche Garibaldi che andava su
d'un cavallo molto tranquillo, che finì poi nelle mani di Alberto Mario, cui fu
donato.
Perduto alquanto tempo a
riordinarsi giù a piè del monte, la colonna si rimise in marcia lenta e
silenziosa. Ululavano per la campagna a sinistra i cani da lontanissimo; da
destra muggiva il mare; non era molto buio; faceva quasi freddo, per la gran
guazza.
Nel piano, la via correva
fiancheggiata da muriccioli a secco tra oliveti, e a tratti fra case mute e
tetre. Da una di quelle case là attorno, veniva un tintinno di pianoforte, che
ora si udiva ora no, e dava una di quelle malinconie che son fatte di dolore,
d'amore, di speranza, di desideri, d'un po' di tutto ciò che è gentile in noi.
Chi mai sonava in quell'ora tanto tranquilla, mentre stava per cominciare la
musica della morte?
E pareva che fosse ancora molto
lontano il gran punto, il gran momento, e che l'alba volesse venire più presto
del solito, troppo presto. Perciò fu fatto incalzare il passo, ma sempre più
raccomandando il silenzio. Poi la colonna sboccò nella via Consolare. Allora le
compagnie dei Cacciatori delle Alpi si misero per quattro, serrando così più
sotto, con l'ordine di tirar avanti senza badare a chi si arrestasse, e di
stringersi ai muri degli orti. I cuori battevano già. Ma ad un tratto li
schiantò addirittura un uragano di grida e di fucilate scoppiato alla testa,
perché a un certo punto che si chiama Molino della Scafa, i 'Picciotti',
credendo forse d'essere già alle prime case di Palermo, si misero ad urlare. E
molti di essi, presi chi sa per qual cosa dal panico, si arrestarono, si
scomposero, si rovesciarono sui Carabinieri genovesi, cagionando il rigurgito
di tutta la colonna. Accorse Bixio inviperito contro il La Masa; accorse
Garibaldi che richiamò lui alla calma; e volto ai Carabinieri genovesi gridò:
«Colonne di bronzo, le spalle anche voi?» All'immeritato rimprovero, il Mosto
rispose mesto, ma fermo: «Noi siamo al nostro posto, e abbiamo aperte le righe
per non esser travolti.»
Garibaldi sapeva bene cosa erano
quei prodi; e del resto tutto ciò fu un lampo, perché pigliata subito la corsa
avanti, una corsa impetuosa, serrata, gridata; il meglio della Colonna fu di
lancio sotto il fuoco dei Cacciatori borbonici, che difendevano il Ponte
dell'Ammiraglio. In quella prima luce apparvero il profilo a schiena d'asino e
i dieci o dodici pilastri interrati del ponte, brulicanti d'uomini e d'armi nel
fumo, visione da sogno, ma incancellabile anche per chi non sapeva che quel
ponte normanno aveva ben più di sette secoli sulle sue pietre.
Così adunque la sorpresa tanto
ben preparata era venuta in parte a mancare. Ma quei Cacciatori che avevano
dormito intorno al Ponte, con l'animo sicuro che Garibaldi era in fuga lontano;
a un assalto così violento, presi alla baionetta, non ressero a lungo, e si
ritirarono fuggendo da disperati, tanto che invece d'andar a piantarsi dietro a
una loro gran barricata oltre il crocicchio di Porta Termini, come avrebbero
dovuto, giunti appena al crocicchio stesso, svoltarono a Sant'Antonino, per
sottrarsi a quei dannati Garibaldini che giungevano di notte a quel modo.
Questi inseguivano. E infilavano la via del sobborgo sotto il fuoco d'un altro
battaglione schierato sulle mura a sinistra; si arrestavano al crocicchio, e
subito si mettevano a sbarrarsi la via alle spalle. Di lì minacciava la cavalleria
che moveva dalla chiesetta di San Giovanni Decollato. Ma Faustino Tanara da
Parma, con un plotone della sua Compagnia, e il sacerdote siciliano Antonio
Rotolo, con una grossa squadra di 'Picciotti', tennero quella cavalleria in
rispetto.
Ora, a passar quel crocicchio
faceva caldo. Dal mare lo spazzava la mitraglia delle fregate, vi grandinavano
le palle da Sant'Antonino. Ma bisognava passarlo, che se no, chi sa quanta
forza di nemici poteva tornarvi, appena si fossero rimessi dal primo sgomento. E
vi era già Garibaldi col suo Stato Maggiore. Raggiava. Forse non sapeva ancora
che tra il Ponte dell'Ammiraglio e quel crocicchio, in sì breve tratto, erano
caduti Tukory, Benedetto ed Enrico Cairoli feriti gravemente. Ben vedeva Bixio
tempestar a cavallo su e giù ferito anch'egli, rimproverando, ingiuriando quasi
perché non s'era già presa tutta la città, e sfogando la sua furia contro di
uno che aveva osato dirgli che si guardasse che sanguinava dal petto. Egli
s'era già levato da sé il proiettile. E molti in quel breve tratto erano i
morti. Giaceva sul Ponte il dottor La Russa di Monte Erice; giaceva presso il
ponte Stanislao Lamensa. La morte lo aveva fermato lì, senza misericordia per i
suoi dieci anni di ergastolo, né per i suoi figliuoli che lo aspettavano in
Calabria dal 1849. Sotto il Ponte, fra parecchi altri amici e nemici, giaceva
Giovanni Garibaldi, popolano genovese, morto di fuoco e di ferro. Placido
Fabris da Povegliano, giovane tanto bello che i compagni d'Università lo
chiamavano Febo, giaceva per morto con tutta traverso al petto la
daga-baionetta d'un cacciatore ucciso da altri, mentre
vibrava a lui il colpo mortale. E non morì. Doveva, guarito, ricomparire quasi
un risorto, per andarsi a far ferire anche dagli Austriaci a Bezzecca sei anni
dopo. Bellissimi tipi di siciliani giacevano feriti. Inserillo, Caccioppo, Di
Benedetto, gente che continuò a dare il proprio sangue fino a Mentana. Narciso
Cozzo, il bello e biondo patrizio palermitano che, uscito tre giorni avanti a
raggiunger Garibaldi, si era unito, nell'accampamento del Parco, alla 6°
Compagnia; camminava tra quei feriti, quei morti e quella calca, quasi andasse
invulnerabile ammirando. Pareva un Normanno di settecent'anni addietro, tornato
a guardare come dai moderni si combattesse. A lui la morte diè tempo e spazio
fino al Volturno, e il 1° ottobre, nella gran battaglia garibaldina, là se lo
colse.
Bisognava dunque passar oltre
quel crocicchio infernale, e a un cenno di Garibaldi il passo terribile fu
traversato, fu invasa alla corsa la via per la Fiera Vecchia. Piazza della
Fiera Vecchia! Lì all'alba del 12 gennaio 1848, quel La Masa che ora conduceva
i 'Picciotti' aveva lanciato il suo grido di guerra quasi da solo, a piè di
quella statua di Palermo che ora non v'era più, perché la polizia l'aveva fatta
levare. Ma era la piazza della Fiera Vecchia davvero quel largo? Non ci si
vedeva nessuno, precisamente come nel 1848. Garibaldi quasi impallidì. Un
cittadino, di tra i due battenti d'un uscio socchiuso, gli gridò: «Evviva!»
Qualche finestra si aperse, qualche testa si sporse, ma gente non ne compariva
né con armi né senza. Fu un istante da tragedia. Ma appunto per questo avanti!
Garibaldi col suo Stato maggiore, preceduto dai più ardenti, seguito dall'onda
de' suoi si inoltrò per quelle vie deserte fino a piazza Bologni. Ivi smontò, e
nell'atrio del palazzo che dà il nome alla piazza, si assise. Proprio si
assise! Ora la sua tranquillità faceva quasi paura.
Giungevano intanto i suoi da
tutte le parti con notizie diverse, confuse, assurde: giungeva Bixio a piedi
con in pugno la spada spezzata a mezzo, furibondo, terribile. Veniva a
pigliarsi venti uomini di buona volontà, per andare a farsi uccidere con loro a
Palazzo reale. «Tanto, - gridava - tra due ore siamo tutti morti!» E già si
avviava, già voltava l'angolo di via Toledo, quando Garibaldi lo fece chiamar
indietro.
