PARTE
TERZA.
Alla chiamata non mancava neppure
un uomo. Ed era naturale. Ognuno sentiva in sé il pericolo di rimaner isolato;
ognuno, per quanto piccolo, aveva coscienza della propria responsabilità. Quasi
staccati dal mondo, ridotti per dir così in un campo chiuso dove erano discesi
a mettersi da sé, comprendevano, chi più chi meno, molti forse confusamente,
che trovarvisi non voleva dire soltanto essere in guerra contro altri soldati
ne' quali da un'ora all'altra si sarebbero imbattuti; e che quella che erano
venuti a cercare non era una guerra come tutte le altre. Vincere dovevano ad
ogni costo, perché dall'isola non potevano più uscire che vincitori; ma
soprattutto bisognava non lasciar perire Garibaldi. Era coscienza dunque che
ognuno desse tutto sé stesso, e che tutti insieme si facessero amare dal popolo
siciliano per virtù e purezza in tutte le azioni. Perciò si udirono fieramente
rimproverar dai compagni certi pochi che nella notte s'erano dati bel tempo.
Diceva Enrico Moneta da Milano, piccolo soldatino della 6° Compagnia, di
diciannove anni, uno dei quattro fratelli che l'anno avanti erano stati
Cacciatori delle Alpi, diceva che chi era là per aiutare quel mondo a mutarsi,
doveva badare ad essere austero ancor più che prode. - Per di più, quella che
stava per accendersi era sotto un certo aspetto una vera guerra civile. E se
per quella trafila doveva passare l'Italia a divenire nazione, bisognava badare
a farsi onore e a far onore anche al nemico pur vincendolo, per lasciargli
possibile l'oblio della sconfitta senza viltà, e facile e pronto il ritorno
all'amore.
Tali spiriti si venivano formando
negli animi anche di quelli che non avrebbero saputo spiegarsi a manifestarli,
così come uno quasi senza che se ne avveda si ritempra d'aria pura.
Schierate fuor di Marsala sulla
via che mena a Sciacca, stavano tutte le compagnie con gli altri piccoli corpi.
Il tempo era bello e fresco, la guazza sull'erbe magre di quello spiazzo pareva
quasi una brinata. Il mare dormiva: lontani, già verso l'Egadi, i legni
napolitani rimorchiavano il Piemonte. E per tutto era una quiete diffusa, anche
nella città che pareva avesse già dimenticato il turbamento del giorno innanzi.
Pochi cittadini si aggiravano intorno alle compagnie. Qualcheduno armato di
doppietta era là per seguirle. Faceva senso tra gli altri un signore, forse di
trentacinque o quaranta anni, taciturno e pensoso. Si chiamava Gerolamo Italia.
Egli di là fino all'ultimo di quella guerra nel Regno, marciò poi, fido alla 6°
Compagnia, semplice milite, sempre pensoso e modesto.
Una tromba suonò in distanza, poi
comparve Garibaldi a cavallo. Indossava camicia rossa, portava i calzoni grigi
da generale ma senza le strisce d'argento, e in capo teneva il suo solito
cappello dalla foggia che allora si diceva all'Orsini o anche all'ungherese,
come glielo hanno poi fatto gli scultori quasi in tutti i monumenti; e gli
sventolava dietro un gran fazzoletto annodato al collo. Teneva il mantello
americano ripiegato sull'arcione davanti. Dietro di lui cavalcavano il suo
stato maggiore e alcuni delle Guide, Nullo tra gli altri, bellissimo nella sua
divisa del '59, tutta grigia con alamari neri e galloni da sergente. Pareva col
suo cavallo un solo getto di bronzo. Il Missori indossava la giubba rossa da
ufficiale con alamari d'oro.
Al passaggio del Generale non
furono presentate le armi. Egli certe cose non le voleva. Tirò via, guardando
le Compagnie molto ilare in viso; poi queste si mossero, fianco destro, trombe
in testa e partirono. Quelle trombe suonavano le arie semplici ma pungenti de'
bersaglieri di La Marmora; il passo delle compagnie era franco, nessuno si
sentiva più mareggiare il terreno sotto, come il giorno innanzi dopo lo sbarco;
e quando spuntò il sole cominciarono i canti.
A forse un miglio da Marsala, la
testa della colonna svoltò per una via traversa che, staccandosi dalla
consolare, menava verso l'interno tra vigneti allora già in pieno rigoglio.
