PARTE SECONDA.
Sapeva Garibaldi ciò che faceva,
né in Talamone stava certo a perdere tempo. Ivi doveva trovare le munizioni da
guerra o andar avanti lo stesso a pigliarle in Sicilia al nemico. Ma frattanto
vi faceva dar forma alla spedizione, comporre le compagnie combattenti e tutti
i corpi che deve avere un esercito per entrar in guerra. Non poteva già
scendere in Sicilia alla testa di uno stormo disordinato!
Al suo quartier generale diede
per capo il colonnello Stefano Turr che allora aveva trentacinque anni. Da
giovane tenente dell'esercito austriaco, il Turr era passato in Piemonte l'anno
'49; sapeva cos'era stato il dolore della sua Ungheria e dell'Italia
quell'anno; sapeva cosa voleva dire essersi trovato condannato a morte e
liberato quasi nell'ora del supplizio, e cos'erano le gioie e le ansie del
cospiratore nell'impaziente attesa della riscossa. Aveva combattuto l'anno
avanti sotto Garibaldi in Lombardia, e a Tre Ponti aveva sparso il suo sangue
tra i Cacciatori delle Alpi. Bellissimo uomo, alto e diritto, con due gran
baffi e un gran pizzo scuri, e occhi pensosi ma vigili e mobilissimi sotto la
fronte quadrata a torre. Novecento anni avanti sarebbe stato un fiero capo di
quegli Ungheri che vennero a turbare il regno di Berengario; ma ora, con la
gentilezza acquistata dalla sua gente nei secoli e la sua nativa, era un
cavaliero che poteva tenere scuola d'ogni cortesia. Finita quella guerra
divenne diplomatico, apostolo di lavoro e di pace. Scavò canali di navigazione
nella sua Ungheria, tagliò l'istmo di Corinto; va ancora pel mondo gridando
all'umanità la concordia, l'amore e il bene.
Ungherese come il Turr, un po'
più giovane di lui, aiutante anch'esso del Generale, v'era il Tukory, che
veniva ad offrir l'ingegno e la vita a quest'Italia, la quale, nel
Cinquantanove, in certa guisa aveva disdetto la fratellanza di sventure e di
speranze, che l'avevano legata fino allora alla patria sua. Diceva egli così
senza raffaccio, ma con dolore. Egli aveva militato per la Turchia contro la
Russia durante la guerra di Crimea, e s'era trovato a difendere la fortezza di
Kars contro quei soldati dello Czar che nel '49 gli avevano rovinato la patria.
Servire un barbaro per odio contro un altro barbaro gli doveva essere stato
grande strazio; ma con Garibaldi a faticare per l'Italia era quasi felice. Però
s'indovinava che era molto deluso del mondo, e morire come morì poi a Palermo
non gli dovette parere amaro.
Poi c'era il Cenni di Comacchio,
uomo di quarantatré anni, avanzo di Roma e della ritirata di San Marino; uno
tutto fremiti, che ad averlo vicino pareva di camminar col fuoco in mano presso
una polveriera. Amico del Cenni v'era l'ingegnere Montanari di Mirandola,
anch'egli avanzo di Roma, che aveva trentott'anni e ne mostrava cinquanta per
la tetraggine che gli avevano impressa le meditate sventure del paese. Anche
aveva molto patito nelle carceri di Mantova e di Rubiera. Ma contrasto quasi
d'arte gli stava a lato un senese, che da giovane aveva fatto versi, sembrati al
Niccolini degni del Foscolo. Nei suoi ventisei anni bellissimo e forte, era
sempre gaio come se gli cantasse un'allodola in core. Era quel povero Bandi,
che cinque ferite di piombo non poterono poi uccidere sul colle di Calatafimi;
e doveva campare ancora trentacinque anni, per essere ucciso quasi vecchio e a
ghiado, da uno a lui sconosciuto.
