10. Di nuovo in mare.
Era quasi il tocco dopo mezzodì, quando
il Piemonte e il Lombardo si mossero verso l'isola del Giglio. Finalmente!
Garibaldi era stato tutti quei
due giorni in angustia. Certo egli ignorava ciò che si seppe poi, e cioè che il
Ricasoli, governatore della Toscana, aveva telegrafato al prefetto di Grosseto
di «tenersi estraneo a quanto succedeva» nel golfo di Talamone. Ma lo avesse
anche saputo, temeva del Farini, temeva del Cavour, né avrebbe potuto
giustamente lagnarsi di loro, se gli avessero fatto giungere addosso la squadra
di Persano a pigliarselo. Il momento era ben più cruccioso che quello di
Genova. Nei tre giorni della sua partenza, tutta l'Europa avea avuto tempo di
mettere il Governo di Torino alla stretta o di catturare lui o di prepararsi
alla guerra. E allora che rovina! Le genti del mezzodì deluse e cadute
nell'accasciamento; egli e il suo partito umiliati; Vittorio Emanuele costretto
a rinnegare il pensiero unitario! Ci sarebbero voluti molti anni a rimetter su
gli animi; e intanto, prima che tornasse un'occasione, sarebbero divenuti
vecchi, sarebbero forse morti il Re, Cavour, Mazzini, lui, tutta quella
generazione; e non si sapeva che cosa sarebbe poi avvenuto.
Ora dunque egli e tutti sulle due
navi respiravano contenti. Girata la punta dell'Argentaro, ecco a destra
l'isola del Giglio con la sua costa erta e rocciosa e col suo borgo su in cima.
Una freschezza, una pace! Quanti di quei naviganti già vecchi e stanchi avranno
pensato di venirvi un dì a trovarsi un posticino lassù, per invecchiarvi del
tutto e morirvi, pensando alla loro odissea! Ma ora l'odissea non era finita,
anzi andavano a crearne forse l'ultimo canto.
Più in là del Giglio,
Montecristo, l'isola dei sogni; e lungo la costa occidentale dell'Argentaro a
guardare in su torri, torri e torri. Che strano arnese da guerra doveva essere
stato quel monte! E poi a sinistra Giannutri, luogo da capre selvatiche e da
conigli.
Di là da quelle isolette i due
vapori pigliarono il largo; dunque alle coste romane non c'era proprio più da
pensarci, e presto sarebbero entrati nelle acque napolitane.
Veniva ai Mille la sera e la
malinconia. Cosa si pensava di loro nelle loro città, nei loro villaggi, nelle
loro case? Davvero tutta l'Italia doveva stare in grande ansietà. Ormai la
spedizione era via da quattro giorni; ogni istante poteva esser quello di una
grande tragedia, in qualche punto del Tirreno. Se i due vapori si fossero
imbattuti nella crociera napolitana, avrebbero dovuto arrendersi o avventarsi
cannoneggiati contro le navi borboniche, lanciarsi all'arrembaggio da disperati,
e farsi saltar in aria con esse o pigliarsele. Chi sapeva mai! Con Garibaldi e
con Bixio alla testa, tutto era possibile. Ma se invece fossero stati catturati
e menati nel porto di Napoli, dove quel Re potesse veder Garibaldi e i suoi là,
sotto le finestre della reggia, prima di farli morire forse tutti, o empirne le
sue galere? Chi amava, pensava così e temeva e sperava; e forse non sarà
mancato chi anche peggio della cattura avrà augurato una tempesta di cannonate
sui due vapori e il fondo del mare a chi vi era su, per tomba.