Garibaldi in quel momento era
quasi giulivo. Aveva riso d'un colpo che sfuggitogli da una delle sue pistole,
gli aveva sforacchiato il lembo dei calzoni sopra il malleolo, dove fu poi
ferito due anni appresso in Aspromonte: aveva confortato due giovani
prigionieri napolitani; aveva baciato nel nome di Benedetto Cairoli qualcuno
della 7° Compagnia, e baciandolo gli aveva detto che intendeva di baciare in
lui tutti i presenti. Giulivo era anche perché cominciavano a comparire dei
cittadini ansanti, trasecolati. Dunque era vero, era entrato, era Lui? E
guardavano quei capelli ancora così biondi, quella barba, quel torso erculeo
nella camicia rossa, quelle gambe un po' esili e quei piccoli piedi da
gentiluomo. Adoravano. Era lui e non avevano creduto! Il romore della fucileria
di Porta Termini, l'avevano preso per uno dei tranelli della polizia, che già
parecchie volte aveva sull'alba fatto sparare qua e là; e sempre chi era stato
pronto a scendere, credendo di gettarsi nella rivoluzione, era invece caduto in
mano dei birri. Così raccontavano quei cittadini. Dunque, se la città non era
subito insorta, nulla di male, purché si facesse, purché non si lasciasse tempo
ai nemici di riaversi: barricate! barricate! Non si sentì più gridar altro che
barricate. Garibaldi diede l'ordine all'Acerbi, mantovano, di mettersi a quel
lavoro, e gli designò compagno il palermitano duca della Verdura; formò un
comitato provvisorio per il governo della città presieduto dal dottor Gaetano
La Loggia: ma veramente il governo era lui.
E le campane cominciarono a
martello, perché la polizia aveva fatto levar via il battaglio da tutte. Prima
suonò quella di San Giuseppe, poi un'altra, poi altre e altre; tutta la città
si svegliava: Santa Rosalia! Santo Spirito! Che c'era mai? Garibaldi? Garibaldi
era venuto dentro in quel giorno di festa religiosa, certo lo aveva voluto
Iddio. E nessuno, forse nessuno, pensò che quell'uomo con sì poca gente era
entrato a tirar su la città, su di sé, sui suoi, lo sterminio.
Tra quei cittadini vi erano fin
dei preti. Quello alto, maestoso, con la gran testa già grigia, era l'abate
Ugdulena; e quell'altro smilzo, pallido, vibrante, era prete Di Stefano. E giunsero
degli uomini in divisa che parevano di cavalleria, giubba rossa, calzoni
azzurri. Disertori forse? Al portamento no; e poi non avevano armi. Donzelli
del comune erano, che venivano dal Palazzo pretorio. Dunque la magistratura
cittadina, il Pretore, i Decurioni erano già in moto? No. Essi erano borbonici
quasi tutti, e quasi tutta l'aristocrazia borbonica se n'era fuggita a Napoli,
o ritirata sulle navi in rada, stava al sicuro. Ma insomma quelli erano i
Donzelli del Palazzo. Sui bottoni dorati delle loro divise, si leggeva la
sigla: S.P.Q.P. 'Senatus populusque palermitanus'. Ma Giuseppe Giusta,
artigiano, lingua di fuoco, lesse subito a modo suo: «Sono Pochi Quanto Prodi.»
Il frizzo non destò allegria perché quello non era momento da celie; anzi, qualcuno
disse che Giusta celiava per farsi dar giù, forse, un po' di paura. Ah la
paura! Strana affezione. V'erano lì dei giovani che nella notte, durante la
marcia, avevano forse tremato; e adesso si sarebbero messi da soli a
qualsifosse cimento.
Perché adesso era davvero aperta
la via a tutte le prove, e la città s'avviava a divenir tutta un campo. Verso
Sant'Antonino si combatteva; da porta Macqueda, i cannoni del generale Cataldo
tiravano lungo la gran via; quelli del generale in capo Lanza, da Palazzo reale,
spazzavano tutta Toledo. Non pareva vero che il forte di Castellamare tacesse
ancora. Si sapeva già che ivi comandava il Colonnello d'artiglieria Briganti;
si seppe poi che un suo figliuolo capitano era stato ai mortai, aspettando
l'ordine di cominciar il fuoco, e che rapito dalla voglia di mandar la prima
bomba sulla città ribelle, aveva già mormorato contro suo padre, minacciando
persino d'andar egli stesso a scuoterlo. Ma verso le sette l'ordine gli fu
mandato, e allora si udì un gran tonfo a Castellamare, e su nell'aria un gran
rombo. La prima bomba piombò. Cominciava quel bombardamento, che con terribili
pause di cinque minuti tra bomba e bomba, doveva durare tre giorni e farne
piovere sulla città ben mille e trecento. E subito scoppiarono qua e là degli
incendi. A mezzogiorno in punto si misero poi a tirare anche le navi.
Intanto Garibaldi era passato col
suo Quartier generale nel Palazzo pretorio. Là, con un suo decreto da
Dittatore, sciolse il Municipio, per nominare, come fece il dì appresso, un
nuovo Pretore e nuovi Senatori. Ora la città, anzi la Sicilia era lui. Da quel
centro si diramavano i suoi ordini alle piccole colonne che si erano spinte in
tutti i versi alla periferia della città. Erano gruppi di Cacciatori delle
Alpi, cui si univano fidenti e volenterosi i 'Picciotti' entrati il mattino, e
via via cittadini d'ogni ceto usciti di casa con armi o senza. E dove avveniva
uno scontro coi borbonici, i disarmati aspettavano bramosi che qualcuno
cadesse, ne prendevano l'arma, le cartucce, il posto, e combattevano esultanti.
Un grosso nerbo della 8° Compagnia avanzò per vie traverse, verso Palazzo reale
fino alla gran Guardia, e di lì fugò il generale Landi, quel povero vecchio
Landi, già battuto a Calatafimi.
Un po' della 6° con parte della
7° e alcuni Carabinieri genovesi, andavano per pigliare il convento dei
Benedettini; la 5° si spingeva verso porta Macqueda, fino a Villa Filippina. Ma
dir Compagnie non è preciso. Queste si erano frante e si frangevano ognor più
in manipoli, e ogni manipolo seguiva il più stimato fra quelli che lo
componevano, o chi si mostrava più ricco di partiti. Così dei vecchi ubbidivano
a dei giovinetti; uomini in divisa d'ufficiali si lasciavano consigliare da
studenti che non avevano mai visto una caserma; qualcuno come Vigo Pellizzari
che, caduto Benedetto Cairoli, era divenuto il Comandante della 7°, rivelava
qualità di vero uomo di guerra; Giuseppe Dezza della 1° suppliva da bravissimo
il Bixio, che, non potendo più reggere dal molto sangue perduto, era stato costretto
da Garibaldi a ritirarsi in casa Ugdulena, e aveva ubbidito mordendosi per ira
le mani.
*
I borbonici avevano lasciato
passare il momento buono ad invadere la città, come avrebbero potuto. Quattro o
cinque ufficiali audaci che si fossero mossi ciascuno alla testa d'un mezzo
battaglione, e avessero marciato verso il centro tutti a un tempo, pur
seminando di morti e di feriti la via, bastavano a schiacciar tutti. Ma forse
nessuno aveva osato cimentarvisi, per paura di entrare a farsi seppellire sotto
un po' di tutto, da tutte le case, mobili, pietre, olio ardente. Adesso, dopo
quattro ore dall'entrata di Garibaldi, sarebbe già stato difficile riuscire,
anche se i borbonici ci si fossero provati; e già si vedeva che prima di sera
sarebbe divenuto addirittura impossibile. Poiché nelle vie sorgevano come per
incanto barricate per tutto. Dagli usci venivano fuori carri, carrozze, botti;
dalle finestre piovevano mobili, materasse, fin pianoforti. E tutto era subito
raccolto, ammontato, serrato insieme. Poi a forza di picconi e di leve si
spiantavano li lastre delle vie; e queste sì, queste servivano bene! Parevano
fatte apposta. E con esse, visto o non visto, venivano alzate su delle vere
mura, una barricata a dieci metri dall'altra; fin troppe, come disse poi Garibaldi.