E v'era Giovanni Basso, nizzardo,
ombra più che segretario del Generale, ch'egli aveva visto sublime a Roma,
umile ma ancora più sublime da povero candelaio alla Nuova York. E c'erano il
Crispi, allora poco conosciuto, e l'Elia anconitano, che poi a Calatafimi fu
quasi ucciso mentre si lanciava a coprir Garibaldi. C'erano il Griziotti pavese
di trentott'anni, matematico di bella mente ma di cuore più bello ancora; e il
Gusmaroli di cinquanta, antico parroco del Mantovano, che come l'eroe
dell'Henriade andava tra quelli che uccidevano, senza difendersi e senza mai
pensare ad uccidere. Ma il tocco michelangiolesco lo metteva in quel gruppo
Simone Schiaffino, bel capitano di mare, che pareva andasse studiando
Garibaldi, per divenire simile a lui nell'anima come gli somigliava già un po'
nel volto; biondo come lui, assai più aitante di lui, con un petto da
contenervi cento cuori d'eroe.
Allo Stato Maggiore generale
presiedeva il colonnello Sirtori. Antico sacerdote, aveva chiuso per sempre il
suo breviario, portandone scolpito il contenuto nel cuore casto, e serbando
nella vita la severità e la povertà dell'asceta claustrale. Spirito rigido,
cuore intrepido, ingegno poderoso, nel Quarantanove con l'Ulloa napoletano, era
stato ispiratore del generale Pepe nella difesa di Venezia. Poi esule in
Parigi, aveva visto indignato trionfare sull'uccisa repubblica Napoleone III. E
la vita gli si era fatta un lutto. Non aveva perdonato all'Imperatore il 2
dicembre, neppure vedendolo poi scendere nel Cinquantanove con
centocinquantamila francesi a liberargli la sua Lombardia; anzi, antico soldato
della patria s'era astenuto dal venire a quella guerra imperiale. Ma la guerra
stessa, com'era seguita, gli aveva insegnato a non illudersi più. Non aveva
guari speranze che quell'impresa si potesse far bene; consultato, l'aveva
sconsigliata, ma dichiarando che se Garibaldi ci si fosse risolto, lo avrebbe
seguito. Ed ora a quarantasette anni, era lì con quella sua faccia patita,
incorniciata da una strana barba ancor bionda, esile alquanto della persona,
silenzioso, guardato come se portasse in sé qualcosa di sacro, forse le
promesse dell'oltretomba. Pareva il Turpino di quella gesta.
Da lui dipendevano, come
capitani, un Bruzzesi romano di trentasette anni; il matematico Calvino esule
trapanese di quarant'anni, onore dell'emigrazione siciliana; Achille Maiocchi
milanese di trentanove, e Giorgio Manin, figlio del gran Presidente della
repubblica veneziana, che non ne aveva ancor trenta.
Ufficiali minori seguivano
Ignazio Calona palermitano, un gran bel sessagenario che a guardargli in viso
pareva di leggere la poesia del Meli; il mantovano ingegner Borchetta di
trentadue anni gran repubblicano; ultimo v'era un giovane tenente dell'esercito
piemontese, disertato a portar tra i Mille il suo cuore. Questi doveva morire a
Calatafimi sotto il nome di De Amicis, ma veramente si chiamava Costantino
Pagani.
*
E poi veniva il grosso del
piccolo esercito.
Alla testa della prima compagnia
chi se non il Bixio?
Era quel Bixio che nel
Quarantasette, in una via di Genova, fattosi alle briglie del cavallo di Carlo
Alberto, gli aveva gridato: «Dichiarate, o Sire, la guerra all'Austria, e
saremo tutti con voi!» Nel Quarantotto era volato in Lombardia con Mameli; con
Mameli era stato a Roma dove era parso l'Aiace della difesa, e il 30 aprile vi
aveva fatto prigioniero tutto un battaglione di francesi. Poi aveva navigato
portando per gli oceani le sue speranze. Ma nel Cinquantanove aveva riprese le
armi, non più riluttante a fare la guerra regia, e facendola bene: adesso era
capitano del Lombardo, ma in terra avrebbe comandata la prima compagnia.
