9. I Mille.
Ma cosa si stava a perder tempo
in Talamone, mentre in Sicilia la rivoluzione pericolava, e si poteva,
giungendovi, trovarla spenta? Questo lo sapeva Garibaldi.
Intanto su quella spiaggia i
Mille si vedevano bene tra loro la prima volta, come in una rassegna.
Ora, chi parla di quei tempi e di
quelle cose, dice presto: il 1860, la Sicilia insorta, il gran nome di
Garibaldi, quello di alcuni suoi illustri, la partenza da Quarto, la traversata
maravigliosa, lo sbarco a Marsala, Calatafimi, Palermo e la liberazione finale;
due o tre date e un numero d'uomini, pochi più di Mille, e per la storia in
grande è quasi tutto.
Ma quei Mille chi erano? Che cosa
erano? Non certo una specie di compagnia di ventura all'antica; non una parte
di vecchio esercito costituito, staccata a scelta o per caso; nessuna legge li
obbligava, non erano soldati di professione, non avevano tutti quella media di
età che di solito hanno i soldati; non una cultura comune ed uguale, e nemmeno
una divisa uniforme. Vestivano quasi tutti alla borghese e alle diverse fogge,
dalle quali, a quei tempi, si riconoscevano ancora a qual regione d'Italia e a
qual classe sociale uno appartenesse. E parlavano quasi tutti i dialetti della
penisola. Erano, per dir così, parte dell'esercito popolare militante di cuore
nel partito rivoluzionario: vecchi, figliuoli di giacobini, di napoleonidi, di
Murattisiti; uomini di mezza età, educati dalla Giovane Italia, tra le congiure
e le insurrezioni; giovani nei quali la letteratura classica e la romantica
s'erano fuse in una bella temperanza a fecondare l'amor di patria. Con essi,
degli artigiani che dalle diverse scuole politiche e dai fatti belli
dell'ultimo decennio, erano stati destati al concetto della nazione.
Di loro fu subito detto che erano
eroi favolosi, pazzi sublimi, ed altre simili iperboli, e anche delle ingiurie.
Invece di volenterosi com'essi ve n'erano in Italia a migliaia; ma ad essi
intanto era toccata quella fortuna. Uno che vi era e dei migliori, scrivendone
poi nella vita di Garibaldi, con quattro pennellate alla brava disse che erano
un popolo misto «di tutte le età e di tutti i ceti, di tutte le parti e di
tutte le opinioni, di tutte le ombre e di tutti gli splendori, di tutte le
miserie e di tutte le virtù» e vi notò «il patriota sfuggito per prodigio alle
forche austriache e alle galere borboniche, il siciliano in cerca della patria,
il poeta in cerca d'un romanzo, l'innamorato in cerca dell'oblio, il notaio in
cerca di un'emozione, il miserabile in cerca d'un pane, l'infelice in cerca
della morte: mille teste, mille cuori, mille vite diverse, ma la cui lega
purificata dalla santità dell'insegna, animata dalla volontà unica di quel
Capitano, formava una legione formidabile e quasi fatata.»
Così li ritrasse il Guerzoni,
caro al Generale e vivido ingegno, e fu felice pittore.
Narrar di loro, descriverne gli
aspetti, farne rivivere la fisionomia morale, resuscitare coi ricordi i loro
sentimenti e quelli dell'epoca ora quasi estinti, è un giusto servigio che
vuole essere reso alla storia. La quale si avvia a non più fermarsi solo nelle
reggie per trovarvi le dinastie, o nei campi per descriver battaglie e
celebrare capitani; ma già accoglie nelle sue pagine il personaggio popolo, che
ai fatti col proprio sangue e col proprio danaro dà il cuore. E il cuore
governa il mondo, e il sentimento fa i veri miracoli della storia.
*
A colpo d'occhio, si poteva dire
che per un quarto quei Mille erano uomini fra i trenta e i quarant'anni e per
un altro bel numero tra i quaranta e i cinquanta; forse dugento stavano tra i
venticinque e i trenta. Gli altri, i più, erano tra i diciotto e i venticinque.
