-18-
Il suicidio è lecito o no? - I pareri non sono unanimi.
Rousseau, da quell'ingegno completo che egli era, ha circondata la questione da
tutti i lati, mettendo in rilievo con singolare eloquenza il pro ed il contra
del suicidio; però il calore della convinzione, e la maggior potenza di
raziocinio in lui si riscontrano in pro del suicidio. - Nell'antichità, in
certe epoche e sotto l'influenza di certi sistemi, il suicidio era una massima
e una pratica così generalmente consentita che l'uomo si ammazzava a suo
beneplacito, senza che la società ponesse mente a quel fatto. - Il suicidio era
allora considerato come un caso di morte naturale. - Oggi una discreta
filosofia non impugna, né approva assolutamente la legalità del suicidio. - Si
parte dai momenti che hanno prodotto l'azione, e secondo quelli si stabilisce
il valore dell'azione, la maggiore o minore legalità del suicidio. Un'altra
filosofia, piuttosto proterva che no, concede il suicidio soltanto alla follia,
e nega che in ogni altra situazione l'uomo abbia potere di gettare la vita, né
quando gli pesa oltre le sue forze, né quando oscilla tra la morte e l'infamia.
A sostegno dell'assunto loro si fondano sulla forza dei vincoli sociali, e
sulla premessa che la vita sia un dono di Dio, per il che nessuno possa
disporre del dono senza l'acquiescenza del donatore. Io comprendo poco la
questione così come la basano. Io ho sempre pensato che un dono non sia
veramente tale quando contiene delle condizioni che vincolano la volontà di chi
lo riceve. Quando io ho fatto un dono, ho inteso di abbandonare qualunque minima
idea di proprietà sulla cosa donata, Così io la intendo, e se fosse altrimenti,
mi pare che il vocabolo non vada d'accordo coll'idea. Se avessero detto
piuttosto che la vita è un imprestito fatto da Dio, allora forse la questione
poserebbe sopra termini più esatti. Se la vita pertanto è una proprietà
liberissima dell'individuo, come credo che sia, perché non potrà disporne a sua
voglia anche per contraddizione a chi non vorrebbe? perché non potrà disfarsene
specialmente quando questa proprietà ha cessato di rendergli un frutto, e gli
sta invece a perdita continua? Non fate voi lo stesso di tutte le proprietà che
vi nocciono, e non vi danno più un utile? Non siete voi padroni di amputare il
membro ammalato, che potrebbe corrompere il resto del corpo? E l'uomo a cui è
cancrenato il cuore non è padrone, tagliando un filo ormai logoro, di finir le
sue pene? La legge primaria del nostro organismo è di fuggire il dolore, e si
può fuggire in mille modi: voi lo fuggite vivendo, altri lo fugge morendo.
Pretendete che tutti godano in un modo unico, nel modo che godete voi? Voi
potete più ragionevolmente impugnare la legalità della pena di morte, perché si
tratta di agire sull'altrui proprietà, perché può esservi eccedenza di
giustizia, perché stante la imbecillità degli umani giudizi, può esservi anche
offesa manifesta. Ma l'individuo che aliena la cosa sua libera, separata,
indipendente, commette un'azione le più volte utile a sé e indifferente sempre
per gli altri. E se la vita fosse anche un dono di Dio, cosa può importargli,
se l'uomo crede bene d'impiegarlo piuttosto in una maniera che in un'altra?
Porse perché, uccidendosi, vive dieci anni meno di quello che poteva vivere? E
che importano a Dio dieci anni più o meno, a lui che misura tutto
coll'eternità, che ha destinato tutto a morire per rifar da capo? E perché
l'uomo non potrà esercitare sopra questo dono il medesimo. diritto che è stato
dato alla tisi, al colera, a una puntura di vipera, al pugnale dell'omicida?