Il Dezza ingegnere e il Piva, che
dovevano divenire generali dell'esercito italiano, erano suoi luogotenenti.
Marco Cossovich, veneziano, uno che nel '48 aveva concorso a levar l'arsenale
agli Austriaci, e Francesco Buttinoni da Treviglio provato già nel '48 e nel
'49, erano loro sottotenenti, tutti e quattro già chi di trenta, di trentacinque
o trentasei anni; e sergenti e soldati benché fior d'uomini tutti, badassero
bene con chi avevano da fare, ché con Bixio, non dico paurosi, ma solo
inesperti o disattenti o svogliati, c'era da essere inceneriti.
Ma ogni dappoco sarebbe divenuto un
valente anche solo pel contatto con sergenti come erano Ettore Filippini,
Eugenio Sartori, Angelo Rebeschini, Enrico Uziel, e tra commilitoni come
Giovanni Capurro, Emilio Evangelisti, Enrico Rossetti, e altri molti che Bixio
aveva impressi del suo sigillo. E poi vi erano nella compagnia Pietro Spangaro,
Raniero Taddei, Antonio Ottavi, già ufficiali di grido che per nobile
compiacimento si erano lasciati fondere con la massa dei semplici militi, e vi
facevano scuola di virtù militari.
La seconda compagnia, detta dei
livornesi perché di Livorno era Jacopo Sgarallino, il più popolare dei suoi
ufficiali, e di Livorno erano i suoi sergenti, fu affidata al colonnello
Vincenzo Orsini. Questi non veniva dalla storica famiglia Orsini di Roma e
neppure da quella romagnola da cui uscì Felice Orsini, uomo allora di recente
terribilità, per le bombe che aveva lanciate in Parigi contro Napoleone III, e
rimpianto per la nobile vita così sacrificata e per la rassegnata morte sul
patibolo. Il colonnello garibaldino era di famiglia palermitana, uomo già di
quarantacinque anni, ufficiale dell'artiglieria borbonica da giovane, poi
affiliato alla Giovane Italia, passato al servizio dell'isola sua nella
rivoluzione del '48, cresciuto con essa, con essa caduto nel '49. Da quell'anno
era vissuto esule negli eserciti di Turchia, salendovi a colonnello dell'arma
ne' cui studi era stato allevato. Venuto il '59, era tornato in Italia, e
adesso era lì a riportar il braccio alla sua Sicilia. Prevalevano nella
compagnia per numero gli operai, anch'essi però uomini intelligenti, che
sapevano bene qual passo avevano fatto: e i più erano toscani, e portavano nomi
i nobiltà popolaresca antica.
Per la stessa ragione per cui la
seconda compagnia fu chiamata dei livornesi, la terza poteva dirsi dei
calabresi perché di Calabria erano il barone Stocco che la comandava, verde
vecchio di cinquantaquattro anni, e Francesco Sprovieri, Stanislao Lamensa,
Raffaele Piccoli, Antonio Santelmo suoi ufficiali. V'erano inquadrati degli
uomini insigni come Cesare Braico, Vincenzo Caronelli, Domenico Damis, Domenico
e Raffaele Mauro fratelli, Nicolò Mignogna, Antonio Plutino, Luigi Miceli; e
avvocati e medici e ingegneri, e futuri deputati, senatori, ministri e
generali, tutti fra i trentacinque e i cinquant'anni, tutti di Calabria e di
Puglia. Pareva la compagnia dei savi!
La quarta toccò a Giuseppe La
Masa, siciliano di Trabia, antico all'esilio, già quarantenne. Era un
singolarissimo uomo. Biondo quasi ancora come un giovinetto e di carnagione che
doveva essere stata rosea, finissimo nei lineamenti del volto, più che un
siciliano sembrava uno scandinavo. Certo aveva nelle vene sangue normanno.
