Ma la Nazione non aveva nessun
dovere di sentimenti pietosi. E allora la voce di Mazzini che dopo la pace di
Villafranca aveva gridato: «Al Centro mirando al sud,» si mise a gridare: «Al
Sud mirando al Centro, Roma:» e infiammò i cuori, e diresse le aspirazioni
degli italiani del Nord verso la Sicilia. Egli e i Comitati suoi e il partito
repubblicano che nel 1859 aveva saputo lealmente servire in guerra la
monarchia, s'accinsero al preparar un'impresa che pareva folle, e che invece
doveva riuscire a fini meravigliosi. L'uomo per condurla, tutti lo designavano:
Garibaldi.
Intanto Mazzini aveva fatto
partir per la Sicilia Rosolino Pilo. Era questi un uomo di quarant'anni, nato
in Palermo dalla famiglia dei conti Capeci, sangue d'Angiò, tutta devota ai
Borboni. Egli unico di quella famiglia aveva dato il suo cuore alla patria. Dal
'49 era esule; nell'esiglio aveva conosciuto Mazzini e n'era divenuto
l'apostolo. Nel 1857, doveva andar compagno di Pisacane alla impresa finita in
Sapri; ma i barcaroli coi quali aveva aspettato il passaggio del vapore
Cagliari, lo avevan mal servito, il vapore era passato, ed egli era ridisceso a
Genova, a sentir poi la tragica fine dell'amico. Da allora aveva vissuto con
quella spina nel cuore. Ora, d'intesa con Mazzini e con Garibaldi, partiva il
26 marzo su di un povero legno viareggino per l'isola sua. Garibaldi gli aveva
detto che qual si fosse il suo destino laggiù, rammentasse che tutto vi si
doveva fare in nome dell'Italia e di Vittorio Emanuele. Pilo, repubblicano,
aveva accettato il motto, ed era partito con Giovanni Corrao, anche questi
siciliano, arditissimo uomo del popolo. Avevano navigato quattordici giorni,
erano riusciti a sbarcar presso Messina, e s'eran messi a percorrere l'isola,
annunziando Garibaldi.
Anche Cavour era ormai quasi
convinto che non si poteva più lasciar la questione napolitana al tempo, ma gli
doleva che Garibaldi e Mazzini si pigliassero col loro partito l'onore d'essere
i primi. E perciò d'accordo col Fanti, Ministro della guerra non amico di
Garibaldi, avea già fatto profferire al nizzardo generale Ribotti d'andar in
Sicilia a capitanarvi l'insurrezione. Ribotti gli pareva uomo da ciò. Era stato
al servizio della rivoluzione siciliana del '48; per essa aveva tentato di
portar l'armi in Calabria, era stato preso e condannato, e aveva sofferto anni
di carcere dai Borboni. Ma Ribotti non aveva accettato. Forse indovinava che
laggiù, solo il gran nome di Garibaldi e l'ingegno suo di guerra e la sua
figura, avrebbero potuto trovar la vittoria.
*
In quei giorni venne come la
folgore una lieta notizia: a Palermo era scoppiata l'insurrezione. E si diceva
che all'alba del 4 aprile, da un convento chiamato della Gancia, un Francesco
Riso, giovane di 28 anni, aveva con alcuni compagni data la mossa, e che un
Salvatore La Placa s'era azzuffato con la milizia, in certi quartieri della
città abitati da pescatori e retaioli. Ma la gioia si cambiò in ira quando,
subito appresso, oggi una voce, domani l'altra, si seppe che quei generosi
erano stati oppressi; che le squadre di campagna, già scese vicino a Palermo,
s'erano ritirate nei monti; che tredici compagni di Riso, oltre quelli morti
combattendo, erano stati fucilati; che egli giaceva pieno di ferite e
prigioniero; che lo stato d'assedio era proclamato, e che erano arrestati il
padre di Riso con altri cittadini cospicui di Palermo. Dunque la rivoluzione
era domata! No, non doveva essere: l'Italia superiore la faceva sua propria.