Vi lavoravano e uomini e donne e fanciulli, che si rissavano tra loro facendo a
chi ubbidisse meglio, se dai panni, dai capelli, dall'accento, riconoscevano un
garibaldino in chi comandava. Le popolane poi parevano furie. «Signuri, nui
riciano ca di li nostri trizzi un'avianu a fari ghiumazzo pi li so mugghieri!
Scillirati, infami!» E davano dentro da disperate a portar pietre e sacchi di
terra.
Il Comitato delle barricate,
composto di cittadini esperti ancora del 1848, presedeva a quel lavoro che
metteva sossopra il lastrico di ogni via. E già si vedevano uomini sugli orli
dei tetti ad ammonticchiarvi tegole, uomini sui balconi a preparar mobili da
buttar giù, se mai le milizie borboniche si fossero avventurate.
Ma quelle milizie non si
muovevano all'offensiva. Anzi, verso le sedici, come si diceva là all'uso
antico d'Italia, il general Cataldo che occupava i pressi di Porta Macqueda, i
Quattro venti e il Giardino inglese, assalito dalla città, tormentato alle
spalle dai 'Picciotti', si ritirava al Palazzo reale; e al Palazzo reale si
ripiegava il generale Letizia, scacciato dal rione Ballerò. Sicché al Palazzo e
nella piazza e negli orti intorno, si trovavano da dodicimila soldati, sotto il
generale Ferdinando Lanza, alter ego del Re, uomo di 72 anni che aveva a lato
Maniscalco, il fiero capo della polizia. E allora le carceri non più custodite
si apersero, e ne sbucarono duemila condannati, orribile ingombro gettato tra i
piedi alla rivoluzione, perché potevano solo disonorarla. Ma Garibaldi provvide.
Vietò d'andar armati senza dipendere da un capo; vietò di perseguitar i birri
sperduti; decretò pena di morte al furto, al saccheggio: fece tremare e fu
ubbidito.
Lavoravano intanto i mortai di
Castellamare, che nel pomeriggio di quella prima giornata presero specialmente
di mira il Palazzo pretorio, sul quale misuravano l'arcata delle loro bombe. I
nemici, non da palermitani, ma da qualche birro vagante, dovevano aver saputo
che in quel palazzo si era messo Garibaldi, e perciò cercavano di seppellirvelo
sotto col suo Stato maggiore! Non vi riuscivano; ma le loro bombe, cadendo
nelle vicinanze, facevano delle grandi rovine.
*
A notte, quel fuoco da
Castellamare cessò, e cessò anche quello della fucileria quasi per tutto. Ma la
veglia fu viva, incessante. Le finestre delle case cominciarono a illuminarsi,
per le vie ci si vedeva quasi come di giorno. Ed era un andirivieni dalle parti
della città al Palazzo pretorio e di lì alle parti; sicché pareva che i
combattenti si dessero il cambio nei posti che occupavano, solo per andar un
po' dal Generale, e rifare nella vista di lui le speranze e le forze. Egli
aveva fatto mettere una materassa sulla gradinata della fontana di Piazza
Pretoria, rimpetto al gran portone del Palazzo, e là, a pie' di una di quelle
alte statue che la adornano, riceveva notizie, dava ordini, riposava, Giovanni
Basso da Nizza, suo segretario e compagno sugli oceani, Giovanni Froscianti da
Collescipoli antico frate, Pietro Stagnetti da Orvieto, veterani della
Repubblica romana, gli facevano guardia: dall'altra parte della piazza, nelle
scuderie di palazzo Serradifalco, stavano sellati i cavalli delle Guide. E sul
portone di quel palazzo si vedeva Giovanni Damiani, vigile come un'aquila,
pronto a qualche partito supremo di Garibaldi, se forse fosse venuta l'ora
della disperazione.
Di quelli che andavano e
tornavano, taluni si sentivano chiamar dentro dagli usci di qualche casa o
palazzo socchiusi. E là nei cortili, sotto i porticati, giù nei sotterranei,
trovavano donne, uomini, fanciulli, signori e servi; e questi a gara se li
pigliavano in mezzo curiosi, e li tempestavano di domande: e di dove erano, e
come si chiamavano, e se avevano madri, sorelle. E stringendo loro le mani,
tastavano se queste erano fini; maravigliavano a udirli parlare da gentili
uomini. Li ristoravano di cibi e di vini squisiti; empivano loro le tasche di
biancherie; mostravano le coccarde tricolori, triangolari come l'isola; li
baciavano, li pregavano di farsi portar da loro se mai cadessero feriti. E le
donne esaltate congiungevano le mani come in chiesa; e le fanciulle sorridevano
estatiche nei grandi occhi lucenti; e poi a veder coloro andarsene, piangevano
come sorelle amorose.
Nei posti in faccia al nemico,
quelli che vegliavano, ricevevano le notizie delle cose avvenute altrove. Ai
Benedettini, Giuseppe Gnecco, carabiniere genovese, si era lanciato alla gola
di un ufficiale borbonico e lo aveva tratto via seco prigioniero. Là e là, i
tali della tale Compagnia o della tal'altra, avevano formato barricate mobili
con botti rinvolte in materasse, e spingendole avanti a forza di spalle sotto
il fuoco dei borbonici, erano giunti fino alle case occupate da questi, e
balzati dentro, fulminei avevano preso le case e i difensori.
Metteva una certa sicurezza negli
animi sapere che ormai tutta la parte bassa della città era in mano degli
insorti, salvo il palazzo delle Finanze in piazza Marina, che era ben tenuto
d'occhio perché i borbonici non potessero portar via il tesoro. Anche la
caserma di Sant'Antonio era stata presa, e molti vi si erano riforniti di
bellissime armi. Là Andrea Fasciolo, Carabiniere genovese, aveva dato tutto il
giorno lo spettacolo d'un coraggio che i suoi compagni, per dire quanto era,
chiamavano coraggio sfacciato.
Cominciava a disertare qualche ufficiale
borbonico: al Palazzo pretorio era giunto il tenente Achille De Martini,
comandante dei cannoni a Calatafimi, e si era dato anima e corpo a Garibaldi.
Intanto seguitavano a entrar in città da porta Termini e 'Picciotti' e
'Picciotti'; da porta Macqueda era entrato Giovanni Carrao, con la squadra che
era stata di Rosolino Pilo. E la notte passava.
*
Ma i mortai di Castellamare
suonarono presto la diana del 28, e presto ricominciò il fuoco dappertutto.
Dappertutto la rivoluzione vinceva. Ma dolorose perdite si fecero fin dalle
prime ore di quel secondo giorno. Enrico Richiedei da Salò ed Enrico Uziel da
Venezia, furono uccisi da una palla di cannone che li compì tutti e due al
capo, lasciandoli morti sfigurati l'uno vicino all'altro quei due fiori di
giovinezza.
Antonio Simonetta milanese
diciannovenne, puro come uno di quei fraticelli che cantarono al letto di San
Francesco morente, uscito l'anno avanti incolume dalla battaglia di San
Martino, cadeva al convento dei Benedettini, dove gli amici ne cercarono poi
invano il corpo e la fossa. E ai Benedettini cadeva Giuseppe Naccari
palermitano, reduce dall'esilio coi Mille, cadeva senza aver ancor riveduto la
sua famiglia, anch'egli bellezza maschia, che nella 6° Compagnia, per la molta
somiglianza col gran lombardo morto a Roma nel 1849, era chiamato Luciano
Manara. Nel campanile di quel convento fu ucciso Crispo Cavallini da Orbetello,
altro bel forte cui toccò di morire senza lasciar il nome alla schiera dei
Mille. Egli fu dimenticato come uno che non avesse avuto né parenti, né amici,
né nulla. E forse felice lui, se morendo, avesse potuto indovinare quell'oblio;
perché, diciamo noi, portar seco nella morte tutto sé stesso, la gloria e il
nome, deve esser una gioia più che da uomo. Non insegnava così l'ordine del
giorno di Garibaldi letto nella traversata in alto mare?