Poeta improvvisatore, giureconsulto, agitatore d'idee, s'era fatto mandar via
presto dall'isola natia, e a Firenze nel '47 aveva stretto amicizia col fiore
dei patriotti. Doveva aver sentito di sé grandi cose e grandissime averne
agognate; e fino a un certo segno le aveva conseguite. Si diceva che nel
gennaio del '48 avesse decretato lui la rivoluzione di Palermo, per il 12 di
quel mese preciso, genetliaco del Re, firmando audacemente un proclama di sfida
col proprio nome per un Comitato che non esisteva. Ma non era vero. Però la
rivoluzione era scoppiata, ed egli nella guerra che n'era venuta tra Napoli e
la sua Sicilia era stato Capo dello Stato maggiore dell'esercito. In un
intermezzo di quella aveva condotto i Cento Crociati isolani alla guerra di
Lombardia; poi, finita male ogni cosa nell'isola come altrove, si era rifugiato
in Piemonte, aveva scritto libri di guerra, infaticabile. Pochi giorni avanti
la spedizione dei Mille, quando Garibaldi esitava a fare la impresa, egli si
era offerto di condurla, e l'avrebbe condotta con grande animo, se non forse
con grande fortuna. Però non lo avevano voluto lasciar fare neppure i siciliani.
Pareva ambizioso. Un po' di quell'avversione che poi lo tribolò, già gli si
manifestava contro, e forse per questa non ebbe sotto di sé in quella sua
compagnia ufficiali di nome. Ma aveva nel quadro de' suoi sott'ufficiali dei
giovani eminenti. Vi aveva Adolfo Azzi da Trecenta, di ventitré anni, che con
Simone Schiaffino si era diviso l'onore di far da timoniere a Bixio; vi aveva
l'avvocato Antonio Semenza, monzasco, che nell'animo aveva tutta l'opera di
Mazzini, e Francesco Bonafini, di Mantova, che riassumeva in sé tutta la
vigorosa gentilezza della sua regione. E nella compagnia s'erano concentrati
quasi tutti i bresciani, forse perché del bresciano egli aveva preso qualche
cosa. Nel '57 aveva sposata la duchessa Felicita Bevilacqua sua fidanzata fin
da prima del '48, donna che lo aveva fatto signore del proprio destino, delle
proprie ricchezze sterminate, quasi fatto re d'un piccolo regno. Ora egli
abbandonava quegli splendori, per tornare all'amore della sua terra. Ed era un
prezioso elemento, e doveva presto mostrarlo in Sicilia, dove raccolse le
squadre paesane dei Picciotti, e le tenne ordinate per Garibaldi.
Alla testa della quinta compagnia
sonava il nome nizzardo degli Anfossi, glorioso pel caduto delle cinque
giornate di Milano. Ma ahimè! Il vivo non era del valore del morto. Però la
inquadravano degli ufficiali subalterni che bastavano a raccoglier l'anima
della compagnia come un'arma corta nel pugno. V'era tra essi Faustino Tanara
del parmigiano, una specie di Rinaldo combattente per la giustizia in un mondo
che a lui fu ingiusto e che non seppe mai il cuore che egli ebbe. In quella
compagnia, nulla di regionale. C'erano un centinaio di uomini di tutte le terre
italiane, vi si sentivano tutte le nostre parlate, vi si vedevano delle teste
di tutte le tinte, e di grigie e di bianche parecchie. Mesto a pensarsi, vi si
trovavano parecchi trentini tra i quali Giuseppe Fontana, Attilio Zanoli,
Camillo Zancani, che morirono poi vecchi, senza la gioia di aver visto libera
la loro bella terra di Trento.
Ma ecco alla sesta il più bello
degli otto capitani. Era un biondo di trentatrè anni, alto, snello, elegante.