Ma i due vapori andavano ancora
sicuri. E andarono tutta la notte e tutto il giorno dipoi, che era il 10, senza
veder che cielo ed acqua come se fossero nell'Oceano. A bordo, i pavesi
cantavano. Tutto era quieto. Solo a una cert'ora prima del mezzodì, ci fu un
po' di trambusto, perché uno del Lombardo si era gettato in mare, pel dolore di
non essere riuscito a farsi inscrivere nei Carabinieri genovesi. Fu subito
fermato il vapore; una lancia vogò come saetta, giunse dove quell'uomo si dibatteva
tra le onde, e uno della lancia si chinò, lo tirò su mezzo morto ma come fosse
un gingillo. Quel forte dalle braccia così gagliarde doveva essere, era certo
il figlio di Garibaldi. A bordo si diceva così, perché così le moltitudini
fanno la loro poesia, e infatti quel forte era proprio Menotti.
Dopo, sul meriggio, il Piemonte
cominciò a filar via più spedito e il Lombardo a rimanere indietro. La distanza
s'allungava ora per ora... Dove voleva andare il Generale così solo? Forse
aveva pensato di dividere in due la spedizione, per non correre tutti la stessa
sorte, se mai fosse stata avversa? Chi lo sapeva! Divisi, Piemonte e Lombardo,
l'uno o l'altro sarebbero riusciti ad approdare, e riuscendo tutt'e due, una
volta sbarcati, facile sarebbe stato riunirsi nell'isola.
Era un nuovo dolore per quei del
Lombardo, poiché se Bixio era Bixio, ben più fortunati erano coloro che si
trovavano a correr le sorti del Generale, ora che la prova era così vicina.
Finire con lui come che fosse, ognuno se lo poteva augurare.
In un certo momento, mentre gli
animi erano agitati così, Bixio chiamò tutti a poppa. Era furioso: Aveva
scaraventato un piatto in viso a uno che s'era lamentato dei superiori, e aveva
perduto a lui il rispetto. - Tutti a poppa! -
E Bixio di lassù, dal ponte del
comando, fremente come un'aquila librata sull'ali, già per piombare sulla
preda, parlò:
«Io sono giovane, ho trentasette
anni ed ho fatto il giro del mondo. Sono stato naufrago, prigioniero, ma son
qui e qui comando io. Qui io sono tutto, lo Czar, il Sultano, il Papa, sono
Nino Bixio. Dovete ubbidirmi tutti: guai chi osasse un'alzata di spalle, guai
chi pensasse d'ammutinarsi. Uscirei col mio uniforme, colla mia sciabola, con
le mie decorazioni, e vi ucciderei tutti. Il Generale mi ha lasciato,
comandandomi di sbarcarvi in Sicilia. Vi sbarcherò. Là mi impiccherete al primo
albero che troveremo, ma in Sicilia, ve lo giuro, vi sbarcheremo.»
Veramente esagerava, perché
l'atto di colui che lo aveva offeso era affatto individuale, e non meritava quel
suo fiero discorso. Però quand'egli ebbe finito e voltò le spalle, forse per
non farsi vedere commosso, tutte le braccia erano alzate a lui, tra grida di
lode. Ma da quel suo discorso parve a tutti di aver indovinato che il disegno
di Garibaldi era proprio di tentar lo sbarco, egli e Bixio, ognuno da sé.
Difatti il Piemonte era già quasi fuori della lor vista, sicché prima che fosse
notte fatta, non ne scorgevano neppur più il fumo. E passò sul Lombardo un
soffio di gran malinconia. Erano congetture. Di certo vi era che cominciava la
notte dei pericoli veri. Ormai la marineria napoletana doveva sapere da un
pezzo che la spedizione era in mare, e che si era forse già tesa tutta davanti
all'isola ad aspettarla. Garibaldi andava ad esplorare.