Ai Benedettini combatteva il
Mosto co' suoi Carabinieri, Carabiniere infallibile anch'esso, e dal campanile
fulminava gli artiglieri del bastione Porta Montalto, obbligandoli a lasciar
muti due pezzi. Lo secondavano tranquillamente, con tiri che coglievano,
Giambattista Capurro, giovinetto che aveva la testa bendata per una ferita in
fronte, ed Ernesto Cicala benché già toccato malamente da una scheggia di
granata. Vicini e mirabili per la calma, facevano i loro tiri Stefano Dapino e
Bartolomeo Savi, testa d'oro da cherubino, tanto era biondo, il primo; l'altro
arruffato quella sua testa grigia piena sempre delle tragedie di Sofocle.
Si combatteva dunque dappertutto
e si dimenticava ogni cosa. Ma se qualcuno non si sentiva più dalla fame, i
conventi dei frati erano là divenuti ospizi. Ivi le cucine fervevano. Bastava
dar una corsa là, e uno ci trovava il cuoco e il cantiniere, pronti a
scodellare e a mescere. Si ristorava e via, tornava benedetto a farsi onore.
Dei frati veri, molti parevano più rivoluzionari dei garibaldini stessi;
qualche vecchio brontolava pauroso, perché delle rivoluzioni ne aveva già viste
troppe e tutte finite male, quella del '20 e quella del '48.
Si dava da mangiare anche nei
refettorii e nei parlatorii dei monasteri. Folle di monacelle bianche si
premevano a guardar dalle porte, e parevano stormi alati d'angeli, discesi come
nella poesia a contemplar i figli degli uomini. Qualcuna osava, correva quasi
ad occhi chiusi, e al primo cui le capitava di stendere le braccia metteva al
collo una reliquia, subito fuggendo beata come se avesse rapita un'anima al
purgatorio. Colui per quella non pericolava più. Invece delle vecchie suore si
mettevano a discorrere in mezzo agli ospiti armati e laceri e sporchi di
polvere; e li interrogavano curiose, e domandavano se Garibaldi era cristiano,
giovane, bello, e li pregavano di vincere e di tornare poi a dar loro le
notizie, a difender loro, povere monacelle, dalle genti borboniche crudeli. Non
sapevano ancora che i monasteri dei Sette Angeli e della Badia nuova erano
stati saccheggiati, né che quello di Santa Caterina bruciava.
Lì sì! C'era bisogno d'aiuto! Ma
nel gran trambusto che assordava tutti, nessuno aveva ancor badato che lì come
altrove c'era l'incendio. Eppure il monastero sorgeva a lato del Palazzo
pretorio! Il fuoco vi aveva cominciato dal tetto, a cagione di una bomba di
quelle destinate al Palazzo, scoppiata in aria. E l'incendio era disceso di
piano in piano. Solo verso la sera del 28, qualcuno pensò che là dentro c'erano
delle povere creature. E allora, sfondata la porta del monastero, vi entrarono
dieci o dodici Cacciatori delle Alpi con dei 'Picciotti', a tentar di salvarle.
Nel piano terreno ci si poteva ancora, ma cerca di qua, cerca di là non si
trovavano monache in nessuna parte. Che si fossero lasciate perir arse nei
piani superiori, non pareva da credersi. Finalmente uno andò nell'oratorio, e
là ne vide che, come larve bianche nella penombra in fondo, piangevano, fuggivano
a nascondersi fino in certe loro catacombe. Raggiunte, si inginocchiavano in
terra, torcendo le braccia, porgendo le gole come a dei carnefici; pregate di
uscir di là dentro, perché presto non ci sarebbe stato più tempo, non volevano
lasciarsi condur via a niun patto. Sicché quei soldati dovettero minacciare di
porre loro addosso le mani per salvarle a forza. E allora esse si lasciarono
mettere in fila, lunga fila di religiose di tutte le età, monache e converse.
Ve n'erano di bellezza celestiale, giovani come aurore; ve n'erano delle
vecchie mummificate. I fratelli Carlo e Pietro Invernizzi da Bergamo,
bizzarrissimi spiriti, ne portavano via sulle spalle una per ciascuno quasi
paralitiche, e mentre che agli atti pareva che reggessero dei reliquiari,
parlavano in bergamasco da diavoli cose che avrebbero fatto ridere i sassi. Fu
questa la sola profanazione, se si può dir così; tutti gli altri vennero fuori
serii con quella strana processione; e a vedere la raffinatezza dei riguardi
che sapevano usare, faceva orgoglio. Condussero quelle meschine a un altro
monastero; e là, nella gioia della salvezza, qualche stretta di mano, sin
qualche bacio fu dato e preso.
*
La seconda giornata passò dunque
come la prima e peggio; ma la terza furono cose indescrivibili. Tutte le vie
erano ormai gremite di gente. A cagione del bombardamento, lo stare in casa era
più pericoloso che lo star fuori; perché dove una bomba cadeva su di un tetto,
sprofondava giù fino a terreno, scoppiava e faceva crollar tutto. Invece per quelle
che cadevano nelle piazze o nelle vie, la gente si gettava a terra, le lasciva
scoppiare, poi su, si levava gridando: «Viva Santa Rosalia, Garibaldi,
l'Italia!» E si esaltava, e si lasciava pigliare da un certo cupo entusiasmo
della strage, senza neppur più inorridire perché qualcuno restava a terra morto
o ferito. Di tanto in tanto si udiva uno scoppio di grida furiose qua e là;
erano donne del popolo che avevano fatto la posta a qualche birro, e riuscite a
pigliarlo, urlandogli «Sorcio, Sorcio!» lo malmenavano, lo straziavano a brani.
Così dovevano aver urlato: «Mora! Mora!» le loro antenate dei Vespri. Sennonché
ora bastava che capitasse in tempo un garibaldino a stender le mani sul birro
sciagurato, e quelle donne glielo cedevano vivo, quasi contente, urlando
ancora: «Viva Santa Rosalia!» Di quei miseri servi della polizia ne furono
salvati parecchi in tal modo, e pel momento venivano messi nei sotterranei del
Palazzo pretorio, dove almeno nessuno poteva più torturarli.
Così le turbe si aggiravano per la
città, passando da barricata a barricata pei vani lasciativi apposta; e
incontrandosi ai Quattro Cantoni si incrociavano, si acclamavano e si
confondevano come quattro correnti. Ivi un gran tendone tirato tra due palazzi
celava la metà di via Toledo verso porta Felice, all'altra metà di lì in su,
verso al Palazzo reale. Perciò i borbonici del Palazzo non potevano più
comunicare a segni con le loro navi da guerra del porto. Quel tendone era come
un immenso arazzo bene istoriato, e però spiaceva vederlo sforacchiare dalle
cannonate borboniche; ma dal Palazzo reale ci si erano accaniti contro. Diceva
un Cattaneo da Bergamo, rimasto loro prigioniero e mandato a Garibaldi per
certa ambasciata, con promessa sua che sarebbe tornato, come infatti volle
tornare; diceva che i borbonici già quasi ridotti a cibarsi di lattughe,
provavano dispetto e noia di quel tendone più che di tutto. Erano anche
arrabbiati, perché l'Ospedale militare pieno di risorse era stato preso dai
garibaldini.
Dunque tra gli strazi che si vedevano,
le buone notizie davano gran conforto. E si seguivano. Il bastione di Porta
Montalto era stato preso dal colonnello Sirtori, mosso dal convento dei
Benedettini alla testa di alcuni, che si erano lasciati mettere in petto il
fuoco dell'eroismo da quel prete soldato. I regi dell'Annunziata erano stati
costretti a sgombrare; e comparivano a Palazzo pretorio dei giovani che avevan
durato a star là giorno e notte per vincere quel posto. Venivano carichi di
armi, e alcuni portavano superbi mantelli tolti a quei nemici. Ma correvano
intanto gli annunzi delle morti e delle ferite. Adolfo Azzi, il forte timoniere
del Lombardo, era caduto con una coscia trapassata da una palla; Liberio
Chiesa, chiassoso ma prode, giaceva anch'egli con una gamba spezzata.