Si sarebbe detto che se avesse voluto volare, subito gli si sarebbero aperte al
dorso due ali di cherubino. Parlava un bell'italiano con leggero accento
meridionale, gestiva sobrio e grazioso come un parigino; nel portamento pareva
un soldato di mestiere, negli atti e nei discorsi un Creso vissuto tra le
delizie dell'arte, in qualche gran palazzo da Mecenate. Si chiamava Giacinto
Carini, nome di borghesi e nome anche di principi siciliani che a lui, già
nobilissimo della persona, dava un'aria alta e singolarmente aristocratica. In
lui v'era il generale che sei anni dopo avrebbe comandata una brigata italiana
all'attacco di Borgoforte. E da lui fu detto un giorno che se alla morte di Pio
IX fosse venuto, come venne, al seggio di San Pietro il Vescovo di Perugia,
ch'ei ben conosceva, l'Italia avrebbe avuto il Papa italiano iniziatore di quella
vita che poi non ebbe.
Luogotenente del Carino era
Alessandro Ciaccio, palermitano, uomo di quarant'anni, esule da dieci. In mezzo
alla compagnia pareva il sacerdote di una religione non ancora predicata ma già
viva nei cuori. Non era tempra da uomo di guerra, ma da dar la vita per qualche
grande amore, sì: sarebbe stato capace di ber la cicuta e morire conversando di
cose alte e pure in mezzo a quei suoi militi che, lui presente, si sentivano
sempre come avvolti da un'aura casta e purificatrice.
Altri ufficiali del Carini erano
Giuseppe Campo e Giuseppe Bracco-Amari, palermitani
anch'essi; quello rivoluzionario per tradizione di famiglia, questo un
altezzoso uomo che pareva aristocratico e schivo, ma era soltanto un distratto.
Andava distratto fino nei combattimenti. Altro singolare uomo era il
sottotenente Achille Cepollini, napolitano, di quarant'anni, vecchio difensore
di Venezia, letterato anzi professore di lettere, che fu visto a Calatafimi
l'ultima volta, e sparito non lasciò di sé traccia sicura, né di lui se ne
riseppe mai più.
Sfilava la settima compagnia, la
più numerosa e la più signorile, quasi tutta di studenti dell'Università
pavese, lombardi di ogni provincia, milanesi eleganti, veneti che la grazia
natìa temperavano alla baldanza dei compagni nati tra l'Adda e il Ticino.
La comandava Benedetto Cairoli,
che allora aveva già trentacinque anni. E pareva così contento, in quella sua
bella faccia di giusto, aveva un'aria così paterna, che uno avrebbe detto:
«Certo a costui è stato affidato ogni soldato dalla madre in persona, perché,
se non è necessario sacrificarlo, glielo riconduca puro e migliore.» Ah, il
contatto con quell'anima! Molti vanno ancora pel mondo che vissero giovinetti
sotto quell'occhio, in quei giorni di altissima scuola; e ne portarono la luce
tra la gente, che, pur divenuta scettica, pensa che un mondo migliore debba
essere stato, e spera che torni.
Era luogotenente del Cairoli il
Vigo Pellizzari, da Vimercate, bello e giocondo giovane, di ventiquattro anni,
nato coi più bei doni di natura, ma sprezzatore superbo fin di sé stesso. Amava
la vita, avrebbe potuto averla felice, non volle. Scherzava con la morte,
pareva che l'andasse cercando per schiaffeggiarla, e che la morte lo scansasse,
tanto era ardimentoso. Sette anni di poi, le si diede irato a Mentana gridando
insulti ai francesi.
Sottotenenti della compagnia
erano Biagio Perduca di venticinque anni e Nazzaro Salterio di trentasei.
Pavese quello, aveva personale giusto, viso fiero ma a certi momenti dolcissimo.
Non morì in guerra e fu sorte crudele, perché doveva finire di là a quindici
anni con la luce della mente già spenta. Invece il Salterio visse cinque anni
più di lui, e quando fu l'ora sua cadde di colpo, sano e intero, nella sua
divisa di colonnello, come uno fulminato sul campo.
