Sul vespro di quel giorno la
colonna garibaldina entrò nell'ombra di un anfiteatro di monti, dove si immerse
quasi a celarsi. In quell'ora, tutto là intorno pareva minaccioso, dalle falde
ronchiose ai profili di quei monti dentati in alto e taglienti. Il po' di piano
traversato dalla strada consolare dava un senso di freddo. E il luogo, al dire
dei Siciliani, era infame per istorie truci di masnadieri. Passo di Renda
voleva dire pericolo di non uscirne vivo chi vi si avventurasse da solo.
Le Compagnie, rifinite dalla
stanchezza e dalla fame, si gettarono in terra ciascuna, per dir così, dove fu
fermata; e per un po' fu silenzio profondo. Ma poi qua e là furono accesi dei
fuochi con gli arbusti raccolti per quelle ripe, e intorno ai fuochi quei
militi si misero come al solito a sgranocchiare il loro pane. Da otto giorni
non si cibavano quasi d'altro che di pane e cacio come il Generale, semplice
uomo che faceva divenir semplici tutti e senza voglie, senza bisogni.
Quella sera si mise a dormire in
un cantuccio di quell'accampamento, tra corte rocce ferrigne, dove i più
novelli tra i suoi andavano timidamente a passargli vicino per guardarlo. Ma
era veramente Garibaldi quell'uomo coricato su quella povera coperta, sotto
quel mantello, con la sella del suo cavallo per origliere? Ed era Dittatore, e
voleva levar via dal trono il Re delle Due Sicilie, egli così povero e che
riposava così tranquillo, senza guardie né nulla? Pareva un sogno.
Contemplatolo un poco, quei giovinetti se ne tornavano alle Compagnie, a dire
che egli dormiva e che perciò tutto doveva andar bene. Ma tutti sentivano di
trovarsi a una breve camminata da Palermo, da dove un generale un po' ardito
avrebbe potuto condurre una colonna a sorprenderli; e guai se anche un'altra
colonna mandata a sbarcare a Castellamare, per Alcamo e Partinico, per la via
stessa che essi avevano fatta, fosse giunta alle loro spalle.
Invece quella notte passò quieta,
senz'altra noia che d'un po' di pioggia. ma all'alba, che bella sveglia! Da
un'altura di quell'anfiteatro scese sul campo improvviso un suon di banda, che
parve venuta dall'infinito a far una melodia nota, ma tal quale come laggiù non
gustata mai da nessuno in nessun teatro del mondo, e nemmeno in cuore dal
Verdi, che l'aveva creata. Era il suo bolero dei 'Vespri Siciliani'. Benedetto
lui! L'anima sua tornava a soffiare l'entusiasmo in quei cuori, in quel luogo,
come già sul mare da Quarto a Marsala coi canti dei 'Masnadieri', col coro del
'Nabucco' «Va' pensiero sull'ali dorate.» Una voce di tenore limpida e potente
s'accordò subito ai suoni, adattandovi i bei versi del 'Giovanni da Procida'
del Niccolini «Le Siciliane Vergini,» e qualche parte del campo applaudiva.
Ripetuta tre o quattro volte,
quell'aria dei 'Vespri' mise una grande agitazione. E non era più lo scoppio di
gioia idillica d'Elena, che nel melodramma scende dalla scalea incontro al coro
di fanciulle, che le portano fiori; ma passava come un vento eroico di
martirio, che invitasse amici e nemici a morir insieme per la pace del mondo.
Il piccolo esercito si levò
tutto; e allora fu un andare verso un punto dove la strada consolare mette da
quell'orrido passo alla vista della Conca d'Oro. Tutti si fermavano là
incantati. Vedevano giù in basso quel paradiso; e in fondo Palermo che pareva
infinita; e nel tremolare della marina un fitto di antenne, navi da guerra
certo le più, navi di tutta Europa e forse d'America, corse là per vedervi la
gran scena che vi doveva avvenire. Di quella scena essi dovevano essere poi
attori! Ma quando, come, con quali sorti? Sapevano che laggiù tra quelle mura
stavano ventimila soldati, ma insomma v'erano pure dugentomila cittadini. E
alcuni, quasi col sentimento dei diecimila di Senofonte quando scopersero il
mare, gridavano: Palermo, Palermo!