A confortar i feriti un po'
dappertutto, andava il prete Gusmaroli da Mantova, e portava loro i saluti dei
combattenti, e tra i combattenti tornava, serbando una calma e una pace di
cuore meravigliosa. Mai che impugnasse un'arma! Essere ucciso poteva; uccidere
no. Egli non voleva macchiare di sangue le sue mani di sacerdote. Andava così
vendicandosi a modo suo dell'offesa che gli aveva fatto l'Austria, impiccandoli
nella sua Mantova Orioli, Grioli e Speri e Poma e gli altri di Belfiore. E
siccome somigliava molto ai ritratti di Garibaldi, per questo, dove appariva, i
'Picciotti', credendolo il Generale in persona, sotto i suoi sguardi
gareggiavano a chi mostrasse d'aver più cuore. Egli aveva allora quarantanove
anni, ma se avesse saputo quali dolori gli serbavano gli altri dodici che
stette poi ancora al mondo, si sarebbe augurato di averne cento per morire se
non lo volevano le palle di qualunque altra morte, ma là, ma allora. Finì nel
1872, in una misera casupola della Maddalena, dove era suo solo conforto contemplare
almeno l'altra isola, quella di Garibaldi, dal cui cuore fu fatto cadere.
Bello e grande fu l'atto della 8°
Compagnia che, mantenutasi più compatta delle altre per l'ostinata voglia di
occupare la Cattedrale, vi riuscì finalmente alle quattordici di quel terzo
giorno. Rovinava allora lì a lato con indicibile fragore il palazzo del
principe Carini, incendiato da una bomba, come erano già rovinati i palazzi
Cutò, D'Azzale e altri. E allora appunto, in faccia ai borbonici di Palazzo
reale, quei bergamaschi invasero tutto il di fuori del tempio e dentro e su
fino il campanile. E di là si misero a tirare sui soldati stipati nella gran
piazza. Uccidevano a schioppettate gli artiglieri sui pezzi. Il loro capitano
Bassini li governava coi trilli di certo suo fischietto da cacciatore, fumando
alla pipa, tutto scoperto ai nemici che lo tempestavano di palle senza
toccarlo. Ma egli si credeva invulnerabile.
*
A quell'ora il generale in capo
Lanza, volendo tentare una disperata prova, mandò il generale Sary a ripigliar
la Cattedrale; e il generale Colonna a ripigliare i Benedettini, l'Annunziata,
Porta Montalto. Inutile sforzo, inutile strage. Tutti gli assalti furono
respinti dai garibaldini, dai 'Picciotti' e dai cittadini. I borbonici
lasciarono più di cento morti e forse quattrocento feriti, intorno alla
Cattedrale e per le vie percorse, ma ritirandosi incendiavano le case,
uccidevano gli inermi, violavano le donne. Erano diventati selvaggi, furiosi.
Forse facevano così, per dare l'ultimo sfogo all'odio secolare mantenuto vivo
contro l'isola in loro, sudditi dell'altra parte del regno; forse li faceva
divenir più crudeli lo spettacolo degli incendi, ardenti in più di sessanta
luoghi della città; tra i quali più grande e spaventoso quello del quartiere
intorno San Domenico, tutto in fiamme.
Ma se le sorti volgevano a male
per i borbonici, anche dalla parte di Garibaldi crescevano le angustie. Quella
sera non v'erano quasi più munizioni. Si lavorava a fabbricare polvere, ma non
ne veniva abbastanza pel bisogno, specialmente perché i 'Picciotti', come
scrisse poi Garibaldi, sparavano troppo. E da tutti i punti della città dove si
combatteva, giungevano uomini a chieder cartucce, come chi spasima per fame
chiede pane. Gli aiutanti del Generale rispondevano alzando le braccia muti: il
Sirtori, sempre tranquillo, raccomandava di dir dappertutto che le munizioni
giungerebbero, che intanto i combattenti s'ingegnassero con la baionetta. E
invocava la notte. Almeno ci sarebbero state alcune ore di riposo. E poi girava
già viva la voce che tra i regi fosse cominciato un grande scoraggiamento; si
diceva che altri loro ufficiali erano passati alla rivoluzione, tra i quali due
capitani del genio ed era vero; e ormai pareva certo che i dodicimila uomini
del Palazzo reale stessero isolati affatto, senza viveri e senza comunicazioni
col porto e con Castellamare. Dunque una risoluzione il loro generale l'avrebbe
dovuta prendere; o avventarli tutti a morire o capitolare. Ma venuta la notte
l'inquietudine non cessò, anzi faceva terrore il pensiero di quel che sarebbe
potuto succedere il mattino seguente; e quasi si agognava che fosse già l'alba,
per tornare nella furia invece di consumar l'anima in orribili fantasie.
Anche Garibaldi ebbe quella sera
un momento in cui quasi disperò. Gli avevano portato la nuova che erano
sbarcati alla Flora due battaglioni di bavaresi, gente aizzata da Napoli e per
tutta la traversata con feroci promesse, ed esaltata dalla lusinga d'aver essa
l'onore di dar il colpo mortale alla rivoluzione. Ma la notizia non era esatta.
I due battaglioni erano sbarcati sì, ma non alla Flora. E il generale Lanza
aveva commesso l'errore di chiamarseli al Palazzo reale. Dunque erano men da
temersi, stando essi nelle mani di chi non sapeva adoprar bene neppur le buone
truppe che aveva già. E Garibaldi si rassicurò. Ma quella era la notte del
dolore, ed Egli ebbe pur quello di venir a sapere che alcuni de' suoi, tre o
quattro in tutti, non potendo più star con l'animo alla paura, erano ricorsi ai
consoli stranieri, per farsi munire di passaporti. Il dolore che ne provò non
si può dire; la pena del suo disprezzo che inflisse a quei tali fu mortale. Uno
di essi, poi, che portava un bel nome nizzardo, era ricorso al consolato di
Francia! Il Generale ne pianse. Gli toccava là, nel pieno della sua grandezza,
fosse pure alla vigilia forse della catastrofe suprema, gli toccava là quella
atroce puntura di veder quel suo uomo aver riconosciuto con quell'atto che
Nizza era Francese! Egli, così proclive a compatire, a scusare, non perdonò; e
il nome di quell'uomo fu spento.
*
Il giorno appresso, mentre il
fuoco, riacceso in tutti i punti sin dall'alba, lasciava indovinare ne' regi
una certa stanchezza, ma teneva pur sempre in forse dell'esito finale,
Garibaldi ricevè un messaggio del generale Lanza. Questi che sin dal 28 aveva
chiesto all'Ammiraglio inglese d'intromettersi per imporre una breve tregua,
onde si potessero raccogliere i feriti e seppellire i morti, ma però senza
trattare egli con Garibaldi; e dall'inglese aveva ricevuto in risposta che
appunto a Garibaldi doveva rivolgersi: ora nel suo messaggio dava di Eccellenza
al 'Filibustiere'! E gli chiedeva un armistizio di ventiquattr'ore, e lo
invitava a un ritrovo con due suoi generali, per trattar d'altre cose.
Designava per luogo la nave ammiraglia inglese. Garibaldi concesse subito
l'armistizio, accettò l'invito al ritrovo, e da una parte e dall'altra fu
subito dato l'ordine di cessare il fuoco.