Da quel momento tutti
cominciarono a chiedere che facesse Garibaldi, e se non si muovesse, e se non
era ancora andato, e perché non fosse ancora laggiù. E non dicevano già, che
dovesse muoversi il governo di Vittorio Emanuele; tutti avevano il sentimento
del rischio cui si sarebbe messo d'aver mezza Europa addosso: a tutti bastava
che si muovesse lui, Garibaldi, che quanto a gente per seguirlo ce ne sarebbe
stata anche troppa. Ma si sentiva che bisognava far presto, perché il Governo
borbonico aveva compreso che la Sicilia non mirava più, come nel '20 e nel '48
a separarsi da Napoli o a rifarsi regno da sé; ma che il suo moto era di
tendenze unitarie, con mira all'Italia superiore. Perciò quel Governo
prometteva largamente strade ferrate, portifranchi, casse di sconto, prestiti
alle grandi città; mentre si ingegnava di reprimere la insurrezione
nell'interno, mandando colonne mobili a disarmare la gente. Se Francesco II
avesse dato una costituzione quale l'isola la voleva del '48, chi poteva dire
che la Sicilia non si sarebbe acconciata? Bisognava proprio far presto.
*
Non si vuol mica dire che nel
settentrione i liberali bruciassero tutti dal desiderio di vedere andar gente
ad aiutar la Sicilia e Napoli a liberarsi dai Borboni, a unirsi al resto
d'Italia. V'erano allora i ragionatori che trovavano gli argomenti forti in
contrario. Ma come mai si voleva fare un solo stato di quest'Italia così lunga
e sottile, senza un centro, e nel napoletano senza strade né nulla? Eh già, rispondevano
altri, ragionatori anch'essi, queste cose le diceva pure Napoleone I. Diceva
che se tutta la parte d'Italia dal Monte Velino in giù e con essa la Sicilia
fosse stata gettata dalla natura tra la Sardegna e la Corsica la Toscana e
Genova, la Penisola avrebbe avuto un centro quasi egualmente distante da tutti
i punti della sua circonferenza: ma così come era fatta, quella parte dal
Velino che formava il Regno di Napoli, gli pareva di clima, d'interessi, di
bisogni, diversi da quelli di tutta la valle del Po e di quella dell'Arno. Però
non avrebbe detto così se a' suoi tempi avesse avuto il telegrafo, la
navigazione a vapore, le strade ferrate. Tutte queste cose levavano via
dall'Italia un bel po' degli inconvenienti della sua configurazione. Del resto,
Napoleone aveva soggiunto che nonostante tutto, l'Italia era una sola nazione,
una di costumi, di lingua e di letteratura; affermava che in un tempo più o
meno lontano i suoi abitanti si unirebbero sotto un solo governo; e passate in
rassegna le condizioni storiche di tutte le grandi città, dichiarava
solennemente di pensare che Roma sarebbe senz'altro quella che gli Italiani si
sceglierebbero per capitale.
Altri ragionatori dicevano che il
Re di Napoli teneva un esercito di più di 120 mila soldati, bene armati e con
cavallerie e artiglierie delle migliori d'Europa. Era vero. Ma ai giovani che
ascoltavano solo il cuore, il cuore diceva una cosa molto semplice, cioè che
quei cento ventimila soldati non erano tutti, come un sol uomo, nel pugno di
quel Re, così che ei li potesse lanciar di colpo nel punto dell'isola dove
Garibaldi anderebbe a sbarcare. Allora i savi soggiungevano che intorno
all'isola vigilava una crociera di chi sa quante navi, forse trenta, forse
quaranta: ma quelli del cuore sentivano che se anche le navi fossero tante, il
mare era vasto, e che una catena intorno all'isola non era possibile a tenersi
così stretta, che di notte o di giorno un marinaio come Garibaldi non riuscisse
a passare.