Egli, prudentissimo e in guerra
sempre geloso del proprio segreto, soltanto dopo salpato da Santo Stefano,
poiché allora nessuno avrebbe più potuto propalar nulla, aveva detto al suo
aiutante Turr di chiamargli Crispi, Castiglia e Orsini siciliani, per
determinare il punto di sbarco. E in quella conferenza, abbandonato il suo
primo pensiero di scendere a Castellamare del Golfo, aveva deliberato di
tentarlo a Porto Palo, sulla costa tra Sciacca e Mazzara, dove è fama che il 16
giugno dell'827 siano sbarcati i primi Saraceni che invasero l'isola, chiamati
e guidati da Eufemio di Messina. Ma certamente questo fatto di mille anni
avanti non entrò per nulla nella scelta di Garibaldi: perché né egli, né quegli
uomini che stavano con lui, se anche lo sapevano, erano teste da fissarvisi su.
Comunque sia, per andare a Porto Palo, i due vapori dovevano fare falsa rotta
verso la Berberia, e poi, se le acque parevano libere, voltar di colpo verso
Sicilia a trovarlo.
Ma assai dopo il mezzo di quella
notte dal 10 all'11, Garibaldi giunto presso l'isoletta di Maretimo, che nel
gruppo delle Egadi è la più lontana dalla costa di Sicilia, deliberò di
fermarsi celato dall'isoletta e a lumi spenti, per aspettare il Lombardo. Da
ponente e da tramontana vedeva i fanali delle navi napolitane in crociera, e in
quei momenti doveva parergli d'esser ne' suoi tempi quasi favolosi di Rio
Grande d'America. Stato un pezzo in quel silenzio come in agguato, inquieto pel
Lombardo che non appariva, tornò indietro per cercarlo. E coloro che stavano
sul Lombardo e che a quell'ora vegliavano, quando rividero il Piemonte lo
credettero una nave nemica che corresse loro incontro a investirli. Lo credette
lo stesso Bixio. Piantato sul suo ponte, egli fece levar su tutti e inastar le
baionette; comandò al macchinista di dar tutto il vapore, e al timoniere di
voltar tutto a sinistra, per andare alla disperata addosso a quel legno. A
prora Simone Schiaffino, capitan Carlo Burattini d'Ancona, Jacopo Sgaralino di
Livorno, con dietro una folla, stavano pronti per lanciarsi all'arrembaggio,
tutto il ponte del Lombardo fremeva, e mancava poco al grand'urto. Ma allora
sonò la voce di Garibaldi:
- Capitan Bixio!
- Generale! - urlò Bixio. -
Indietro! Macchina indietro! Generale, non vedevo i fanali.
- E non vedete che siamo in mezzo
alla crociera nemica? -
La commozione era stata così
grande, il passaggio dallo sgomento, dall'ira, dalla ferocia alla gioia così
repentino, che la parola 'crociera' non fece quasi niun senso, e tutto fino a
un certo segno tornò quieto. Intanto Garibaldi e Bixio si concertarono, poi i
due vapori ripresero la via l'un presso l'altro verso l'Africa, sempre però il
Piemonte un po' avanti. Così andarono fino all'alba, e per le prime ore del
mattino, in quell'acque tra la Sicilia e le coste di Barberia, ma senza mai
perder di vista il gruppo delle Egadi; Levanzo lontana, Maretimo più in qua,
ancor più in qua verso loro la Favignana. A bordo del Lombardo un Galigarsia,
nativo di quell'isoletta, povero milite che doveva morire quattro giorni dipoi
a Calatafimi, diceva ad un gruppo di quei suoi compagni che in quell'isoletta
così bella v'era un carcere profondissimo sotto il livello del mare, dove
stavano chiusi sette compagni di Pisacane sopravvissuti all'eccidio di Sapri.
Condannati al patibolo e poi graziati, morivano ogni ora un po' in quella fossa
maledetta.
Ma il sentimento del pericolo
presente, la maravigliosa vista delle cose in contrasto col disgustoso stato in
cui tutti si trovavano, pigiati da tanto tempo su quel legno, non lasciavano
quasi posto alla pietà per chi dolorava altrove. Del resto, l'ora era decisiva:
o presto quei miseri sarebbero usciti liberi, o avrebbero avuto dei nuovi
compagni.
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