Erano le undici antimeridiane. Il
ritrovo doveva avvenire alle ore quattordici. Ma mentre Garibaldi trattava di
queste cose nel Palazzo pretorio, e sottoscriveva l'armistizio col Colonnello
messaggero del Generale nemico, gli giunse un grido di tradimento, propagato
sia da Porta Termini, grido terribile di cui veniva interprete a lui,
smaniando, quel prete Di Stefano che gli era apparso dei primi, il mattino del
27. Insomma a Porta Termini erano giunti a marcie forzate i cinque i seimila
uomini del Von Mechel e del Bosco, quelli che dal dì 24, credendo di inseguir
Garibaldi in fuga, erano andati fino a Corleone. Là, avendo alla fine saputo
l'inganno in cui erano caduti, s'erano rivolti volando al ritorno; ed adesso
erano lì alla porta stessa per cui Garibaldi era entrato in Palermo, furiosi,
sguinzagliati dai loro comandanti come belve fuor di catena. Una mezz'ora prima
che fossero sopravvenuti, entravano di lancio fino al Palazzo pretorio, perché
da quella parte della città le barricate non erano quasi guardate. E chi sa?
forse Garibaldi sarebbe finito davvero nella tragedia. Invano li avevano voluti
arrestare combattendo gli accorsi al grido del loro arrivo; i Bavaresi
avanzavano di barricata in barricata, erano già alla Fiera Vecchia.
Ma l'armistizio era firmato. Il
Colonnello borbonico, messaggero che si trovò di fronte a Garibaldi, a sentirsi
dare quasi di traditore, si offerse di andar egli stesso a fermare quella
terribile colonna, e andò lealmente. Garibaldi seguì. Tra via incontrarono il
colonnello Carini che veniva via di là, portato su d'una barella, ferito
gravemente ad un omero, e gridava di accorrere, di accorrere, che se no era
finita.
Alla vista del Colonnello
borbonico che sventolava un fazzoletto bianco, i Bavaresi si fermarono come
d'incanto. Ma i loro colonnelli Von Mechel e Bosco, quando seppero
dell'armistizio, parvero lì per lì per andare in pezzi dall'ira. Ah quel Bosco!
Egli siciliano, caro per certi liberi sentimenti a' suoi amici palermitani,
aveva fiutato nell'aria che la fortuna stava per passargli vicino e, smesse le
buone idee, si era preparato a pigliarla pei capelli. Quel Garibaldi cui,
secondo che si diceva, si era vantato d'aver mandato a sfidare a duello, egli
ora si era figurato d'averlo già nelle mani. Allora sarebbe divenuto il primo
uomo del regno. Che sarebbe più contato rimpetto a lui Nunziante, Ischitella,
Filangeri stesso e tutti insieme i vecchi servitori e salvatori della dinastia?
Era giovane, bello, prode, d'ingegno, stava per valore, nell'esercito borbonico
quasi come poi il colonnello Pallavicini stette in quello di Vittorio Emanuele;
Francesco II avrebbe regnato di nome, egli di fatto, e nella reggia e nel Regno
sarebbe stato più che re. Ma il gran miraggio gli si dileguò in quell'istante,
ond'egli rimase là alla Fiera Vecchia tempestoso. Però nella sua collera,
ispirava quasi ammirazione.
Cessato anche il fuoco alla Fiera
Vecchia come già per tutta la città, non si udì più che qualche colpo di
qualche mal disciplinato sperduto. Ma allora, peggior di quello del
combattimento, cominciò lo strazio dei feriti e dei morti da cercare. Se ne
trovaron dappertutto. Facevano grande pietà le donne, i vecchi, i fanciulli.
Quanti destini infranti, quante lacrime da essi lasciate dietro!
E dal Palazzo pretorio fu subito
dato l'ordine di riunire le Compagnie dei Cacciatori delle Alpi ciascuna a un
punto designato, dove si dovevano raccogliere tutti coloro che non fossero
impegnati alla guardia dei posti. Così oltre il numero dei morti, sarebbe stato
possibile sapere il numero dei feriti ricoverati negli ospedali o nelle case
dei cittadini. Allora avvennero gli incontri dei compagni che in qualche
momento di quei tre giorni si erano perduti di vista fra loro, e nella
confusione avevano partecipato ai fatti d'arme in punti diversi, dubitando
reciprocamente della vita gli uni degli altri, o avendo ricevuto notizie vaghe
di ferite e di morte. «E tu dove ti sei trovato? E tu cosa hai fatto, e dove
eri la notte tale? dove hai mangiato, dormito, vissuto?» Ve n'erano di così
storditi, di così disfatti dalle veglie, dalle fatiche, dalle emozioni, che non
sapevano nemmen essi che dire. Ma parlava per loro il loro aspetto. Di alcuni
che parevano riposati e pasciuti si mormorava. E così, alla grossa, si poté
fare il conto delle morti. Non erano molte. La vittoria di Calatafimi era
costata assai di più. Ma in Palermo le Compagnie avevano combattuto,
governandosi ogni soldato quasi da sé, esponendosi appena quant'era necessario
per far fuoco, e avanzando con quell'abilità naturale con cui si sa cogliere il
destro a scansare i danni, a pigliarsi i vantaggi. Invece moltissimi erano i
feriti, i più nel capo o nella parte superiore del torso. Le barricate avevano
salvato il resto della persona. Ed era stata fortuna, perché i feriti nelle
gambe morirono poi quasi tutti.
Molti più erano i morti
borbonici. In certi luoghi, come al bastione di Porta Montalto, erano così
fitti, che non si capiva chi ne avesse potuti uccidere tanti. Ma quasi nessun
ufficiale tra loro. Di questi, in tutti i tre giorni, non ne morirono che
quattro, misera testimonianza del valore di quella ufficialità, se pur non fu
una manifestazione di sentimento già nato negli animi, almen dei giovani,
quello dell'inutilità d'ogni sacrificio contro colui che, impersonando la
milizia di un altro Re, rappresentava un'idea della quale sarebbero stati
volentieri soldati.
In quel pomeriggio, tutti si
misero a dar una ripulita alle armi; poi chi di qua chi di là, i più andarono a
visitar i compagni feriti o a trovar le famiglie dalle quali erano capitati,
durante quell'inferno dei tre giorni, per caso o per chiedere un tozzo o un
sorso. E là erano accoglienze da principi. Ve ne furono che capitarono in casa
di gente altolocata ma malveduta dal popolo, e che senza saperlo servirono di
copertura agli ospiti da cui furono tenuti in casa come guardie. Altri furon
visti accompagnar di qua e di là tra la folla famiglie sgomente che, così
protette, si facevano condurre nei monasteri o alla marina, dove si imbarcavano
per andare al sicuro su qualche nave, ad aspettare il resto della tragedia.
Perché ventiquattr'ore di armistizio sarebbero presto passate.
Intanto allo Stato Maggiore, il
Turr, il Sirtori, gli altri non perdevano il tempo, e tutto quel pomeriggio fu
dato loro a fabbricar polvere, a ordinare un poco i 'Picciotti', a far mettere
in batteria certi vecchi cannoni cavati fuori da dove erano stati nascosti nel
1849. Altri ne furono messi su, avuti in dono o comprati dai bastimenti
mercantili che stavano in rada. E i 'Picciotti' vi facevano intorno la ronda,
li lustravano e li coprivano di immagini sacre, improvvisavano fin delle laudi
a quei bronzi, come se fossero eroi o santi. Il giorno appresso si sarebbe
sentita la loro voce. Nei luoghi della città più affollati, sebbene
l'andirivieni fosse più che mai vivo, bande musicali suonavano arie
patriottiche dell'Attila, dei 'Due Foscari', dei 'Lombardi', o inni del
Quarantotto; qualcuno suonava già anche «Si scopron le tombe...» E, cosa
meravigliosa, invece di far adagiare gli animi nella speranza che la lotta non
ricominciasse più, l'armistizio li aveva ancora concitati. Perciò si vedevano
le gronde dei tetti, i balconi, le finestre, sempre più carichi di materiale da
buttar giù; e tra la gente che lavorava a far sempre più alte le barricate, si
sentiva dire con sicurezza che neppure centomila uomini avrebbero più potuto
venir da fuori al Palazzo pretorio.
