6. Dopo la vittoria.
Sul colle conquistato riposarono
i vincitori. E cominciò subito la raccolta dei feriti gravi, che non avevano
più potuto reggersi, e giacevano giù pei fianchi del colle, molti, troppi, per
un fatto di così pochi combattenti e di così corta durata. Tra grave e non
gravi erano 182, i morti 31. Le ferite erano orribili, lacerate, larghe,
massime quelle fatte dalle palle ogivali cave dei Cacciatori. Pochi napolitani
che i loro non avevano potuto portar via, si lasciavano pigliar su meravigliati
di vedersi trattati bene, mentre s'erano forse aspettati d'essere uccisi.
All'allegrezza della vittoria si mescolava così quella grande malinconia. E
s'era messo un vento freddo che faceva frizzar la pelle. Calavano intanto dalle
montagne le squadre dei 'Picciotti', e invadevano il campo di battaglia, meravigliati
anch'essi del combattimento contemplato dall'alto, come dai gradini d'un
anfiteatro una lotta di gladiatori.
Garibaldi guardava sempre una
strada che da ponente, per una gola, metteva in quella specie di conca da cui
sorgevano su i due colli, quello della sua posizione del mattino e quello
conquistato su cui si posava coi suoi. Forse temeva l'arrivo di un corpo nemico
da Trapani. Ma aveva fatto mettere gli avamposti, e dato l'ordine a Bixio di
collocare le artiglierie. Aveva anche già detto di voler salire a Calatafimi il
giorno appresso, e sapeva lui per quali vie si sarebbe incamminato. Per quella
fatta dai Napolitani nella ritirata no certo: e questo capivano tutti, perché
tentar un attacco da quella parte sarebbe stata una follia. Ma egli era allegro
in viso, e ciò bastava.
Uno strano sentimento, che tutti
dovettero provare, ma di cui si accorsero e se lo spiegarono per dir così solo
i più raffinati allora e molto di poi anche gli altri, ripensando a quelle ore,
fu quello dell'isolamento in cui si trovavano. Non erano passati che dieci
giorni da quando avevano lasciato Genova, eppure pareva loro d'essere via da
mesi e mesi, d'aver navigato molto, d'aver camminato molto, d'esser già quasi
gente dimenticata. Si sapeva nell'Alta Italia che erano sbarcati, che erano
stati accolti bene? Qualche spirituale forza dava almeno in quel momento un
senso vago del dove si trovavano e della loro vittoria? A Milano, a Genova, a
Torino e nella Venezia gemente in mani austriache, per tutti i borghi e i
villaggi da dove qualcuno d'essi s'era mosso, cosa si pensava, cosa si sperava,
cosa si temeva per loro? Ah! Un filo di telegrafo per mandare la gran notizia
alla patria e riceverne una parola. Certo da Napoli sarebbe taciuta o mandata
pel mondo svisata, falsata la notizia della battaglia a far piangere.
E intanto erano scene di gioia,
come a rivedersi dopo anni ed anni, nell'incontrarsi fra loro amici di casa, di
scuola, di Compagnia che si erano perduti di vista durante il combattimento e
che si ritrovavano sani e salvi. Ed erano lamenti per i caduti, il tale giù ai
primi colpi, il tal altro a mezzo al colle, un altro addirittura in cima quasi
in braccio ai nemici. Andavano a cercarli, a guardarli, a baciarli. E così i
nomi dei morti e dei feriti, il modo, il come, il dove, il quando, tutti i
particolari se li scambiavano, e parlavano commossi, ma tuttavia ancora con un
po' del sentimento egoistico d'essere usciti salvi dal pericolo in cui altri
aveva lasciato la vita. Si sa; il vero dolore, quello grande e sincero viene
dopo, quando il sangue si è rimesso in calma e la pietà si ridesta.
Tra le Compagnie che si erano
riordinate, si faceva un gran parlare dell'importanza del fatto; qua e là in
quel campo ci parevano dei piccoli Parlamenti. Quelli che avevano sentito Garibaldi,
quando aveva detto a Bixio: «Qui si fa l'Italia o si muore,» commentavano le
solenni parole, e pareva proprio a tutti di sentirsi piantato in cuore che il
fatto d'armi, piccolo in sé, era già come un'ultima battaglia risolutiva, da
combattersi ancora sì, non si sapeva dove né quando, ma già vittoriosi. E ciò
voleva dire l'Italia fatta sin da quel giorno, su quel colle.
