Perché fu allora cosa
inaspettata, si narra qui un po' fuor di posto che in Talamone fu pur formata
l'Artiglieria. Fin dalla prima ora della sua discesa a terra, Garibaldi aveva
visto nel vecchio castello una colubrina, lunga come la fame, montata su di un
cattivo affusto, a ruote di legno non cerchiate, e pel logoro di chi sa quanti anni
divenute poligonali. Portava in rilievo sulla culatta l'anno del suo getto,
1600, e il nome del fonditore Cosimo Cenni, certo un toscano. Una delle
maniglie in forma di delfino le era stata rotta, ma due segni di cannonate
ricevute le facevano onore. Forse non aveva mai più tuonato dal 9 maggio 1646,
quando novemila francesi condotti da Tommaso di Savoia erano giunti in quel
golfo su d'una flotta di galee e tartane. Adesso là nel castello non faceva più
nulla, e Garibaldi se la prese.
Il giorno appresso, vennero da
Orbetello tre altri cannoni, uno dei quali non guari migliore della colubrina,
ma due erano di bronzo bellissimi, alla francese, fusi nel 1802. Sulla fascia
della culatta d'uno si leggeva «L'Ardito» su quella dell'altro «Il Giocoso». I
nomi piacquero; convenivano agli umori di quella gente. Quei cannoni non
avevano affusto, ma laggiù in Sicilia qualcuno avrebbe saputo incavarseli, e
per questo c'erano tra i Mille i palermitani Giuseppe Orlando e Achille Campo,
macchinisti valenti, i quali difatti fecero poi tutto alla meglio sei giorni
appresso.
Ma chi aveva dato quei cannoni?
Garibaldi aveva mandato il
colonnello Turr, al comandante della fortezza di Orbetello con questo scritto:
«Credete a tutto quanto vi dirà
il mio aiutante di campo, colonnello Turr, e aiutateci con tutti i mezzi
vostri, per la spedizione che intraprendo per la gloria del nostro Re Vittorio
Emanuele e per la grandezza della patria.»
Il comandante, che era un
tenente-colonnello Giorgini, quando lesse quel foglio si
dovette sentire un grande schianto al cuore. L'aiutante di campo di Garibaldi
gli chiedeva delle munizioni! Impossibile.
Ella è militare, - disse al Turr
- e sa che cosa significhi consegnare le armi e le munizioni di una fortezza,
senza ordine dei capi.
Ma se gli ordini li riceveste dal
Re? - rispose il Turr - basterà che gli inviate questa mia lettera.
E lì per lì, sotto gli occhi del
Comandante, scrisse al conte Trecchi, notissimo aiutante di campo di Vittorio
Emanuele:
«Caro Trecchi,
Dite a Sua Maestà che le
munizioni destinate per la nostra spedizione sono rimaste a Genova; ora
preghiamo Sua Maestà di voler dar ordine al Comandante della fortezza di
Orbetello di provvederci con quanto più può del suo arsenale.
Colonnello Turr.»
Porgendo la lettera al
Comandante, il Turr gli disse che siccome la risposta non verrebbe se non forse
in una settimana, su di lui Comandante peserebbero tutte le incalcolabili
conseguenze di quel ritardo; lo informò della spedizione; lo accertò
dell'intesa tra il Re e Garibaldi; insomma seppe far tanto che quell'ufficiale,
solo facendosi promettere che l'impresa non sarebbe volta contro gli Stati del
Papa, diede tutte le cartucce che aveva pronte, e casse di polvere e quei tre
cannoni e quant'altre cose poté. E tutto fu caricato e condotto a Talamone,
dov'egli stesso volle recarsi per veder Garibaldi e la spedizione. Vollero
accompagnarlo due suoi ufficiali, e insieme il maggior Pinelli che comandava un
battaglione di bersaglieri, diviso tra Orbetello e Santo Stefano. Temeva questi
che quei soldati gli scappassero mezzi per imbarcarsi con Garibaldi, e voleva
pregarlo di non riceverli a bordo. Il Generale accolse tutti con grato animo,
ma non senza pensare che al Giorgini dovevano seguire de' guai. E gliene seguirono,
perché il povero Comandante fu poi tenuto a lungo nella fortezza di Alessandria
sottoposto a Consiglio di guerra; ma alcuni mesi dopo, nel tripudio della
patria, fu mandato sciolto di pena.