Di adolescenti ce n'erano una ventina, quasi tutti bergamaschi. Alcuni qua e là
tra quei gruppi parevano trovarvisi per curiosità, perché‚ vecchi oltre i
sessanta; e invece vi stavano a spendere le ultime forze di una vita tutta
vissuta nell'amore della patria. Il vecchissimo passava i sessantanove, aveva
guerreggiato sotto Napoleone e si chiamava Tommaso Parodi da Genova; il giovanissimo
aveva undici anni, si chiamava Giuseppe Marchetti da Chioggia, fortunato
fanciullo cui toccava nella vita un mattino così bello! Seguiva il medico
Marchetti padre suo, che se l'era tirato dietro in quell'avventura.
In generale, certo più della metà
erano gente colta; anzi si può dire che soldati più colti non mossero mai a
nessun'altra impresa. Alcuni di essi, i vecchi, avevano combattuto nelle
rivoluzioni del '20 del '21 del '31; molti nelle guerre del '48 e del '49 e
nelle insurrezioni di poi. Nella guerra del 1859 avevano militato quasi tutti,
volontari nei reggimenti piemontesi o tra i Cacciatori delle Alpi sotto
Garibaldi. E quasi tutti avevano tenuto il broncio al paese perché‚ non
si era mosso quanto avevano sperato, tanto almeno che il Piemonte non avesse
avuto bisogno dell'aiuto francese. Pronti essi sempre a dar la vita, credevano
che tutti dovessero esserlo come loro, e che la rivoluzione bastasse a vincere
i grandi eserciti e a far cadere le fortezze. Per essi a ogni modo, quell'aiuto
era stato un gran dolore, perché lo aveva recato Napoleone, che allora
chiamavano con forte rancore: 'l'Uomo del 2 dicembre'.
Ma v'erano pure certuni che
ragionando con la storia per guida, sebbene un po' da romantici, trovavano che
anzi l'aiuto francese era stato ammenda giusta d'una colpa antica. Non era
stata la Francia di Carlo VIII la causa prima della servitù tre volte secolare
d'Italia? I francesi del 1494 avevano, per dir così, gettato il dado,
provocando altri a giocarsi con loro il possesso d'Italia: ora, quelli del 1859
erano venuti a riparare il danno fattole dai loro avi. Qualcosa di
provvidenziale pareva di vederlo sin nelle date capitali di quella storia. Non
era finita la gara antica proprio nel 1559, con quel tal trattato di Castel
Cambresis che, esclusi i Francesi, avevano messo l'Italia, direttamente o
indirettamente, quasi tutta nelle mani degli Spagnuoli? Ed ecco che dopo
trecento anni giusti, la Francia era venuta a strappar la Lombardia dalle mani
dell'Austria, erede in qualche guisa degli Spagnuoli. E giusta era venuta con
alla testa un imperatore di sangue italiano; come era stato un italiano
Emanuele Filiberto, colui che trecent'anni avanti aveva finita la gara antica
tra Spagnuoli e Francesi, vincendo per la Spagna a San Quintino. Non era quasi
da dire che gli italiani d'allora si fossero pigliata la sola vendetta
possibile contro i Francesi? Questi per primi li avevano disturbati mentre
lavoravano a resuscitare il sapere antico per sé‚ e per l'Europa; ed
essi, all'ultimo, avevano dato il genio di un loro guerriero per farla finita a
beneficio del loro nemico, dovesse pure essere poi peggiore di essi. Adesso
quell'Italiano che imperava in Francia ed era venuto con centocinquantamila
soldati pareva un riparatore. Anche l'Europa intera non sembrava fare ammenda
di qualche suo vecchio torto? Se essa gridava ma lasciava che in Italia
gl'italiani facessero ciò che loro sembrava meglio, non poteva dire che si
contenesse a quel modo per un tacito consenso di giustizia verso il popolo che
trecent'anni indietro le aveva dato i frutti del proprio studio, l'arte sua, e
per essa aveva scoperto la terra e aperte le vie a studiar il cielo, con
Colombo e con Galileo?
