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Giovan Battista Marino Amori IntraText CT - Lettura del testo |
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29 - La lontananzaÈ partito il mio bene, ho perduto il mio core. Oimè, qual vita in vita or mi sostene? Lasso, com'è rimaso fosco il sol, negro il cielo! Il dì giunto al'occaso, amor fatto è di gelo. Duro partir, che m'hai l'alma partita, chi ti disse partire devea con più ragion dirti morire.
O Dio, quel dolce a Dio che piangendo mi disse, a cui piangendo a Dio risposi anch'io, deh, come dala spoglia l'anima non divise? E come per gran doglia la vita non uccise? Alma e vita io non ho, poiché, perdendo il mio dolce conforto, a Dio dirgli ho potuto, e non son morto.
Morto non sono ed ardo lontan dal foco mio, dal caro foco di quel celeste sguardo. E quanto è men dapresso la fiamma ond'io languisco, dal grave incendio oppresso più moro e 'ncenerisco. Il foco, ahi no, che per cangiar di loco da me non si disgiunge; sol la cagion del foco è da me lunge.
Tetto, già lieto e fido tempio del'idol mio, ciel del mio sole, or solitario nido, spelunca abbandonata di spavento e di morte, chiudi, chiudi l'entrata dele dolenti porte; tenebrosa magion, misera mole, cadi pur, cadi, ahi lasso, ch'al mio core è saetta ogni tuo sasso.
Balcon gradito e caro, che fosti già di più sereno die oriente più chiaro, or fatto atro soggiorno di notte oscura e mesta, serra, deh serra al giorno la finestra funesta; ché, qualor s'apre a queste luci mie, con spada di dolore me n'apre un'altra in mezzo al petto Amore.
Cameretta fedele, già pacifico porto e dolce meta dele mie stanche vele, or che battuto ondeggio per l'onde e per gli scogli, poiché morir pur deggio fra pianti e fra cordogli, chi mi cela il mio polo? e chi mi vieta che morte e tomba almeno non mi dian que' begli occhi e quel bel seno?
Letto, del mio diletto felice un tempo albergo, or del mio duolo sconsolato ricetto, se sei pur, come sembri, di me pietoso tanto, poich'accogli i miei membri ed asciughi il mio pianto, pietà più non chegg'io; cheggioti solo, in questa notte oscura, che ti cangi di letto in sepoltura.
Specchio, che ti specchiavi nel sol del chiaro volto e nele stelle de' begli occhi soavi, or di quel lume ardente vedovato ed oscuro, ben sei cristallo algente, anzi diamante duro, se per più non stampar luci men belle di quelle onde sei privo, non distempri il tuo ghiaccio in pianto vivo.
Candido eburneo rastro, non ch'agguagli però dela man bianca l'animato alabastro, tu che solevi, arando i solchi dei bel crine, l'oro gir coltivando dele fila divine, ahi come sono, or ch'ogni ben ti manca, i tuoi minuti denti sol per mordermi il cor fatti pungenti!
Acque felici e chiare, cui d'esser tributario ebbe più volte ambizione il mare; in cui vivono ancora le faville amorose di quel sol che talora ne' vostri umor s'ascose; deh, perché non struggete, inun raccolte, accresciute dal'onde dele lagrime mie, l'infauste sponde?
Aria pura e gentile, fatta serena già da sì bei rai, non avrai dunque a vile ch'altro petto, altro fiato di te viva e respiri? Terren sacro e beato, non sdegni e non t'adiri ch'altro men vago piè ti calchi mai, quando ancora si serba dele bell'orme in te fiorita l'erba?
Musici arnesi, e voi che talor l'angel mio trattar solea, dolci trastulli suoi, che sua mercé rendeste angelica armonia, senza la man celeste di voi, lassi, che fia? Poscia che così vuol fortuna rea, omai le vostre tempre ché non sciogliete? o non piangete sempre?
Ma tu perché non torni, o sol degli occhi miei? Deb, che fai? chi t'accoglie? e dove sei?
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