8. A Telamone.
Intanto i due vapori
costeggiavano quasi la terra. Pareva già passato tanto tempo dalla partenza,
che i meno esperti, vedendo una torre su cui sventolava la bandiera tricolore,
credettero di esser già in Sicilia, e che quella fosse la bandiera della
rivoluzione trionfante. Ma non erano che in Toscana. Quella torre e quel gruppo
di case che le stavano intorno, si chiamavano Talamone. E quando le navi furono
là vicinissime, fu vista una barca vogare loro incontro: e nella barca stava un
ufficiale con in capo un enorme cappello a feluca, che non lasciava quasi
vedere un altro ufficiale che quello aveva seco. Erano i comandanti del forte e
del porto. Scambiarono dei saluti col Piemonte, vi montarono su, vi si
trattennero un poco con Garibaldi, poi tornarono nella loro barca; e poco
appresso i due vapori gettavano l'ancora in quel porto. Ivi, alla lesta,
Garibaldi discese a terra col suo stato maggiore, vestito da generale
dell'esercito piemontese, come l'anno avanti in Lombardia, e come se fosse in
terra sua fece sbarcare i Mille.
Il villaggio fu invaso. Quei
poveri abitanti, marinai, pescatori, carbonai della Maremma, si trovarono con
le case messe sossopra da quella gente che pagava, ma voleva mangiare. Forse
pensavano che anticamente così s'erano visti invasi i loro padri dai corsari;
ma saputo chi erano quei forestieri e l'uomo che li conduceva, si sbrigavano
con gioia per contentarli. Garibaldi undici anni avanti era passato per la
Maremma, e vi aveva lasciato la sua leggenda.
Intanto, tra quei volontari, i
più vaghi delle cose belle contemplavano il paesaggio. A guardare il mare
vedevano l'Elba, la Pianosa, Montecristo, il Giglio, quasi in vasto semicerchio
come a una gran danza: a guardar verso terra, vedevano il monte Amiata, e i più
colti indovinavano in quelle lontananze Santafiora e Sovana, nomi pieni di
storia. Tra l'Amiata e il mare, faceva tristezza un lembo della Maremma
infelice.
Là doveva essere Orbetello,
fortezza dell'antico Stato dei Presidii fondato da Carlo V, quando spenta la
repubblica di Siena e dato il suo territorio a Cosimo de' Medici, volle tenere
per sé quel lembo di dominio, diffidando certo del popolo senese e più del
fiorentino che aveva fatto la meravigliosa difesa nel 1530 contro le sue
milizie. Ora quel lembo di terra, dopo vicende molte, era toscano, italiano,
libero. Era stato anche del Re di Napoli fino al 1805. Ecco che ora vi faceva
sosta Garibaldi, per pigliarvi, se si può dir così, l'abbrivio, a levar via dal
trono gli eredi di quei Re.
In faccia a Talamone verso sud,
forse a dieci chilometri di mare, i contemplatori ammiravano il monte Argentaro
selvoso sulle sue cime, che guardate da quell'umile spiaggia parevano eccelse.
Gli stava ai piedi la cittadetta di Santo Stefano. Ricordo allora quasi fresco,
ivi, nel 1849, s'era fatto portare da Talamone in una barca da pescatori
Leopoldo II, fuggito da Firenze con la sua famiglia. Da Santo Stefano con
ignobili infingimenti, ingannati i toscani, era poi partito per Gaeta, dove
aveva cospirato per far venire gli Austriaci in Toscana. E gli Austriaci lo
avevano servito a rimetterlo in trono. Ma adesso erano appena passati undici
anni, si era avverata la minaccia fattagli dai più nobili uomini del paese; ed
egli da un anno se n'era dovuto andar via per sempre.
In un gruppo d'eruditi raccolti
all'ombra di un ciuffo di olivi, a ridosso di Talamone, si parlava d'una
battaglia vinta là attorno dai Romani contro i Galli Cesati. Quarantamila
morti! Ma come mai tanta strage con l'armi d'allora? Certo doveva avvenire
nell'inseguimento dei vinti. E dai Galli passavano a dir di Mario. Anche Mario
reduce da Cartagine per tornarsene a Roma, era sbarcato lì a Talamone. Ora
Garibaldi non era quasi un Mario buono? E Roma non era il suo pensiero? Se gli
fosse venuto in mente di andare anch'egli di là a Roma! Non era egli il
Generale della repubblica romana? Erano ardenti discorsi.
Ma, a questo proposito, nascevano
in quello e anche in altri gruppi discussioni vive sull'ordine del giorno udito
a bordo il mattino. Molti non si sapevano liberare da certo scontento che aveva
lasciato loro il motto monarchico; ma la disciplina volontaria era forte.
Difatti si staccarono poi dalla spedizione e se ne tornarono di là alle loro
case, soltanto sei o sette giovani cari. Seguivano il sardo Brusco Onnis che
del motto 'Italia e Vittorio Emanuele' era rimasto quasi offeso. Repubblicano
inflessibile, si era imbarcato a Genova sperando forse che Garibaldi, una volta
in mare, si ricordasse d'essere anche egli repubblicano; ma deluso, ora se ne
andava, e se ne andavano con lui quei pochi, però senza che fosse fatto a loro
nessun raffaccio. Rinunciavano per la loro idea ad una delle più grandi
soddisfazioni che cuor d'allora potesse avere, e il sacrificio meritava
rispetto.
|