2. I Carabinieri
genovesi.
Ora ecco i Carabinieri genovesi,
quasi tutti di Genova, o in Genova vissuti a lungo, mazziniani ardenti, armati
di carabine loro proprie, esercitati nel tiro a segno da otto o nove anni i
più, gente che s'era già fatta ammirare nel 1859, ben provveduta, colta,
elegante.
Li comandava Antonio Mosto, tutto
di Mazzini, uomo non molto sopra i trent'anni, ma che ne mostrava di più: barba
piena, lunga, sguardo acuto, ficcato lontano come per guardare se al mondo
esistesse il bene quale ei lo sentiva in sé. Quanto al coraggio, era per lui
cosa tanto naturale, che non poteva credere vi fosse altri che non ne avesse.
In tutta la campagna i borbonici non ebbero per lui una palla, ma il cuore
glielo straziarono uccidendogli il fratello Carlo, che piantato lo studio
all'Università di Pisa, aveva ripreso la carabina. E la fortuna gli serbava di
tornare illeso anche dalla guerra del 1866. Ma l'anno appresso, a Mentana, una
palla francese lo colpì di tale ferita, che lo rese invalido fin che nel 1880
morì.
Suo luogotenente era Bartolomeo
Savi, un fierissimo repubblicano, tutto nudrito di studi classici, e già ben
sopra la quarantina; uomo austero e cruccioso, che guardava sempre con un certo
piglio di rimprovero Garibaldi, perché s'era lasciato tirare dalla parte del
Re. Ma lo seguiva perché gli pareva di non aver diritto di negar il suo braccio
alla patria, soltanto pel motivo che la patria si andava rifacendo nel nome di
un re. E lo seguì poi fino al giorno che, dopo Aspromonte, tutto gli parve
falsato, e, poco appresso, tediato della vita si uccise.
Inquadravano la compagnia Canzio,
Burlando, Uziel, Sartorio, Belleno, dei quali i tre ultimi non tornarono più; e
tra tutti, quei trentasette carabinieri dovevano pagare un gran tributo fin dal
primo scontro di Calatafimi, dove cinque morirono, dieci furono feriti. Ma la
vittoria fu dovuta in gran parte alle loro infallibili carabine.
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