Furiere della compagnia era il
marchese Aurelio Bellisomi da Milano, allora sui ventiquattro, bellissimo
giovane e colto assai, mazziniano per fare l'unità nell'ora che passava, ma
forse già vagheggiatore dell'idea del Cattaneo, come di cosa da venir sicura
col tempo, conseguenza della stessa unità allora necessaria per conseguire
l'indipendenza. Ma non parlava guari delle sue idee federaliste per non
seminare discordie.
In quanto ai sergenti, quando s'è
detto che si chiamavano Enrico Cairoli, Luigi Mazzucchelli, Pompeo Rizzi,
Camillo Ruta, par d'aver detto tutto anche a chi non portò mai camicia rossa.
Erano giovani tra i venti e i ventisett'anni, e son già morti da un pezzo; ma
di essi soltanto Enrico finì come erano degni di trovarsi a finire tutti, in
quel bel giorno di Villa Glori, sotto le mura di Roma, uno contro venti.
Il caporal furiere era Luigi
Fabio, il buon Fabio morto poi quasi sessantenne, ma di cuor sempre giovane. E
i quattro caporali erano lo studente Ferdinando Cadei, che cadde a Calatafimi,
Giuseppe Campagnuoli, Alessandro Casali, Luigi Novaria; quello di Caleppio,
questi tre di Pavia. Tra quei compagni di ventitrè anni il Novaria ne aveva
trentatré, pareva un vecchio, ma stonava poco perché versava larga la sua vena
di ilarità, sebbene talvolta fosse canzonatore mordace, e talvolta pigliasse il
tono fin di Tersite.
Così la compagnia era fortemente
inquadrata. Contava centotrenta militi, ventitré dei quali erano proprio
pavesi. E tra quei centotrenta, ventiquattro erano studenti di legge, dodici di
medicina, quattordici di matematica, due di farmacia. Di commercianti ve
n'erano una dozzina, di possidenti e di impiegati una trentina. Gli altri erano
artigiani e operai, ma tutta gente anche questa che sapeva bene dove andava.
Allegri e vibranti di vita, parevano avviati a conquistarsi un regno ognuno per
sé. Ma dei più cari a ricordarsi fu un giovanetto, forse non ancora ventenne,
che durante la traversata cantava sempre, accompagnato da due altri pavesi Giuseppe
Tozzi e Luigi Rossi. In quelle notti del Tirreno empiva il mare e il cielo con
le arie eroiche del Nabucco e dei Masnadieri, con una voce che faceva tacere
tutti e pigliava i cuori. Si sentiva che l'anima sua si inebriava di un'acre
voluttà di morire; e forse fu poi felice quell'ora a Palermo, su d'una
barricata, combattendo e cantando: «Si vola d'un salto nel mondo di là,» cadde
morto. Lo chiamavano Pùdarla, ma il suo vero nome era Angelo Gilardelli.
E l'ultima era l'ottava. L'aveva
raccolta quasi tutta nella sua Bergamo Francesco Nullo, che la dava bell'e
fatta ad Angelo Bassini pavese, certo di darla a chi l'avrebbe condotta da
bravo. Era il Bassini un uomo che se avesse lanciato il suo cuore in aria, quel
cuore avrebbe mandato luce come il sole; e se lo avesse lanciato nell'inferno,
avrebbe fatto divenir buono Satana stesso. Così dicevano coloro che avevano già
lette sin da allora queste immagini nelle poesie di Petofi. A Roma il 3 giugno
del '49, nell'ora dello sterminio, s'era avventato quasi solo contro i francesi
di Villa Corsini, percotendo, insultando, gridando a chi volesse ammazzarlo, e
nessuno lo aveva ucciso. Aveva una testa che sembrava una mazza d'armi, ma
l'espressione della sua faccia ricordava quella di certi santi anacoreti.
