Su quella sorta d'altopiano, se
si può chiamar così la cima di Gibilrossa, formicolava il campo dei 'Picciotti'
di La Masa, che vi facevano un sussurro come nelle selve il vento. Erano forse
quattromila, ma pochi gli armati almeno di fucili da caccia. Tuttavia davano da
sperare che, avventati a tempo opportuno, anche gli armati soltanto di picche
avrebbero fatto da bravi. Aveva detto Garibaldi che ogni arma era buona, purché
impugnata da un valoroso.
I continentali si frammischiavano
a quelle squadre, a farsi descrivere nelle belle e immaginose parlate sicule le
parti dell'isola da cui erano venuti. E osservavano che anche i più rozzi di
quei 'Picciotti' avevano pensieri e sentimenti elevati, e che riusciva loro
d'esprimerli quasi con eloquenza. Ispidi all'aspetto, erano squisiti dentro
come certi frutti maturati ai loro lunghi soli. Ma anche pareva che alcuni di
essi parlassero dialetti che sapevano di lombardo e di monferrino! E di ciò si
maravigliavano appunto i lombardi, tra i quali Telesforo Cattoni del Mantovano,
angelico giovane a ventun'anni già dottore in legge e studioso di lettere, cui
l'ingegno lampeggiava negli occhi. Ma Domenico Maura calabrese, dottissimo uomo
sulla cinquantina, che sempre tra quei giovani parlava di Dante, diceva che se
la fortuna avesse secondato Garibaldi, essi avrebbero poi trovato da
maravigliarsi anche in Calabria, sentendo in certi villaggi parlar piemontese
dai discendenti dei Valdesi scampati dalle persecuzioni. Quelli che lì in
Sicilia avevano del lombardo e del monferrino, erano discendenti d'avventurieri
e di favoriti tirati nell'isola dal gran Conte Ruggero, quando vi condusse
sposa Adelaide di Monferrato. Dietro quella gentildonna uscita dal paese più
cavalleresco d'Italia, erano corsi a frotte nell'isola gentiluomini d'ogni
grado, e Ruggero aveva dato loro da abitare certi luoghi, che per il numero
grande di quegli ospiti furono poi chiamati villaggi lombardi. E coloro vi si
erano misti e fusi coi nativi, greci, arabi e normanni, pur conservando le loro
consuetudini e i loro dialetti. Aidone, Piazza, Nicosia, altre cittadette erano
di quei luoghi.
Nel pomeriggio di quel giorno,
apparvero lassù alcuni uomini di mare in calzoni bianchi, e si disse subito che
erano ufficiali delle navi inglesi ancorate nel porto di Palermo, saliti per
vaghezza a visitare quell'accampamento. Sapevano essi che v'avrebbero trovato
Garibaldi? E se lo sapevano, poteva ignorarlo il Comandante generale borbonico
di Palermo? Ciò dava dell'inquietudine. Essi intanto recavano che nella gran
città tutti erano persuasi della fuga di Garibaldi, che anzi questo si leggeva
stampato sulle cantonate, che l'ufficialità del presidio esultava, ma che n'era
addolorato e sgomento il popolo, cui la sbirraglia raddoppiava gli insulti.
Diedero per primi anche la notizia che il governo di Napoli aveva chiamato
'filibustieri' Garibaldi e i suoi appena partiti da Quarto, denunciandoli al
mondo come pirati; e il nome di 'filibustieri' fu subito preso per titolo di
vanto da quei giovani, come da altri in altri tempi altri nomi vituperosi.
Aggirandosi nell'accampamento, quegli Inglesi si dilettavano di schizzare i
profili dei più pittoreschi tra quei Garibaldini; si facevano scrivere nei loro
taccuini i nomi di questo e di quello, davano delle strette di mano che
parevano strappi; insomma sembravano in festa, e si facevano promettere una
visita sulle loro navi.
Ma i politici, e tra quei militi
ve n'erano molti, mormoravano. Ah gli Inglesi? Sempre dove avevano toccato
avevano lasciato l'ipoteca o fatto mercato. Berchet li aveva ben giudicati ne'
suoi 'Profughi di Praga'! Essi forse agognavano che in Sicilia si versasse
tanto sangue che non fosse più possibile nessuna pace coi Napolitani: e poi
d'accordo con Napoleone si sarebbero presa l'isola, lasciando libero lui di
farsi dar la Sardegna da Vittorio Emanuele, e questo di dargliela. Napoli con
le sue provincie continentali sarebbe rimasto ai Borboni. E così salvi questi,
salvato al Papa il resto del regno, l'Austria si sarebbe baciate le mani di
veder questi contenti e di tenersi il Veneto; la Russia contentissima, avrebbe
applaudito; e l'unità d'Italia, addio!