Queste erano esagerazioni
battagliere. Ma cosa grande davvero, che passa l'immaginazione, fu sul tardi il
ritorno di Garibaldi dal suo abboccamento coi generali borbonici Letizia e
Chrétien, avvenuto a bordo della nave ammiraglia inglese. Egli vi era andato
lasciando in angoscia indicibile chi lo sapeva. Ed essendo giunto a un luogo
del porto detto la Sanità, proprio nel momento in cui vi giungevano i generali
nemici, l'ufficiale della lancia inglese non sapendo che far di meglio, lo
aveva imbarcato insieme con quei due. Come si sentissero in compagnia di
quell'uomo in semplice camicia rossa essi tutti galloni, non è facile
immaginare; ma narrava il capitano Cenni che parevano aver voglia di far
l'altezzoso. E difatti nelle trattative, una volta a bordo e cominciata la
conferenza, il general Letizia affettava di non rivolgersi a Garibaldi, e
parlava con una certa alterigia. Ciò dispiacque all'ammiraglio Mundy e ai
comandanti navali francese, americano e sardo, che egli aveva chiamati sulla
sua nave, perché assistessero al colloquio. E questo si mutò presto quasi in un
diverbio. Il Mundy, ospite, ebbe anzi un bel da fare onde Garibaldi, pur con
ragione, non trascendesse. Il Letizia aveva tra l'altre cose osato chiedergli
che la rappresentanza cittadina di Palermo facesse un atto di sottomissione al
suo Re. E allora Garibaldi proruppe che la rappresentanza cittadina era in lui
Dittatore, e rotta ogni trattativa si ritirò. Ma nel partirsi da bordo si
rivolse al Comandante americano Palmer, confidandogli rapidamente e a bassa
voce che in Palermo non aveva quasi più munizioni, e raccomandandosi a lui
perché, se potesse, gliene mandasse. Così tornò a terra.
Ma nel breve tragitto dalla
marina al Palazzo pretorio, ebbe uno di quei momenti nei quali gli eroi pagano,
per dir così, il fio della loro grandezza. Lo pagano con la tempesta che si
scatena loro nell'animo, come avvenne al Mazzini nel 1833, nell'ora terribile
in cui si trovò a lottar tra l'idea sua, che egli chiamava dovere, e il
sacrificio di tanti, che per quell'idea suscitata da lui, si offrivano alla
rivoluzione, alla galera, alle forche. E così come narrò di sé il Mazzini, di
sé e di quel suo momento narrò Garibaldi. «Confesso che non ero scoraggiato; ma
considerando la potenza e il numero del nemico e la pochezza dei nostri mezzi,
mi nacque un po' d'indecisione sulla risoluzione da prendersi, cioè se
convenisse continuar la difesa della città, oppure rannodare tutte le nostre
forze e ripigliar la campagna. Quest'ultima idea mi passò per la mente come un
incubo, ma la allontanai da me con dispetto: trattavasi di abbandonar la città
di Palermo alle devastazioni di una soldatesca sfrenata! Mi presentai quindi
quasi indispettito con me stesso al bravo popolo dei Vespri.»
Apparve di fatto dal balcone
sinistro del Palazzo, nel lampo delle invetriate che, mentre si aprirono,
scintillarono percosse dal sole già basso verso Monte Pellegrino, e a capo
scoperto, come Ferruccio ai suoi, prima di Gavinana, parlò. Breve, pacato, con
voce che suonò come un canto, disse che il nemico gli aveva fatto delle
proposte ingiuriose per Palermo e che egli, sapendo il popolo pronto a farsi
seppellire sotto le rovine della sua città, le aveva rifiutate.
V'è ancora qualcuno, vivo, al
mondo, che, sebbene sia passato quasi mezzo secolo, si sente sempre nell'anima
quella voce. E ancora vede ciò che vide in quell'ora. Vede quella moltitudine
che non balenò neppur un istante, e che alle ultime parole di Garibaldi ruppe
in un grido solo: «Sì! Sì! Grazie! Grazie!» con una levata di mani, di fronti,
di cuori, tale da fare impallidire lui, pel sovrumano peso che gli imponeva,
accettando l'onore di lasciarsi sacrificare. Egli guardò un poco, poi si tirò
dentro '«ritemprato (lo narrò nelle sue 'memorie') e da quel momento ogni
sintomo di timore, di titubanza, d'indecisione» gli sparve.
Il discorso di Garibaldi comparve
poi subito stampato sotto forma di Proclama alle cantonate. Diceva così: «Il
nemico mi ha proposto un armistizio. Io accettai quelle condizioni che
l'umanità dettava di accettare, cioè ritirar le famiglie e i feriti: ma fra le
richieste, una ve n'era ingiuriosa per la brava popolazione di Palermo, ed io
la rigettai con disprezzo. Il risultato della mia conferenza d'oggi fu dunque
di ripigliar le ostilità domani. Io e i miei compagni siamo festanti di poter
combattere accanto ai figli dei Vespri una battaglia, che deve infrangere
l'ultimo anello di catene con cui fu avvinta questa terra del genio e
dell'eroismo.»
Parrà forse dir troppo ma è
verità. La sera di quel giorno, proprio come se ricorresse la sua festa di
Santa Rosalia, Palermo si illuminò tutta. Lasciamo stare che i palazzi e le
case dei ricchi nelle grandi vie fecero addirittura la luminaria; ma non vi fu
casupola per quanto povera e nascosta ne' vicoli, che non avesse il suo lume a
ogni finestra. E la notte passò in cene e canti e fino in danze. Per prepararsi
alla ripresa della guerra, se guerra doveva ancora esservi, si avrebbe avuta
poi tutta la mattinata appresso.
Ma quando fu mezzodì e i
combattenti erano tornati tutti ai loro posti, pronti a ricominciare, fu fatto
dire dappertutto che l'armistizio era prolungato di tre giorni. Allora entrò
nei cuori che in quanto a Palermo i regi avevano finito. E tanto più crebbe
l'idea quando si arrese la compagnia che custodiva il palazzo delle Finanze in
piazza Marina, dove giaceva un tesoro di cinquanta milioni di ducati. Avevano
messo il blocco al palazzo una ventina di Garibaldini e un nugolo di popolani,
appostati intorno a distanza, vigili giorno e notte, e così il denaro della Sicilia,
rimaneva in Sicilia.
Durante quell'armistizio,
stettero le due parti ai loro posti, ognuna con le proprie sentinelle piantate
a farsi guardia contro la nemica. E in certi punti della città, le sentinelle
si trovavano a essere così vicine fra loro, che in quattro passi potevano
gettarsi a zuffa l'una sull'altra. Perciò in quei luoghi insieme coi
'Picciotti', che dal grande odio non avrebbero saputo stare senza insultarsi o
saltare addirittura sui napolitani, fu messo un gruppo di Garibaldini. E talvolta
avveniva che dei soldati napolitani qualcuno o la sentinella stessa, da una
parola all'altra, si lasciava tirare a conversare coi Garibaldini, perdeva la
testa, dava indietro un'occhiata, tentennava un poco, e poi scattava via di
lancio a rifugiarsi tra loro, abbracciato, baciato, portato via in trionfo per
la città. Così, alla Fiera Vecchia, anche i Bavaresi disertarono a dozzine,
ultime figure di mercenarii che avevano fatto quell'ultima apparizione in
Italia.
Magnanimo veramente era stato il
primo giorno Francesco Crispi che, appena sottoscritto l'armistizio, si era
ricordato subito del Mosto e del Rivalta, rimasti in mano dei borbonici, nella
ritirata dal Parco. Egli, segretario di Stato del Dittatore, corse a
Castellamare per farne lo scambio con due ufficiali superiori nemici,
prigionieri. Entrò nel forte superbamente, e chiese dei due Garibaldini. Di
Garibaldini prigionieri non v'era che il Rivalta; dell'altro, quei del Castello
non sapevano nulla. Il Rivalta sì, sapeva dove era il suo povero amico; ma non
lo disse, temendo che il Crispi infuriasse, e tirasse fors'anche su di sé e su
di lui la bestialità di alcuno di quei biechi soldati. Diceva il Comandante del
Castello che il Mosto era forse dal generale Lanza nel Palazzo Reale. Il Crispi
uscì per andarvi, ma tra via il Rivalta, gli narrò che il Mosto esile e stanco,
nella ritirata dal Parco era caduto sfinito su per l'erta del monte e che
sopraggiunti i Cacciatori era stato trafitto a baionettate. Egli, il Rivalta,
aveva visto da pochi passi più in su morir l'amico a quel modo, e sarebbe
toccata anche a lui la stessa sorte, se un giovane ufficiale non avesse
persuasi i Cacciatori a serbarlo per averne informazioni su Garibaldi. Salvato
così, lo avevano mandato al colonnello Bosco e poi a Palermo, dove era stato
chiuso in una casamatta del Castello, e tra le minacce e gli insulti ivi tenuto
sino a quel momento. Ma dalla mattina del 27, quando si era sentito sopra il
capo tremar le volte al tuonar dei mortai, aveva sperato, gli si era allargato
il cuore.