Sapeva poco, discorreva poco; ostinato nell'idea che gli si piantava nel capo,
a chi lo vinceva di prove gridava: «Appiccati!» ma lo abbracciava e gli dava
subito ragione, intenerito e devoto. Per tutte queste sue doti, e perché aveva
già quarantacinque anni, gli si erano lasciati volentieri metter sotto Vittore
Tasca, Luigi Dall'Ovo, Daniele Piccinini, coi loro bergamaschi, quasi un
centinaio e mezzo di quella gente Orobia, quadrata e intrepida sempre, sia che
scelga la patria per suo culto, sia che ad altri ideali volga il pensiero:
quella che parve ai siciliani formidabile per gli ardimenti sulle barricate, e
per la serena fidanza nei vini dell'isola, bevuti ai banchetti liberamente,
senza perdere dignità né d'atti né di parole.
Vittore Tasca aveva trentanove
anni, ed era una strana testa, che con un po' di studi forse sarebbe riuscita
d'un artista. Con quelli ch'egli aveva fatti era rimasto qualcosa di mezzo tra
un commerciante geniale e un agricoltore. Conosceva le vie del Levante dove era
andato per seme di filugello, e si trovava appunto sulle mosse di tornarvi,
quando sentì della spedizione garibaldina. Allora piantò ogni cosa e seguì
Garibaldi, cui si diè tutto e cui nella tarda età dedicò quasi bosco sacro una
sua villetta in Brembate, dove fino al 1892 raccolse ogni anno anche da lontano
i suoi amici, a commemorare in una cerimonia all'antica il gran Duce.
Il Dall'Ovo che aveva anch'egli
trentanove anni, era una figura su per giù sul fare del Tasca, forse un po'
meno aspro ma anch'egli burbero e buono. Non sapeva che da quell'umile posto di
sottotenente della compagnia, le sorti della guerra e dell'esercito nazionale
lo avrebbero elevato su tanto, da fare di lui un colonnello. E da colonnello
doveva invecchiar nell'esercito per uscirne alfine e sparire come tanti, che si
rincantucciarono a rivivere del loro passato, dei quali non si seppe più se
fossero vivi o morti.
Ma Daniele Piccinini che più di
lui e più del Tasca personificava in sé il bergamasco cittadino insieme e
valligiano e di monte, come rimase vivo e presente a tutto il mondo
garibaldino! Nato a Pradalunga in Val Seriana, da una famiglia radicata tra le
rocce e ricca e forte ivi come una volta quelle dei feudatari, ma però tutta di
virtù patriarcali; candido a trent'anni come un adolescente, valoroso come un
personaggio dei 'Reali di Francia', allora ancora molto letti nelle campagne;
in quel maggio era disceso dal suo paesello a vedere se non si tornasse a far
qualche cosa per l'Italia, e aveva dato il suo nome di tono guerriero antico
alla compagnia bergamasca. Fu lui quello che a Calatafimi, in un momento che
Garibaldi si trovò tanto vicino ai nemici da farsi colpire fino da un colpo di
pietra, gli si lanciò quasi irato davanti, e coprendolo col suo pastrano da
pioggia onde la camicia rossa non lo facesse più far da bersaglio, osava
gridargli che non a lui stava bene andare a farsi uccidere come un soldato
qualunque. «Chi è quel giovane?» domandò allora Garibaldi, guardando quella
bella figura. «Piccinini di Bergamo,» gli fu risposto. Il Generale non se ne
scordò più, né il Piccinini lasciò più di seguirlo. Due anni dipoi, in
Aspromonte, ruppe la spada di capitano per non consegnarla intera al capitano
dei bersaglieri che lo faceva prigioniero: prigioniero con gli altri compagni
garibaldini stipati nel forte di Bard in Val d'Aosta, si rannicchiò in una
cannoniera dove stette quasi notte giorno a languire di nostalgia e di dolore