(NdA: Si seppe poi, a cose
finite, che la crociera intorno all'isola era composta di 14 legni e di 2
rimorchiatori da guerra, con aggiunti ad essi 4 piroscafi mercantili della
Società di navigazione siciliana e 2 della napolitana, armati e dati da
comandare ad ufficiali militari. In tutto adunque erano 22 legni. La vigilanza,
da Capo San Vito a Mazzara, era affidata alla Partenope, fregata a vela da 60
cannoni; al Valoroso, pure a vela da 12 cannoni; allo Stromboli, pirocorvetta
da 6 cannoni e al Capri, da 2. Comandavano quella crociera, un Cossovich capitano
di vascello imbarcato sulla Partenope, e sullo Stromboli era imbarcato l'Acton,
baldanzoso uomo che partendo da Napoli aveva detto al Re di voler buttar a mare
Garibaldi. Da Mazzara a Capo Passaro, da Capo Passaro al Faro, dal Faro a
Trapani, incrociava il resto della flotta.)
Invece una preoccupazione grave
davvero, e tale da togliere l'ardire a molti, riguardava il poi, se mai la
spedizione sbarcasse. Della Sicilia si sapeva poco qual fosse nell'interno.
Nella sua solitudine pareva quasi fuor della vita. E quasi più del suo tempo
presente si sapeva del suo passato ma bene antico. Molti parlavano di quelle
sue città di due milioni d'abitanti, del suo popolo d'otto milioni che nutriva
sé eppure faceva ancora chiamar l'isola sua granaio d'Italia; sapevano enumerare
le sue civiltà, greca, latina, araba; la sua monarchia normanna che seppe
valersi di quelle civiltà, farsi amare dai vinti e lasciare, a traverso i
secoli, il desiderio ancora di quel regno. Ma all'infuori dei marinai, chi mai
sapeva della Sicilia presente? Chi vi era mai stato? Forse qualche ricco, e
anche soltanto nelle grandi città, Palermo, Messina, Catania, Siracusa; ma
l'interno dell'isola non era guari conosciuto neppur sulla carta. Però si
indovinava e si amava il suo popolo, perché avevano insegnato a pregiarlo i
suoi profughi, ne' dieci anni da che stavano rifugiati in Piemonte; gente
degna, patrizi, letterati, avvocati, medici, architetti o artigiani valenti e
virtuosi. Se dalla Sicilia era venuto via quel fior di gente, non poteva darsi
che non vi fosse laggiù un popolo degno di loro; bisognava andarvi, per dir
così, a scarcerare l'anima dell'isola, farla espandersi nella vita italiana.
Quante energie, quanta luce, quante virtù, aggiunte all'anima della nazione!
Queste cose non si pensavano per l'appunto così, ma si sentivano vagamente,
come nell'adolescenza si sentono le prime aure dell'amore cui si va incontro, e
sono la vita.
Ma intanto, quale rischio
l'andarvi! Certo Garibaldi si sarebbe gettato su qualche costa, lontano dalle
città marittime, dove non fossero milizie, per non farsi opprimere appena
giunto. E da quella costa si sarebbe mosso a trovar nell'interno sui monti
qualche posizione forte, per chiamarvi a sé gli insorti e fare un esercito tale
da poter affrontare in campo quello dei regi, o magari piombar sulla capitale.
Ma quanti scontri avrebbe dovuto sostenere nelle sue prime marcie, e chi mai
sapeva in quali condizioni? E se gli fosse avvenuto di perdere? Pazienza i
morti, ma i feriti, in che mani sarebbero rimasti? Come li avrebbe trattati il
nemico offeso per quell'assalto che gli veniva da gente di fuori? E chi fosse
riuscito a salvarsi da quelle mani, in quali boschi, in quali tane, senza cure,
solo, disperato sarebbe andato a finire? Si fantasticavano cose orrende. Eppure
l'aria del tempo, la fede in Garibaldi e una certa voluttà di andare a patire
per una grande idea, faceva vincere anche quelle tetre preoccupazioni.