Sparsa la notizia tra i
Carabinieri genovesi, andò al Parco Antonio Mosto con alcuni amici; e sul
monte, ancora nel posto dov'era stato ucciso, trovò il suo fratello, dolce e
gracile giovine, da otto giorni insepolto. E nello stesso posto lo seppellì.
*
Garibaldi, un di quei giorni,
verso sera, fece una passeggiata a cavallo per la città, passando pei luoghi
dove le barricate erano meno fitte. Dire che accoglienze gli faceva il popolo
parrebbe ora poesia, ora che il mondo è tanto mutato. Miravano le turbe quella
figura dolce, e non sapendo ben capire come ad essa convenisse il gran nome
guerriero, chinavano religiosamente la fronte, o gli si protendevano come ad un
essere sovrumano. Non era difficile immaginare le folle deliranti di certi
altri paesi prostrate per voluttà di farsi schiacciare dai carri sacri. Egli
correggeva con lo sguardo quei fanatismi.
Spirato quel termine di tre
giorni, fu prolungato l'armistizio di altri tre. Si indovinava in ciò gli
ondeggiamenti della Reggia di Napoli, dove il re mite e le donne fiere tenevano
la questione sospesa tra i consigli di chi voleva che Palermo fosse tutta
ridotta in rovine, e il vecchio saggio Filangeri che ammoniva il Re,
supplicandolo di non si mettere da sé, con quell'eccidio, al bando di tutta
l'Europa liberale. E il suo consiglio prevalse. Così al terzo armistizio seguì
una convenzione, per la quale i regi si obbligavano a sgombrar Palermo, però
con l'onore delle armi. Garibaldi concesse. Andassero pure onorati! Erano
italiani anch'essi, e nel trattarli così, egli poteva dire di riportare
un'altra vittoria.
E il giorno 8 giugno fu uno
strano spettacolo. Al cospetto di molto popolo in festa, dinanzi a forse
quattrocento Cacciatori delle Alpi raccolti per quella cerimonia, sfilarono i
ventimila soldati dell'esercito regio, soldati di tutte le armi. Dove andavano,
dove si sarebbero ancora incontrati a combattere con quei loro vincitori che,
così pochi, avevano dietro di loro l'Italia Nuova? Non sapevano, ma pareva
sentissero che il mondo abbandonava il loro sovrano. Tuttavia, se passavano
senza fierezza, non avevano aria avvilita. I soldati avevano combattuto.
Allora Palermo festeggiò sé
stessa magnificamente, e quelli che chiamava i suoi liberatori. Essi, in
venticinque giorni dalla partenza da Genova, avevano vissuto quanto si può
vivere in parecchi anni, e veduto e sentito quanto in un lungo viaggio, per
terre di civiltà antiche e venerande. E avevano anche potuto meditare sugli
effetti delle rivoluzioni compiutesi, durante l'ultimo secolo, nell'alta Italia,
dove se le miserie della vita erano ancora molte, certa somma di beni s'era pur
cumulata nelle città e nelle campagne, e di questi beni tutti ne avevano
risentito. Ma là nell'Isola, rimasta nel silenzio e nella solitudine, senza
essere stata toccata dalla rivoluzione francese, quasi tutto era ancora come
doveva essere stato parecchi secoli indietro. Grandezze da principi in una
classe ristretta; povertà, ignoranza e superstizione nella grossa moltitudine;
e, salvo le grandi città, assenza quasi assoluta di quel ceto di mezzo colto,
ricco, operoso, che nell'alta Italia teneva già sin da allora in pugno le sorti
sociali. Però l'anima siciliana si rivelava pronta a liberarsi da quanto di
troppo vecchio la impediva, e capace di rimettere in breve il gran tempo
perduto. Ma queste eran cose da lasciarsi al poi. Per allora bastava che
l'Italia spingesse avanti l'opera iniziata dai Siciliani e dai Mille. Questi si
sarebbero modestamente confusi nell'onda grossa di volontari che essa avrebbe
mandati, come infatti mandò.
Ma nei giorni che corsero tra lo
sgombro dei regi e l'arrivo di quella che fu chiamata la seconda spedizione
condotta dal Medici, le gioie che Palermo fece loro godere furono cose da
novelle orientali. Banchetti e festini, uno che aspettava la fine dell'altro
per cominciare. I Mille, smessi i panni borghesi, vi comparivano nelle loro
fiammanti camicie rosse, mirabili le Guide nelle pittoresche divise tra
ungheresi e francesi; mirabili i Carabinieri genovesi in un costume severo e
quanto mai signorile.
Ogni tanto, però, si faceva
qualche gran funerale di morti per ferite, perché grandiosa e solenne doveva
essere in Palermo anche l'ospitalità della tomba. Così certi umili volontari
che, morti nelle loro case, sarebbero stati accompagnati al cimitero da pochi
umili come loro, ebbero esequie da grandi. Quelle di Adolfo Azzi morto il 4
giugno, quelle del colonnello Tukory morto il dì 8, furono apoteosi. Intanto
alla gioia veniva a mescersi certa mestizia. Era di quella che le grandi cose
lasciano nel cuore, quando sono compiute. Gli animi alacri e lieti della
vigilia cambiano godimento nella tristezza di poi.
Quanto a quelli che avanzarono
dopo Palermo, alcuni andarono a morir a Milazzo come Vincenzo Padula da Padula,
Gaetano Erede da Genova e Giuseppe Poggi, il bello ed eroico Poggi, cui
Garibaldi aveva ammirato a Calatafimi. Pilade Tagliapietra da Treviso, Giuseppe
Profumo da Genova, Pietro Zenner da Vittorio e l'angelico Ernesto Belloni da
Treviso, caddero a Reggio Calabria; Angelo Cereseto e Giovanni Battista
Roggerone, Quirico e Pietro Traverso, tutt'e quattro genovesi, e Innocente
Stella da Arsiero, morirono in battaglia sul Volturno, e a Villa Gualtieri, il
1° ottobre. Così in tutti, dei Mille, da Calatafimi al Volturno, quelli che
morirono in quel grand'anno furono settantotto. Altri come il Nullo ed Elia
Marchetti andarono presto a morir in Polonia cavalieri poeti della libertà;
altri ancora come Raniero Taddei e Antonio Ottavi da Reggio Emilia e Stefano
Messaggi milanese, morirono combattendo, ufficiali dell'esercito, a Custoza; o
come Vincenzo Dalla Santa e Giuseppe Dilani camicie rosse, nel Trentino.
Finirono a Mentana Vigo Pelizzari e Antonio Caretti; alcuni, come Giuseppe
Gnecco da Genova e Luigi Perla da Bergamo, morirono in Francia, combattendo ne'
Vosgi contro i Prussiani. Di morte naturale, nei primi dieci anni dopo il '60,
morirono quelli che erano già quasi vecchi al tempo della spedizione, ma anche
molti, massime dei più giovani, consumati dalla tisi. Non pochi finirono di
malattie mentali; troppi si spensero da sé, non rimasti abbastanza forti alla
vita.
Si dice che a Quarto sorgerà un
giorno un monumento con su tutti i nomi dei Mille incisi nel marmo. Sarà cosa
che onorerà la patria; ma lo scoglio da cui Garibaldi scese a imbarcarsi, è da
sé monumento cui la poesia fece già più duraturo d'ogni marmo e d'ogni bronzo,
essa che vince il silenzio dei secoli!
Fine
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