Passati i vigneti cominciarono gli oliveti, e pareva che quella prima marcia
dovesse condurre a vedere meravigliose colture. Verso le undici la colonna fece
il grand'alto in una conca, presso una casa bianca, fresca, silenziosa, con a
ridosso delle fitte macchie d'olivi vetusti. Là, Garibaldi, seduto a' piedi
d'uno di quegli alberi, come se fosse l'ultimo di quella gran Compagnia, si mise
a mangiar del pane. Tutta la conca era popolata di gruppi, tutti mangiavano
gagliardamente il saporito pane di Marsala; quanto a bere, pei novellini che
s'erano imbarcati senza fiaschetta, c'era presso la casa un pozzo, e intorno a
questo molti facevano ressa contendendosi un poco d'acqua. Il Generale guardava
con certa compassione quei poveri ragazzi: «Poveri ragazzi!» come fu udito dire
egli stesso.
Ripresa la marcia, spuntato il
valichetto del colle in cui giaceva quella conca, la colonna si vide davanti
una distesa ondulata senz'alberi, senza case, il deserto. - Come la Pampa! -
dicevano alcuni che nella loro vita avevano visto l'America. E in quel deserto
s'inoltrò la spedizione, sotto un sole, ah che sole! E che peso i panni! Felici
coloro che ne avevano appena indosso tanto da non andare scoperti.
E quella prima marcia fu una gran
prova, ma nessuno rimase indietro. Eppure c'erano dei giovanetti che ad ogni
passo parevano doversi lasciar cadere in terra sfiniti. Ma lo spirito li
reggeva, e continuavano a marciare, aiutati anche dai compagni più esercitati
che levavano loro fino il fucile, tanto che ricogliessero un po' di fiato.
Dove mai si sarebbero fermati?
Per quanto guardassero a
sinistra, a destra e davanti, nulla, mai un ciuffo d'alberi, mai una casa. Cosa
era dunque la Sicilia già granaio d'Italia? Degli uomini pratici di campi
dicevano che tutta quella miseria dipendeva dal disboscamento, altri che dai
latifondi, dal feudalesimo, dai frati. Il fatto era che quel deserto metteva un
senso di sgomento nei cuori. Là sarebbe stato bello trasformarsi in un esercito
di legionari alla romana con la marra, la vanga, gli aratri di Lombardia! Ma là
non c'erano le acque di Lombardia; anzi non ci si trovava neppure da
dissetarsi. E alcune voci intonavano il coro del Verdi: 'Fonti eterne,
purissimi laghi...'
*
Finalmente quando già si faceva
sera, apparve lontano un corpo di casa massiccio e scuro, su di un rilievo un
po' più spiccato di quella campagna. Era il maniero di Rampagallo, quello che
si chiamava bellamente feudo, come se là il feudalesimo fosse ancora una cosa
viva. E tutto, dai muri massicci, alle finestre, alla gran porta, ai cortili
dentro, ai contadini che vi si aggiravano, tutto vi aveva infatti una
fisionomia d'antichità corrucciata.
Le Compagnie si accamparono
davanti a quel vasto casamento su di un pendio erboso, che dopo l'arsura della
lunga giornata pareva dar un carezzevole senso di refrigerio. A pié dei loro
fasci d'arme, mangiarono il loro pane, e in silenzio si addormentarono.
Ma i pochi che per servizio
dell'accampamento vegliavano, videro di prima notte entrar nel gran cortile di
Rampagallo una piccola schiera d'uomini, forse sessanta, condotti da tre o
quattro cavalieri, alti su degli stalloni piuttosto che sellati, bardati, con
attraverso sulle cosce dei lungi fucili. Gli uomini a piedi erano armati di
doppietta, con alla vita la ventriera per le cartucce e qualche pugnale.
Vestivano panni strani, parecchi avevano sopravesti e cosciali di pelli
caprine, e portavano in capo dei berretti quasi frigi o dei cappellacci a
cencio. I loro capi, fratelli Sant'Anna e barone Mocarta, passarono da
Garibaldi. Egli fece liete accoglienze a quel primo manipolo che la Sicilia
armata gli dava; la scena era quasi da medio evo: pareva proprio che in quelle
ore in quel luogo quei signori fossero giunti per prestare l'omaggio a un
conquistatore.
Ma Garibaldi che sapeva ricevere
come un re, nello stesso tempo sapeva parere quasi inferiore a chi gli si
presentava, onde quel fascino e quel suo dominio sui cuori, da cui subito quei
siciliani si sentirono presi. E uscivano da quel ricevimento, magnificando.
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