11. Un frate strano.
Cotesto giorno, uno di quei soldati
fu fermato da un giovane monaco che egli avea già veduto girare pel borgo, e
soffermarsi qua e là a parlare coi suoi compagni. E capì subito che era
un'anima tormentata da qualche gran cruccio. Avviato il discorso, il monaco si
spiegò: avrebbe voluto gettarsi nella rivoluzione, ma qualcosa lo tratteneva.
Seduti a pie' d'una delle tre grandi croci che sorgevano su d'un poggio a
figurarvi il Calvario; quei due parlavano già come vecchi amici. E il
garibaldino diceva al frate che se avesse voluto entrare nella sua Compagnia,
vi avrebbe trovato il Comandante e gli ufficiali e molti militi siciliani
tornati dall'esilio; e che l'esser frate non voleva dire; che già altri frati
avevano combattuto per Garibaldi a Calatafimi e che anzi, un francescano lo seguiva
già da Salemi. Il monaco rispondeva che pur ammirando Garibaldi gli pareva che
quella ch'egli combatteva non fosse la guerra di cui la Sicilia aveva bisogno.
L'unità d'Italia e la libertà pel vero popolo siciliano erano quasi nulla. Che
potevano farsene quelle plebi ancora oppresse da tutte le ingiustizie, altrove,
in Piemonte, in Lombardia, levate da un secolo? Non avevano visto essi venuti
da fuori, per quel poco che avevano già corso dell'isola, quanta era la miseria
e quanta l'abiezione di quelle plebi? La libertà non era pane per lo stomaco e
nemmeno per lo spirito; anzi sarebbe poi per i già prepotenti un mezzo per
opprimere di più. In Sicilia era necessaria una guerra che trasformasse la
società e la vita, facendo guadagnare al popolo il tempo che per forza gli era
stato fatto perdere. Non vedeva Garibaldi che la Sicilia era ancora quasi come
doveva essere stata ai tempi delle guerre servili di venti secoli avanti?
Insomma quel monaco voleva la guerra non soltanto contro i Borboni, ma contro
tutti gli oppressori grandi e piccoli, che si trovavano laggiù dappertutto.
Il garibaldino cui pareva di non
capir quasi come un monaco parlasse a quel modo, gli diceva che allora quella
guerra ch'egli voleva avrebbe dovuto esser fatta anche contro i frati ricchissimi,
e molti. E il monaco ardente rispondeva che sì, che anche contro i frati si
doveva farla, contro di essi prima che contro d'ogni altro, ma col Vangelo in
mano e con la Croce: che allora anch'egli ci si sarebbe messo, ma che così come
era fatta e per quel che era fatta, gli pareva inutile. Se Garibaldi avesse
guardato bene, si sarebbe accorto che le plebi lo lasciavano solo coi suoi.
Allora il garibaldino accennò
alle squadre che numerose tenevano i monti qua e là. - E chi vi dice - esclamò
il monaco con voce risoluta - chi vi dice che non si aspettino qualche cosa di
più? -
Il discorso era stringente. Il
garibaldino che non si voleva dar vinto, sentiva tuttavia che il monaco ne
sapeva più di lui. Mirava quel volto illuminato da una fiamma che non era la
sua di mazziniano, taceva un po' confuso e anche alquanto impicciolito. Poi
egli e il monaco si levarono di là, si abbracciarono, e questi se n'andò. Egli
discese tra i suoi con l'animo turbato e scontento. Gli pareva d'aver imparato
molto in quel colloquio, e vagamente sentiva che l'unità della patria non era
tutto, che la libertà avrebbe scoperto molte piaghe, alle quali poi col tempo
altri avrebbe dovuto pensare. E se ne ricordò e pensò a quel monaco trent'anni
dipoi, quando proprio da quella parte dell'isola parlò più alto l'antico dolore
che quegli sin da quel tempo remoto sentiva.
|