9. Le armi.
Durante la sosta a Santo Stefano
furono distribuite le armi alle compagnie; solenne momento! Faceva pensare a un
altro ancor più solenne, quello di quando vicina l'ora della battaglia, i
reggimenti d'allora caricavano i fucili con quell'indescrivibile ronzio di
bacchette tutte piantate a un tempo nelle canne, che dava il raccapriccio e il
cupo sentimento della morte. Quelle armi erano vecchi fucili di avanti il '48,
trasformati da pietra focaia a percussione, lunghi, pesanti, rugginosi, tetri.
Stava legata a ciascun fucile una baionetta nel fodero cucito a un cinturone di
cuoio nero, con certa piastra da fermarselo alla vita e certa cartucciera
proprio da far malinconia a provarsela. Oggi non se ne vorrebbe servire, per
così dire, neppure un bandito. Eppure nessuno se ne lagnò. Insieme con
quell'arma, ognuno ricevette venti cartucce, e se le mise a posto con gran cura.
Quelle povere cose erano tutte le risorse di cui Garibaldi poteva disporre.
Povero Garibaldi! Nell'ultimo momento che stette in quelle acque, un suo
compagno d'altri tempi che lo aveva seguito nei mari della Cina e che poi aveva
perduto una gamba combattendo pei liberali del Perù, bel soldato, vivacissimo
ingegno, voleva seguirlo così mutilato com'era anche a quella sua bella guerra.
Egli dovette supplicarlo di andarsene, e infine comandarglielo. Furono lagrime!
Ma Stefano Siccoli dovè ubbidire, discendere, veder da terra salpare l'ancora,
stringersi il cuore perché non gli scoppiasse. Però aveva già il suo proposito
bell'e formato: egli avrebbe raggiunto Zambianchi.
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