4. Genova nel gran
giorno.
In Genova, sin dagli ultimi di
aprile, stavano già molti dei più vogliosi di partire per la Sicilia, e altri
ve ne furono chiamati nei primi tre giorni di maggio. Per le vie di quella
città tutta lavoro, dove la gente va attorno sempre con l'aria di chi non ha
tempo da perdere, quei forestieri che riempivano i caffè e le passeggiate
stonavano alquanto. Ma forse nessuna città era adatta come Genova a farvi
quell'adunata e a servir di copertura al Governo. Il quale così, negli ultimi
momenti, poté far bene le viste di non accorgersi di nulla, proprio come se
nulla vi fosse, e tutto pareva inteso, consentito, voluto dalla città intera,
ma con somma prudenza.
Il 5 maggio ogni cosa era pronta.
Allora Garibaldi scrisse al Re cominciando: «Il grido di sofferenza che dalla
Sicilia arrivò alle mie orecchie, ha commosso il mio cuore e quelle d'alcune
centinaia dei miei vecchi compagni d'arme.» Pareva che volesse rammentare a
Vittorio Emanuele che l'anno avanti egli per il primo, nel suo discorso del 10
gennaio in Parlamento, aveva trovato la espressione giusta come un'eco delle
«grida di dolore» giunte a lui da ogni parte d'Italia. E soggiungeva di saper
bene a quale impresa pericolosa si sobbarcava, ma che poneva confidenza in Dio
e nella devozione dei suoi compagni. Prometteva che grido di guerra sarebbe
l'unità nel nome di Lui, Vittorio; e sperava che se mai l'impresa fallisse,
l'Italia e l'Europa liberale non dimenticherebbero che era stata determinata da
motivi puri affatto da egoismo. Disse, che riuscendo, un nuovo e brillantissimo
gioiello avrebbe ornato la corona di Lui; ma non celava l'amarezza sua per la
cessione della sua terra natale. E, certo per non compromettere il Re, finiva
scusandosi di non avergli detto il suo disegno, per tema che egli lo
dissuadesse dal fare quel passo. Mesta e solenne lettera, nella quale era
serenamente espresso il dubbio e la speranza e il sentimento dell'ora. Spiace
in essa quel tanto che c'è di finzione: ma insomma, i tempi erano tali, da
giustificare questo ed altro.
Il Generale scriveva pure
all'Esercito italiano, esortando ufficiali e soldati a star saldi nella
disciplina, a non abbandonare le fila per seguir lui. Scriveva all'Esercito
napolitano per ricordare ai figli dei Sanniti e dei Marsi che erano fratelli
dei soldati di Varese e di San Martino. E anche non dimenticava i Direttori
della Società dei Vapori Nazionali, cui nella notte doveva menar via il
Piemonte e il Lombardo, scusandosi di quell'atto di violenza, e raccomandandoli
al paese perché rimettesse qualunque danno, avaria o perdita che loro potesse
seguirne.
In tutte quelle lettere e in parecchie
altre di quel giorno, una frase qua un'altra là rivelavano un sentimento sicuro
ma anche una misteriosa tristezza.
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