Ora dunque la spedizione
possedeva anche delle artiglierie, e bisognava formare il corpo dei Cannonieri.
A ordinarli e comandarli venne messo il colonnello Vincenzo Orsini, che per
questo dovette lasciare la 2° Compagnia cui si era appena presentato. Egli
chiamò a sé quanti avessero già militato nell'artiglieria, e ne trovò una
ventina. Ai quali ne aggiunse dieci altri, inesperti nell'arma, ma studenti
quasi tutti di matematica nell'Università di Pavia. E fu di questo numero
Oreste Baratieri, giovinetto sui diciannove, pigliato appunto allora dalla
fortuna che non lo abbandonò più per trentasei anni, e doveva elevarlo tanto da
farlo brillar come un astro e spegnerlo poi in un giorno, come nulla, nel buio.
Egli aveva allora compagni in quell'artiglieria strana, giovani come lui, Luigi
Premi da Casalnovo, Arturo Termanini da Casorate, saliti poi anche essi
nell'esercito nazionale e assai alti, ma senza clamori. Vi aveva Domenico
Sampieri di Adria, uomo di trentadue anni, avanzo della difesa di Venezia e
degli esigli di Smirne e d'Epiro, e divenuto anch'egli Generale dell'esercito
nazionale. Rimasto oscuro e modesto, vi si trovava insieme ad essi Giuseppe
Nodari, da Castiglione delle Stiviere, anima d'artista, che dappertutto laggiù
avea sempre la matita in mano a schizzare dal vero bivacchi, fatti d'arme e
figure caratteristiche, delle quali s'ornò poi la casa dove morì medico,
trentott'anni di poi. E giovane mistico, nato per ogni sacrificio, vi stava
bene col Nodari l'ingegnere Antonio Pievani da Tirano, che già deliberato a
farsi frate, solo quando fu finita l'opera di rifar la patria, entrò nei
Francescani, per andar missionario nel mondo barbaro. E invece, tradito dalla
salute, morì nel 1880, in una cella del convento di Lovere, sul lago d'Iseo,
sulle cui rive deliziose eran nati quattro compagni suoi nei Mille, Zebo Arcangeli,
Gian Maria Archetti, Carlo Bonardi e Giuseppe Volpi, questi ultimi due a lui
carissimi e morti in guerra.
Poiché ormai quel piccolo
esercito aveva tutte le sue membra fuorché il Genio, fu ordinato anche questo:
una dozzina e mezza di operai, di macchinisti, d'ingegneri, con Filippo
Minutilli da Grumo d'Appula per Comandante, uomo di quarantasette anni, severo,
di poche parole, cui si leggeva in viso, e certo lo aveva dentro, qualche
profondo dolore. Pativa l'esilio dal 1849; era stato in Oriente, in Malta, in
Piemonte; lasciava in Genova coi figliuoli la moglie, eroica donna messinese,
che si era sentita il cuore di cucire per lui la camicia rossa, e di scendere
alle porte di Genova, a dirgli addio, mentre egli passava per andar a Quarto ad
imbarcarsi.
Luogotenente del Minutilli fu
l'ingegnere Achille Argentino, uno dei liberati l'anno avanti dalle galere di
Re Ferdinando, dei quali si è detto.
Formati così anche i piccoli
corpi dell'Artiglieria e del Genio, gli uomini che vi appartenevano andarono a
piantar sul Piemonte un piccolo laboratorio. E subito, e i giorni dipoi, pur
non avendo strumenti, fabbricarono scatole di mitraglia con ogni sorta di
rottami e di lamiere di ferro rinvenute nelle stive dei due vapori. Con le
lenzuola di bordo fecero sacchetti per le cariche da cannone, e fabbricarono
cartucce da fucile, metà delle quali passarono sul Lombardo.
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