Queste cose si dicevano a
Gibilrossa dai mazziniani specialmente; e di quelli che le ascoltavano chi le
credeva già quasi belle fatte; chi ci si arrabbiava a discuterle, a negarle, e
chi crollava le spalle, ridendo. A buon conto, se era vero qualcosa d'altro che
già si sussurrava, quegli Inglesi avevano portato a Garibaldi i piani delle
fortificazioni di Palermo e dei posti occupati dal nemico alle porte. Questo
era bene sapere, perché il tempo incalzava, si avvicinava qualche grand'ora, e
con quella tal colonna andata dietro all'Orsini e che poteva da un'ora
all'altra apparire alle spalle, bisognava far presto.
*
Potevano essere le sedici
all'italiana antica, come si contavano le ore laggiù, quando si sentì dire che
Garibaldi aveva chiamati a sé tutti i suoi maggiori ufficiali e i Comandanti di
tutte le Compagnie. Grande commozione, grande attesa. Il campo pareva stare
tutto in ascolto. Si seppe poi subito che in quel consiglio Garibaldi aveva
fatti due casi: o ritirarsi a Castrogiovanni e là in luogo forte attendere che
la rivoluzione ingagliardisse e giungessero dal continente altre spedizioni;
oppure gettarsi su Palermo. Si diceva che tutti i Comandanti avevano gridato
con entusiasmo: «A Palermo!» e che anzi Bixio aveva soggiunto: «o all'inferno!»
Allora corse per tutta quella gente un tal fremito, che parve s'animassero fin
le rocce. La gran risoluzione era presa: presa in quel punto di Gibilrossa dove
fu fatto poi sorgere l'obelisco di marmo che vi si vede biancheggiare dal mare
e dai monti, a ricordanza di quell'ora suprema.
Lassù fu anche stabilito l'ordine
della marcia; impegno delicatissimo, in cui Garibaldi seppe usare tatto
squisito. Egli aveva deliberato di tentare l'assalto di Palermo dalla Porta
Termini, piombando improvviso, all'arma bianca, sulla guardia quale e quanta
essa fosse. Ma in ciò non poteva adoperare le squadre del La Masa, neppure
quelle armate di fucile, perché non avevano baionetta. Eppure non gli pareva né
prudente né giusto, privar affatto i Siciliani di quel grande onore di andar
primi o almeno coi primi, alla presa della loro capitale. Perciò risolse di far
marciare alla testa un mezzo centinaio di Cacciatori delle Alpi condotti dal
Tukory, i quali dovevano cadere come ombre addosso alla vedetta nemica. La
avrebbero trovata oltre certe case, a pie' di un altissimo pioppo. Bisognava
impedire come che fosse che quel povero ignoto soldato desse l'allarme alla
guardia del Ponte dell'Ammiraglio; sorte strana di un semplicissimo uomo, dalla
cui piccola vita poteva dipendere tutto un mondo di cose grandi.
Dietro quel drappello doveva
marciare un mezzo migliaio di 'Picciotti', poi i Carabinieri genovesi e
appresso tutte le Compagnie dei Cacciatori delle Alpi. Ultimo in coda, avrebbe
seguito il grande stormo.
Disposte così le cose, tutti quei
corpi furono condotti a pigliar il posto loro assegnato, nei pressi del
Convento che sorge lassù, per aspettarvi che imbrunisse.
I Cacciatori delle Alpi
abbandonavano così quei luoghi, dove avevano passato una delle loro giornate
più tormentose, sotto un sole feroce, senz'altro riparo che di poveri fichi
d'India. E in tutta quella giornata non avevano ricevuto che ognuno un pane e
una fetta di carne cruda, che avevano mangiato chi rosolandosela al fuoco sulla
punta della baionetta, chi scaldandosela sulle rocce arse dal sole, chi tale e
quale. Non erano mesti né lieti, si incamminavano forse alla morte. Ma se
avessero avuto fortuna, se fosse loro riuscito di penetrar nella gran Palermo,
e farvi levar su tutto il popolo come un mare, e pigliarsela, che grido di
gloria per tutta l'Italia, che gioia poi poter dire: io v'era! A ogni modo,
meglio quel cimento supremo, meglio che star dell'altro in quelle incertezze,
per finire alla meno peggio e tornare se forse e chi sa come, nell'Alta Italia
mortificati.
Intanto che veniva la notte,
furono fatte dai Comandanti raccomandazioni amichevoli. Marciare in silenzio;
non badare a rumore che potesse venire da qualsifosse parte; non si lasciassero
impaurire dalla cavalleria, se mai, come era da prevedersi, ne fosse capitata
sui fianchi della colonna. Contro di essa bastava formare i gruppi, giovandosi
degli accidenti del terreno, e tirare ai cavalli. Del resto, la fortuna di
Garibaldi avrebbe sempre aiutato, e all'alba sarebbero stati in Palermo. Con
certa esaltazione qualcuno ripeteva che Bixio aveva già detto: «A Palermo o
all'inferno.»
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