Il qual colle aveva tuttavia un
nome di malaugurio. Era stato subito detto che si chiamava 'Pianto dei Romani',
perché ivi, più di duemila anni indietro, questi erano stati vinti dai
Segestani e dai Cartaginesi. Ma quel nome di mestizia era un'invenzione, o per
lo meno una interpretazione errata. 'Pianto' non è che il vernacolo siciliano
'Chiantu', o piantamento di viti; e uno n'era stato fatto far su quel colle da
un'antica famiglia Romano. E difatti, quei tali terrazzi dovevano essere stati
fatti per dei poderosi filari di viti, sebbene allora vi si vedessero soltanto
arbusti grami, e piante che esalavano un tristo odore di cimitero. Così, e
durante il combattimento, aveva detto il livornese Giuseppe Petrucci della
compagnia Bixio, facendo parer ai vicini di fiutar davvero un'aria di morte.
*
La notte calò rapida come nelle
giornate più corte dell'anno. E in quel crepuscolo fu commovente veder un
gruppo di sei o sette Francescani, i quali dopo aver combattuto fino con
tromboni, partivano per tornare al loro convento. Erano accorsi là da
Castelvetrano. A quell'ora se ne andavano giù dal colle nei loro tonaconi
grossi, con le loro armi in spalla, seri e tranquilli, come se tornassero da
aver fatto la questua tra quei soldati che avevano fame, e stavano divorando
pane e cacio distribuito in fretta già quasi nel buio. Poi le Compagnie si
addormentarono.
Al tocco dopo la mezzanotte la
sentinella dell'avamposto verso Calatafimi diede l'alto a due persone che le
venivano incontro.
- Amici, galantuomini di
Calatafimi.
- Avanti. -
Tutto l'avamposto fu subito in
piedi.
- Cosa volete? -
Con l'anima nelle parole, quei
due galantuomini recavano che i Napoletani avevano abbandonato Calatafimi,
marciando verso Alcamo, che stava di là, di là...
La notizia era lieta. Levava la
gran preoccupazione di ciò che sarebbe potuto avvenire il giorno appresso. Da
Palermo, a quell'ora, poteva già esser giunto per nave a Castellamare un corpo
di aiuto ai vinti, e con tutta comodità aver marciato da Castellamare a
Calatafimi. Ora se i Napolitani se n'erano invece andati, ciò voleva dire che a
Palermo non c'era un generale che avesse occhi. Bene, bene! Quei galantuomini furono
condotti da Garibaldi, che stava ben desto nella casupola sul colle, e che gli
accolse con gioia. Fatta l'ambasciata, volevano tornarsene; ma egli, non li
volendo lasciar esporsi a pericoli, se li tenne fino al mattino. Avrebbero
marciato con lui. Ed essi non s'accorsero che forse diffidava di loro, tanto
era buona e incredibile la notizia che gli avevano portato.
*
Nel brivido che dà l'alba, prima
ancora che le trombe suonassero le sveglie, molti di quei militi, mezzo
intirizziti dalla gran guazza, giravano già pel campo a rivedere i morti. Di
questi ve n'erano che parevano dormirsene sicurissimi d'essere svegliati a lor
tempo, tanta era la pace che avevano nel volto. Così Giuseppe Belleno, così
Giuseppe Sartoriio, tutti e due Carabinieri genovesi; questo colpito nel petto
proprio nel momento che fulminava un gran fante borbonico, mirato a prova da
lui. Aveva data e ricevuta la morte in un punto. Poco discosto giaceva
Ferdinando Cadei di Caleppio, bel giovane di ventun'anno, che adagiato sul
fianco destro pareva sogguardasse timidamente. Carlo Bonardi da Iseo non si
trovava più nel luogo dov'era caduto e rimasto morto bocconi, né per quanto gli
amici suoi cercassero là attorno vedevano le sue larghe spalle da atleta, né il
mantello che portava rotolato a bandoliera ancora nell'ultimo istante. Cosa
n'era mai stato? Invece il gran Schiaffino copriva ancora la terra là dove
l'anima sua lo aveva lasciato. Era solo un po' scolorito in viso. In uno dei
punti, dove la resistenza del nemico era stata più forte, giaceva Luciano
Marchesini da Vicenza, col capo su d'un sasso nero che pareva un libro. «Come
il Battaglia l'anno scorso a San Fermo!» diceva Odoardo Rienti da Como. E
narrava di Giacomo Battaglia poeta, che combattendo tra i Cacciatori delle Alpi
cadde a San Fermo colpito in fronte, e tratto di tasca un suo Dantino se lo
pose sotto il capo e sul poema divino spirò. Un po' più in su, e proprio sulla
cima del colle, dove erano stati fatti gli ultimi colpi, giaceva come un
assiderato Eugenio Sartori da Sacile. La morte che, toccandolo quasi per
saggiarlo a Venezia nel '49, lo aveva lasciato tornare alle mense patriarcali
di casa sua, se l'era preso lì. Egli no, non pareva in pace! Gli occhi non gli
si erano ancora chiusi, e, dopo tante ore, il suo viso esprimeva sempre una
gran collera da battaglia.