Di là, il vecchio Ignazio Calona
mostrava gli sbocchi dei monti da dove erano discesi i Napolitani di Florestano
Pepe e di Filangeri, nel 1820 e nel 1849. A quelle due rivoluzioni egli aveva
partecipato di venticinque anni e di cinquantatré, e si poteva immaginare con qual
animo se tanto glie ne avanzava adesso, che ne aveva sessantacinque. E diceva
con foco giovanile che nel maggio del 1849, quando Palermo si preparava
all'ultimo sforzo per respingere Filangeri già vincitore del resto dell'isola,
laggiù nella pianura che si vedeva tra la città e il Monte Grifone, ogni giorno
accorreva gente d'ogni ceto a scavar fossati, ad alzar ripari, e che tutti
lavoravano insieme signori e plebe, anche le dame e le più nobili fanciulle. A
quei discorsi i giovani si esaltavano.
Così per tutta la mattinata fu
una grande vivezza nell'accampamento, dove quei militi si facevano
giocondamente ognuno da sé le più umili cose; si lavavano le camicie a una gran
cisterna, si rattoppavano le scarpe, si ricucivano gli strappi dei panni così
mal ridotti, che coloro che avevano indosso i più signorili parevano ormai i
peggio vestiti. Ma alle belle persone, al portamento elegante, quella miseria
dava quasi maggior risalto. Altri davano una ripulita ai fucili o si
ingegnavano di raccomodarne i guasti. I cannonieri stavano intorno ai loro
pezzi. Appoggiato alla gran colubrina, Antonio Pievani da Sondrio leggeva il
Vangelo, e lo spiegava ad alcuni che aveva intorno. Tutti ascoltavano raccolti
e pensosi, e facevano venire in mente i Puritani di Cromwell. Passava qualche
scettico, stava un istante, poi se n'andava compreso di rispetto per quel
soldato credente.
Ma in un canto dell'accampamento
v'era qualcuno che, per dir così, teneva il posto che nei poemi cavallereschi
hanno le Orche e i mostri. Sdraiato in terra, legato mani e piedi, vestito alla
siciliana con certa eleganza, custodito da alcuni 'Picciotti' delle squadre del
barone Sant'Anna, stava un uomo grande e forte, di viso cattivo. Guardava
sprezzante e taceva. I garibaldini che andavano a vederlo, sentivano dire che
egli era un tal Santo Mele, il quale sin dallo scoppio della rivoluzione aveva
principiato a correre la campagna con alcuni ribaldi, rubando le casse
pubbliche e assassinando gente. Aveva fino incendiato il villaggio di Calamina.
E tutto aveva fatto in nome di certa sua giustizia che gli pareva d'aver
diritto d'esercitare; anzi, se ne gloriava. I Siciliani che dall'esiglio erano
tornati nell'isola con Garibaldi, dicevano che colui doveva essere 'Maffioso';
e spiegavano ai compagni la natura d'una tenebrosa società, che aveva le sue
fila per tutta l'isola, in alto, in basso, nelle città, nelle campagne,
dappertutto. Piace rammentare che i continentali scusavano l'isola, narrando
che anche da loro vi erano state compagnie di malfattori che avevano esercitato
una giustizia di loro genio, favoriti dalle plebi delle campagne e anche dai
ricchi delle città, quando le leggi parevano torte contro la giustizia vera; e
dicevano che quelli erano passati e che sarebbe passata anche la 'Maffia'.
Quel Santo Mele il giorno
appresso sparì. Forse la 'Maffia' potentissima gli aveva dato aiuto fino in
quell'accampamento.
Noiosissima cosa, nel pomeriggio
di quel giorno cominciò a piovere. Senza tende, senza coperte era un gran
brutto stare; ma il campo non si attristò per questo; anzi, vi fu un momento di
gaiezza fin troppa. Era stato macellato un gran bove donato da un Comune là
presso, e in certi pentoloni mandati pure da quel Comune, cuochi improvvisati
cuocevano di quel bove a pezzi, e del riso. Ma quando si fu sul punto di
scodellare, e tutti si sentivano già quasi nello stomaco quel ristoro,
s'accorsero di non avere né gamelle né cucchiai, e una risata generale empì
l'aria di chiasso. Però vi fu l'ingegnoso che si prese la parte sua di riso in
una foglia di fico d'India, e allora tutti ai fichi, e nel cavo di quelle
foglie coriacee un po' di quel cibo poterono gustarlo tutti. Quanto a vino ce
n'era nel campo a botti.