civile. Poi nel 1866 volle far la guerra del Trentino da semplice milite,
perché aveva giurato di non portare spada mai più. Tornato poi a' suoi monti,
non ne uscì per venti anni. Alla fine si lasciò vincere dal desiderio d'andare
a visitare la Sicilia e la Calabria che egli aveva percorse e voleva di nuovo
percorrere a piedi, per vedervi quanto fosse migliorato il popolo e quanto la
terra. Non poté giungere fin laggiù. Un giorno dell'agosto 1889 a Tagliacozzo
gli accadde di esser ferito per disavventura da un giovane amico. E morì là,
quasi lieto di morire tra quei monti, dove suona ancora con tanta mestizia il
nome della battaglia perduta da Corradino. Ora la sua salma è chiusa nel
piccolo camposanto della sua Pradalunga, a cui salgono i clamori del Serio
sonante che passa. Càpita là talvolta ancora adesso qualche vecchio forestiero
che fa chiamar il custode per farsi mostrar la terra dove sta Daniele. Entra in
quel recinto, cui con forse quattro lenzuola cucite insieme si potrebbe fare un
velario, svolta a sinistra, nell'angolo c'è una cappelletta nuda. «Sta qui,»
dice il custode. Qui? Pensa il forestiero. E vorrebbe gridare: Su, Piccinini!
D'uomini come te v'è ancor penuria nel mondo. Risorgi e insegna!
Un po' della tempra del Piccinini
erano quei bergamaschi tutti, anche i più popolani; anime esaltate dal
patriottismo e un po' mistiche. Nel 1863, quando la Polonia fece la sua terza
rivoluzione, uno stormo di quei militi tornati dall'ottava compagnia dei Mille,
volò laggiù con Francesco Nullo. E il 5 maggio, terzo anniversario della
partenza da Quarto, entrarono nella Polonia russa a Olkusz, dove s'imbatterono
subito nei Cacciatori finlandesi del generale Szakowskoy, coi quali impegnarono
un combattimento. Il Nullo cadde ai primi colpi, e morì magnifico fin nella
caduta; essi combatterono fin che furono tutti morti o feriti o ridotti a non
poter più. Elia Marchetti si trascinò ferito a morte fin nel territorio
austriaco; dove un austriaco capitano, ammirandolo se lo raccolse in casa e ve
lo tenne con religione a morire. Quelli che sopravvissero furono mandati in
Siberia. Nelle miniere di Jskutz logorarono la vita sette anni, invidiando i
morti, e parecchi vi morirono. Quelli che erano scampati alla strage e alla
cattura, camminando come belve, valicando montagne, passando fiumi, vennero
dietro il sole a cercar la patria. E per le terre dell'Austria vi giunsero. Ma
non si erano ancora riposati di tanta via, che scoppiò la guerra del 1866.
Allora tutti tornarono in campo, e Giuseppe Dilani detto Farfarello, umile
operaio, andava a farsi uccidere dagli Austriaci, nelle terre trentine nostre a
Monte Suello, vecchio nei patimenti a ventisette anni.
E Luigi Perla, con quel suo
visetto arguto? Oh! Egli andò nel 1870 a morire a Digione per la repubblica,
alla testa di un battaglione che gli fu affidato. La Francia riconoscente lo
fregiò, morto, della Legion d'onore; ma già egli era compensato nell'aver
potuto morire per quel nome di repubblica, che alla sua mente semplice pareva
realtà di tutte le belle cose sognate.
Quei bergamaschi fecero scuola.
Così, come alcuni in Polonia e come il Perla in Francia, ultimo alunno di
quell'antica compagnia, figlio d'uno di quei bergamaschi, Ettore Panzeri
ufficiale degli Alpini nell'esercito della nuova Italia, andava a morir
giovinetto per la Grecia a Domokos nel 1897, bella favilla dell'antico fuoco
garibaldino, che ridiede dopo tanti anni quella tardiva vampata.
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