3. Garibaldi e Cavour.
Garibaldi stava in Torino alle
prese col Conte di Cavour, perché avvenuta la cessione di Nizza alla Francia,
credeva che egli la avesse patteggiata fin dal '57, quando aveva concertato con
Napoleone l'aiuto militare del '59. Invece la cessione era seguita per una
soperchieria di Napoleone, che oltre la Savoia, per non opporsi all'annessione
dell'Emilia e della Toscana al regno di Vittorio Emanuele, aveva voluto anche
Nizza. Cavour aveva fatto di tutto per salvarla, ma non v'era riuscito; e
Garibaldi pareva contro di lui implacabile. Ma il 7 aprile gli capitarono a
Torino il Bixio e il Crispi, i quali «a nome degli amici comuni per l'onor
della rivoluzione, per carità della povera isola, per la salute della patria
intera,» lo pregarono di mettersi a capo di una spedizione e di condurla in
Sicilia. E Garibaldi che forse meditava un moto popolare in Nizza stessa, per
salvarla lui se Cavour non aveva potuto; messo in disparte questo e ogni suo
pensiero, accettò e decise di far l'impresa.
Par quasi certo che Egli n'abbia
parlato con Vittorio Emanuele e che n'abbia avuti incoraggiamenti. Però il Re,
il 15 aprile, volle ancora scrivere al Cugino di Napoli che era «giunto il
tempo in cui l'Italia poteva esser divisa in due stati potenti, uno del
Settentrione l'altro del Mezzogiorno: che Egli pel bene suo lo consigliava di
abbandonare la via fino allora tenuta: e che se ripudiasse il consiglio, presto
egli, Vittorio Emanuele, sarebbe posto nella terribile alternativa o di mettere
a pericolo gli interessi più urgenti della stessa sua propria dinastia, o di
essere il principale strumento della rovina di lui. Qualche mese che passasse
ancora senza che egli si attenesse all'amichevole suggerimento, egli, il Re di
Napoli, sperimenterebbe l'amarezza delle terribili parole: troppo tardi.»
E scritto così, Vittorio Emanuele
partì lo stesso giorno 15 aprile pel suo viaggio trionfale in Toscana e
nell'Emilia, dove andava per la prima volta da Re.
*
La sera di quel 15 aprile Garibaldi
si presentò improvviso alla Villa Spinola nel territorio di Quarto, allora
ignoto borgo poco discosto da Genova, sulla riviera orientale. In quella villa
se ne stava Augusto Vecchi esule Ascolano, suo antico ufficiale di dieci anni
avanti, alla difesa di Roma.
- Buona sera, Vecchi; vengo come
Cristo a trovare i miei apostoli, ed ho scelto il più ricco, questa volta. Mi
volete?
- Per Dio, Generale, e con
piacere immenso! -
Pare una pagina romanzesca, ma
allora appunto cominciava il periodo in cui le cose più vere ebbero l'aria di
fantasie.
In quella villa il Generale si
stabilì, e vi chiamò i suoi.
Per andare in Sicilia occorrevano
armi, ed egli senz'altro mandò in Milano a prenderne di quelle già comprate col
fondo del milione di fucili, fatto raccogliere da lui per sottoscrizione
nazionale. Sennonché là, Massimo d'Azeglio, governatore, non solo rifiutò di
concedere che se ne portasse via una parte, ma le fece mettere tutte sotto
sequestro. Scrisse poi d'aver temuto che quelle armi finissero in tutte altre
mani che quelle di Garibaldi, certo temeva di Mazzini, ma in quel momento
l'atto suo diede grandemente da sospettare che il Governo fosse avverso a ogni
impresa garibaldina.