Seguitò la pioggia tutto il resto
del giorno e anche quella notte, sicché la dimane quella gente, fradicia fino
alla pelle, faceva un brutto vedere. Garibaldi guardava mesto. Egli nella notte
aveva fatto levar via una specie di baldacchino che alcuni di quei suoi militi
gli avevano formato sopra con dei mantelli sostenuti da pali, mentre dormiva. Ma
alfine anche quel giorno venne il sole, e ognuno tornò a sentirsi bene.
Intanto Garibaldi aveva meditato
una mossa. Voleva piantar nella mente dei difensori di Palermo che egli avesse
deliberato di assalirli da Renda per la via di Monreale, e creare in essi
l'illusione che egli potesse scendere a farsi pigliare come in una trappola su
quella via. Così la sera del 20, messo in marcia il battaglione Carini, lo fece
calare nel villaggio di Pioppo, a pie' dei monti e già sul lembo della Conca
d'oro. Ivi tenne quelle Compagnie tutta la notte. All'alba del 21 si spinse
avanti egli stesso dove erano già i Carabinieri genovesi, con le compagnie del
battaglione Bixio passate anch'esse durante la notte. Quasi subito
l'avanguardia venne alle schioppettate con gli avamposti napolitani, mentre che
a sinistra, su pei fianchi dei monti, si svolgeva una loro ala, certo per
aggirare la gente garibaldina, calarle addosso e metterla in rotta tra gli
aranceti del piano.
Quel mattino i napolitani
parevano di buon umore. Ma la loro ala girante s'abbatté nelle squadre di
Rosolino Pilo, che stava a mezza costa, e dovette arrestarsi. Allora s'impegnò
lassù un fuoco vivissimo di fucileria, a cui le squadre ressero bravamente, per
più di due ore, finché i borbonici furono costretti a ritirarsi. E giù nel
piano le Compagnie garibaldine, menate avanti, indietro e poi ancora avanti per
modo che esse stesse non ci capivano più nulla, verso il mezzodì ricevettero
l'ordine di ritirarsi. Videro Garibaldi tornar dalla fronte col suo Stato maggiore
in sì gran fretta, che avrebbero potuto credere di doversi sentir dietro i
compagni dell'avanguardia fuggenti; ma bastò loro guardar in faccia il
Generale, e la breve ritirata di ritorno al Passo di Renda fu fatta con calma.
Risalite lassù trovarono sul ciglio del passo i cannoni in posizione con le
gole chinate verso la pianura, dove, volgendosi a guardarla, vedevano brillar
non lontano le armi dei nemici distesi. Forse questi si apparecchiavano a farsi
avanti. E allora pareva di capire che Garibaldi avesse mirato a tirar fuori di
Palermo una parte di difensori per piombarle addosso, e se la fortuna lo
secondasse, romperli, ed entrare con essi in Palermo, che sarebbe insorta.
Invece seguì una gran quiete. Ma
in quella quiete si sparse una notizia dolorosa. Rosolino Pilo, che su quei
colli di San Martino, con le sue squadre, aveva così ben rintuzzato l'attacco
dei regii, era stato colpito al capo da una palla di rimbalzo, mentre scriveva
un biglietto a Garibaldi. Ed era morto, povero prode, con in vista la sua
Palermo laggiù, sospirata dall'esilio per undici anni. Alla testa delle sue
squadre rimaneva l'amico suo Corrao, uomo di gran coraggio ma incolto e di poco
prestigio; e così con la gran figura di Pilo veniva a mancare una delle forze
più vive della rivoluzione. Perciò si diffuse una gran mestizia, Garibaldi fu
visto afflittissimo; e facilmente il pensiero de' suoi passava da Pilo a lui,
che da una palla poteva essere spento da un'ora all'altra.
E allora?
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