*
I giovani dai venti ai
venticinque anni quasi tutti sentivano in sé‚ vivi e presenti i fratelli
Bandiera con la loro storia, intesa nella prima adolescenza, tra le pareti
domestiche, dai padri e dalle madri angosciate. Quell'Emilio di 25 anni,
quell'Attilio di 23, disertati a Corfù di sulle navi austriache; la loro madre
corsa invano colà, per supplicarli di smettere il loro disegno d'andar a
morire; le loro risposte a Mazzini che li consigliava di serbarsi a tempi
migliori; e poi l'imbarco, il tragitto nell'Ionio e lo sbarco sulla spiaggia di
Crotone, presso la foce del Neto, - che nomi! - e il primo scontro a San
Benedetto coi gendarmi borbonici, e le plebi sollevate a suon di campane a
stormo contro di loro gridati Turchi; e il secondo scontro a San Giovani in
Fiore, - poesia, poesia di nomi! - e l'inutile eroismo contro il numero, e la cattura
e la Corte marziale e le risposte ai giudici vili e la condanna e la
fucilazione nel Vallo di Rovito; tutto sapevano, tutto come canti di epopea
studiati per puro amore. E suonava nei loro cuori la strofa amara ed eroica del
canto di Mameli:
L'inno dei forti ai forti,
Quando sarem risorti
Sol li potrem nomar.
Un po' più in qua negli anni,
quei giovani avevano sentito il grido di Pio IX: «Gran Dio, benedite l'Italia!»
andato a suonare fin nei più riposti tugurii. Avevano viste le rivoluzioni nelle
quali, troppo fanciulli, non avevano potuto cacciarsi; e le guerre del '48 e
del '49, e le cadute, e le disperazioni, e le speranze rinate; e nel '57 la
gran tragedia di Carlo Pisacane coi suoi trecento, tra plebi mutatesi anche
allora in furie contro di loro andati per redimerle, combattuti, accerchiati,
oppressi, morti.
Ma dunque tutte le spiaggie del
Regno erano tombe aperte per chiunque tentasse di portarvi un po' di libertà?
Cresceva la febbre in quei cuori.
E ve n'erano che avevano
concepito il pensiero di andar laggiù per un ricordo di scuola di qualche anno
addietro: un luogo dell'Odissea e dell'Eneide; o il racconto letto in Plutarco
della libertà data dai Siracusani ai prigionieri ateniesi, solo per averli
sentiti cantare i cori di Euripide; o un episodio della guerra servile dei
tempi romani. E v'era chi più che delle cose antiche era pieno delle recenti,
per aver letto nella storia del Colletta i supplizi del Caracciolo e del
Sanfelice, o la fine della repubblica Partenopea nel 1799.
Altri ancora s'era inebriato dei
canti popolari siculi, uditi nella melodia viva di qualche volontario siciliano
conosciuto l'anno avanti nei Cacciatori delle Alpi. Ve n'era fin uno, e lo
narrava, che aveva avuto la spinta a quel passo da un fatto da nulla, ma che
sul suo cuore aveva potuto più che la scuola e i libri. Un giorno di luglio
dell'anno avanti, stando egli in Brescia alla porta di uno degli ospedali zeppi
ancora dei feriti di Solferino e di San Martino, aveva veduto fermarsi un carro
di casse d'aranci e di filacciche e di bende. Venivano dalle donne di Palermo!
O santa carità della patria! Dunque in quella terra lontana si pensava a chi
pativa per tutti? E aveva anche inteso dire dai medici che quelle cose erano
uscite dall'isola trafugate, perché‚ la polizia di laggiù, guai! Dunque
c'era in Italia una tirannide più cruda di quella dell'Austria? Ed egli aveva
fatto voto di andare a dar la sua vita laggiù, se mai fosse venuta l'ora di
levar quella tirannide dal mondo.
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