Veramente il Conte di Cavour
desiderava proprio più che mai che la spedizione non si facesse. Temeva che
Garibaldi, una volta mosso si lasciasse trasportare dal suo vecchio pensiero di
Roma, e invece che in Sicilia andasse a sbarcare su qualche parte della costa
pontificia, senza riguardo al pericolo di tirare addosso a sé e al Regno una
guerra dalla Francia. Sperava, anzi, che ogni cosa sfumasse. Il 24 aprile mandò
apposta il colonnello Frapolli da Garibaldi, per indurlo ad abbandonare ogni
disegno; e il Frapolli, amico del Generale, gli parlò delle difficoltà che si
opponevano ad una discesa nell'isola o nel continente. Gli ricordò persino le
tragedie di Murat, dei Bandiera, di Pisacane. Non si sa che viso facesse il
Generale a tali moniti del Frapolli, ma certo è che questi tornò a Torino da
Cavour, persuaso che Garibaldi non partirebbe. E, in verità, il Generale era
già inclinato a rompere ogni preparativo, perché dalla Sicilia aveva notizie
non buone. Ondeggiò tutti quei giorni pensando alla tremenda responsabilità di
una catastrofe. Il 27 gli giunse un telegramma da Fabrizi da Malta, quasi
lugubre: «Completo insuccesso nelle provincie e in Palermo; molti profughi
raccolti dalle navi inglesi giunti in Malta.» Così diceva il telegramma. E la
parola del Fabrizi valeva quella che Garibaldi stesso avrebbe detto. Era un
vecchio patriota di quelli sfuggiti nel 1831 alle forche di Modena; e sempre
poi aveva vissuto in esilio a onorare l'Italia e a farla stimare dagli
stranieri. Egli non poteva che dire la verità. E perciò Garibaldi deliberò di
lasciar andar tutto, e di tornarsene nella sua solitudine di Caprera: anzi,
diede ordine di tenergli un posto sul vapore che doveva partire il 2 maggio per
la Sardegna. Cavour lo seppe, e scrisse a Napoleone che ormai di una impresa di
Garibaldi non c'era più da temere.
Ma allora si erano fatti attorno
al Generale tutti i più ostinati a voler andare in Sicilia: Bertani, Bixio,
Crispi e tanti altri minori, che nella Villa Spinola tennero con lui una specie
di gran Consiglio, il 30 aprile, anniversario della sua bella vittoria del '49,
contro i francesi, sotto Roma. In mezzo a quel consesso, tra i discorsi roventi
di quei patrioti, come uomo ispirato da una luce improvvisa, Garibaldi balzò su
d'un tratto a dire: «Partiamo. Ma subito, domani!» Domani era troppo presto:
bisognava pensare ad avere i legni da navigare! Ma insomma un po' di giorni,
tre o quattro, sarebbero bastati. Intanto quegli operosi avrebbero raccolta la
gente da fuori. Dacché egli aveva detto: «Partiamo,» lasciasse fare, che ad
eseguire c'era chi ci pensava.
Il Conte di Cavour, ignorando
quella nuova deliberazione, era partito il 1 maggio per Bologna, a raggiungervi
nel giro trionfale il Re, cui sperava di strappare l'ultima parola che
impedisse a Garibaldi ogni tentativo d'allora e di poi. Narrano gli intimi del
Conte e del Re che si trovavano con essi in Bologna, avere il Cavour
manifestato fin l'intenzione di fare arrestar Garibaldi, se si fosse ostinato a
tentar qualche cosa, e d'andar egli stesso a porgli addosso le mani, se non si
trovasse chi avesse l'ardimento di farlo. E sarà vero, perché allora egli
temeva troppo che l'Imperatore dei Francesi, credendosi canzonato da lui,
pigliasse qualche violenta deliberazione contro l'Italia. Ma ormai alla forza
delle cose neppur egli poteva più resistere. E saputo ciò che a Genova si faceva,
stette col Re a Bologna, per non tornare a Torino in quei giorni a farsi
tormentare dalla diplomazia. Però prese le sue precauzioni. E temendo sempre
che Garibaldi volesse fare un colpo contro Roma, ordinò alla divisione navale
del contrammiraglio Persano d'andare in crociera tra Capo Carbonara e Capo
dello Sperone a Sant'Antioco, o, in altre parole, dinanzi al Golfo di Cagliari.
Gli ingiungeva però di non «adoperar le macchine»; e che cosa intendesse di
voler dire con ciò non si sa bene ora, né lo seppe allora forse neppure il
Persano. Poi non tornò a Torino se non la sera del 5 maggio, e là, da Genova,
gli piovvero le notizie. Che fare? Adesso non c'era altro che lasciar fare; e
giacché la spedizione non si poteva più impedirla senza che sorgessero chi sa
quali guai nel paese, pensò subito di mettersi sul gioco di dominarla, e di
rispondere alle proteste che lo avrebbero tempestato.
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