E via via cercati così, i morti
furono rivisitati quasi tutti. Ma alla fine bisognò pure che i vivi gli
abbandonassero. Sarebbero poi venuti i seppellitori a scavare a ogni morto una buca
lungo il corpo, ve l'avrebbero fatto rivoltar giù forse con malgarbo, poi o sul
corpo o sul dorso, poche badilate di terra e addio. Un dì, chi sa quando,
qualcuno verrebbe a scoprire delle ossa.
*
Le compagnie partirono. E per la
stessa china e poi per la stessa erta fatta dai Napolitani la sera avanti,
marciarono a Calatafimi. Ivi trovarono la gente ancora scompigliata. Quei
poveri abitanti avevano visto dalle loro case, il combattimento del Pianto
Romano, e poi i borbonici tornare vinti tra loro. Erano stati gran parte della
notte tremando che il mattino portasse loro uno scontro nelle stesse vie della
città tra le loro case: invece i borbonici erano partiti. Ma potevano
sopraggiungerne di nuovi. Insomma la fisionomia generale era triste. Nella via maestra
si trovavano a ogni passo i segni della sosta fattavi dai vinti; nelle poche
botteghe, misere assai, non c'era più nulla; quelli avevano portato via ogni
cosa.
Ma le Compagnie, a poco a poco,
misero un po' di fidanza e d'allegrezza; tanto più poi nel pomeriggio, quando
fu lor letto l'ordine del giorno di Garibaldi. Era uno de' suoi più eloquenti,
e parve la voce di tutta la patria.
«Soldati della libertà italiana,
con compagni come voi io posso tentare ogni cosa, e ve lo mostrai ieri
conducendovi alla vittoria contro un nemico superiore per numero e per le sue
forti posizioni. Io avevo contato sulle vostre fatali baionette, e vedete che
non mi sono ingannato.
«Deplorando la triste necessità
di dover combattere soldati italiani, debbo confessare d'aver trovato una
resistenza degna di causa migliore. E questo vi mostra quanto noi potremo fare,
quando l'intiera famiglia italiana sarà riunita intorno a una sola bandiera.
«Domani il continente italiano
sarà parato a festa, per la vittoria dei suoi liberi figli e dei nostri prodi
siciliani.
«Le vostre madri, le vostre
amanti, usciranno nella via superbe di voi, con la fronte alta e radiante.
«Il combattimento ci costò molti
cari fratelli, morti nelle prime file; e nei fasti della gloria italiana
risplenderanno eternamente i nomi di questi martiri della nostra santa causa.
«Paleserò al nostro paese i nomi
dei bravi che con sommo valore condussero alla lotta i più giovani e i più
inesperti militi, e che domani li guideranno alla vittoria su altri campi, a
rompere gli ultimi anelli delle catene che tengono avvinta la nostra Italia
carissima.»
I nemici! Ve n'erano in
Calatafimi parecchi, feriti il giorno avanti e abbandonati là, perché per via
avrebbero patito troppo. I vincitori andavano a trovarli nelle chiese e nei
conventi, li confortavano, li carezzavano. Ed essi dicevano che non sarebbero
più tornati alle loro bandiere. Cominciava già allora la fratellanza; solo
qualcuno guatava bieco e mormorava sdegnoso.
Dai Francescani, prodigava la sua
carità un padre Luigi, il quale fu poi amorosissimo nei giorni appresso ai
garibaldini portati là da Vita, dove non c'era luogo per tenerli se non
ammucchiati come nelle prime ore dopo il combattimento. Forse quel frate si
sentì prendere fin da allora da quella forza per cui ebbe il coraggio di
spogliar l'abito, di lasciarsi portar via dalla rivoluzione nella vita nuova
italiana; e tornato al secolo divenne col tempo uomo di cattedra, uomo di Stato
in Roma, dove coloro che lo avevano conosciuto laggiù continuarono a chiamarlo
in segreto «padre Luigi».
Le emozioni del giorno avanti, il
bisogno di raccoglimento, la stanchezza, non svogliarono di visitar il paese
intorno chi aveva sentimento dei luoghi e delle cose. Uscendo dalla parte
occidentale molti andavano in poco tempo alle rovine di Segesta, e vi si
appressavano esaltandosi via via. Quelle trentasei colonne del tempio dorico
rimaste in piedi come parte di un'opera incompiuta, tanto sembravano recenti;
il teatro poco più in là, ispiravano una malinconia magnanima. Era mai possibile
che fosse stata abitata da gente così ricca e grandiosa da aver eretto quei
monumenti, una terra ora popolata quasi solo di miseri? Quelle colonne parevano
vive e pensanti, quel tempio pareva aver ancora un'anima cui facesse dolore
vedersi intorno caprai indifferenti, nei quali tuttavia l'uomo antico doveva
starsene addormentato. Ora quei visitatori si lusingavano d'essere capitati a
svegliarlo.
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