E appunto, qual era allora lo
spirito dell'esercito del Borbone? A sentir gli esuli siciliani e napoletani,
in quell'esercito v'erano dei generali, dei colonnelli, persin dei vecchi
capitani, che sapevano bene quanta era stata la gloria dei loro padri. Da
fanciulli li avevano visti tornare dalle guerre napoleoniche di Spagna e di
Russia, dopo aver empito il mondo delle loro geste e dei loro nomi. Nel 1815 li
avevano visti sotto re Gioachino tentar l'impresa di cacciar l'Austria dalla
Lombardia. Nel 1848 avevano marciato essi stessi alla guerra quasi fino al Po;
erano tornati indietro afflitti, quando il loro Re spergiuro li aveva
richiamati; e quelli che non avevano ubbidito ed erano andati a Venezia, vi si
erano fatti ammirare. Pepe, Ulloa, Rossarol! Appresso, a sentir le risorte
glorie dei Piemontesi in Crimea e poi quelle recenti del 1859, dovevano aver patito
di non essere stati mandati a quella bella guerra, fatta per cacciare lo
straniero. E così forse era entrato nell'animo dell'esercito lo scontento. Ma
in quel momento non si sapeva se amassero o odiassero. Forse contro i
piemontesi avrebbero combattuto fieramente, se ne fossero scesi nel Regno a
guerra di Re: ma contro Garibaldi avrebbero combattuto solo per disciplina.
Dovevano anche trovarsi nelle file molti ai quali quel nome incuteva sgomento.
Non era egli colui che undici anni avanti si era fatto conoscere a Velletri e a
Palestrina, quando i napolitani erano marciati su Roma per rimettere il Papa in
trono? Insomma, bene bene non si sapeva nulla dello spirito vero dell'esercito
laggiù: certo, a volerlo giudicare dalle opere contro la Sicilia, doveva essere
feroce ancora come era stato nel '48. Ma si sarebbe visto alla prova cosa
valessero quelle milizie in cui ufficiali e sott'ufficiali avevano quasi tutti
grossa famiglia; e si sarebbero visti anche gli stranieri mercenari che non si
chiamavano più svizzeri, ma di svizzeri erano formati e di bavaresi e
d'austriaci, d'un po' d'ogni gente.
In quanto alla marineria, saperne
qualcosa sarebbe stato più interessante. Ma neppur essa si conosceva guari.
Però degli ufficiali malcontenti ve ne dovevano essere; e anzi, alcuni dicevano
che quelli del Fieramosca, quando nel gennaio del '59 avevano scortato a
Gibilterra i grandi cittadini del Regno liberati dalle galere ma condannati
alla deportazione, erano stati visti con le lagrime agli occhi e il dolore sul
viso.
Così dicevano i meridionali
profughi antichi o recenti dal Regno. Tra essi i Siciliani erano i più ardenti.
Parlavano della loro isola, facendone ritratti vivissimi coll'immaginosa
parola. I loro Vespri parevano un fatto recente. Conoscevano la storia della
loro indipendenza dai Vespri fino al 1735, come se l'avessero vissuta; si
vantavano di aver avuta da quell'anno bandiera e amministrazione distinta dalla
napolitana, e Parlamento proprio: tutte cose confermate nella Costituzione del
1812, quando i Borboni, perduto il continente, si erano rifugiati laggiù e vi
avevano trovato sicurezza, protetti dalla generosità del popolo e
dall'Inghilterra. Ma essi, tornati sul trono di Napoli, avevano poi tradito
tutto, e cominciato a offender l'isola e il suo popolo, chiamandola negli atti
pubblici: «Terra di là dal faro», quasi come a dire paese barbaro. Onde le sue
rivoluzioni del '20 e del '48, e un odio crescente sempre e tanto, che l'isola
si sarebbe messa sotto l'Inghilterra, la Russia, la Francia, sotto chi si fosse
che l'avesse voluta, pur di esser levata da dipender da Napoli. Ora quella
passione si rivolgeva all'Italia, a chiamar lei, l'Italia del nord che doveva
ascoltarla. E Garibaldi dov'era, che cosa faceva?
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