Che se voi mi parlate di vincoli sociali, vi dirò io; dove
sono questi vincoli, e chi li ha stabiliti? Se sono una cosa che emerge
spontanea dalla natura umana, allora vi dirò che le cose naturali vanno da sé,
non si contraddicono mai, e le loro leggi non hanno da temere infrazione. Ma se
invece fossero un pregiudizio contro natura, una convenzione ideale sancita ne'
tempi trascorsi, allora vi dirò che i posteri non son tenuti di stare alle
decisioni di un errore, perché sia antico, e che possono annullare qualunque
legge incompatibile coll'utile e colla ragione, e perché quello che stava bene
cent'anni sono, oggi sta male. La società è un contratto tacito, regolato da
una scambievole convenienza di condizioni fra le parti: se così non è, la
società non regge più sulle basi approssimativamente eque di un contratto; -
invece sta sopra un piede di violenza; e allora somiglia più che altro il
supplizio di Mezenzio, un corpo vivo legato a un cadavere. Se in società io
godo, e voi soffrite, dov'è fra noi la forza dei vincoli? A qual fine voi
dovete star meco? forse perché io vi veda soffrire? Perché quando non ho la
potestà o la volontà di mettervi al pari mio dovrò anche torvi il diritto di
andarvene dove non vi sarà società, o ve ne sarà una più giusta? Come può
immaginarsi società e mutua corrispondenza di doveri sociali fra l'uomo che
spende un milione all'anno e l'uomo che non è sicuro di mangiare ogni giorno
una scarsa misura di pane impastato di fiele e di lacrime? Donde il primo cava
il diritto di dire al secondo: vivi; te lo impone il dovere? Dio stesso, se
l'uomo, come ho detto, non fosse arbitro della sua proprietà, gli torrebbe per
compassione la vita. Certo io ammiro la testa che porta fieramente la sventura,
come un re la corona. Ma lo fa non per sommissione a un dovere che non esiste;
lo fa perché ha sortito una tempra vigorosa d'anima, che lo rende capace a
resistere. Ma l'infelice cui si son disseccate tutte le fonti del piacere, che
vive dolorosamente per sé, e inutile per il prossimo, che trova a morire tutto
l'interesse che gli altri trovano a vivere, perché un infelice siffatto deve
rimanere al suo posto? Non vedete che la sua missione è finita? che
l'equilibrio del patto sociale è stato alterato? Fareste voi meco un contratto
in cui si stipulasse a me il riposo, a voi la fatica; a me le rose, a voi le
spine? Perché vivete voi? perché la vita vi arride; perché considerandola anche
come un male, se la mettete in bilancia colla morte, questa per voi è un male
più grave, e fa traboccar la bilancia. - Spogliatevi di ogni ipocrisia; voi non
vivete per un dovere; vivete per un calcolo. - L'infelice ha pesato l'esistenza
e la morte; - l'esistenza era più grave; ed in senso inverso ha i medesimi
diritti che voi; egli muore per un calcolo. - Ma voi direte: egli non deve
cedere così per poco; deve combattere; deve tentar di vivere. - Se voi sapeste
quanto lungamente ha combattuto, sareste men rigidi. - Egli ha combattuto a
lungo, e con tutta l'energia dell'istinto, perché la vita non si getta via
sbadigliando; e avanti di rodere la catena dell'istinto, ci vuoi tempo e dolore
più che non credete. - lo ebbi un amico di ragione salda, d'ingegno capace, di
cuore generoso; era amato e stimato da tutti e lo sentiva con riconoscenza; -
ma non si sa come, fin dai primi anni, in cotesta pianta s'insinuasse il verme
del suicidio che cominciò a minare, a minare tanto che all'ultimo la lasciò
inaridita e nuda di qualunque fronda. Resisté molti anni, ma indarno; - egli
doveva e voleva morire. - Vani furono i conforti delle persone a lui care: -
vani i tentativi che faceva egli stesso per sottrarsi alla vocazione
fatale. Provò i piaceri dello spirito,
- provò quelli dei sensi, - non avevan sapore; - per lui non aveva sapore che
la noia; - vedeva il mando di dietro a un vetro affumicato. - Gli amici gli si
mettevano d'intorno con ogni sorta di argomenti per levano da quel proposito;
ed egli non ricusava la disputa, anzi l'accettava di buon grado, e l'esauriva
con un ordine di ragionamento maraviglioso, e gli amici tornavano via quasi
convinti a far lo stesso. Egli non era disperato; - era freddo e determinato a
morire, come noi siamo a vivere. - lo ed altri giungemmo più volte ad ottenere
perfino da lui una tregua di qualche mese al suicidio; - 'ed egli accordava
sorridendo la tregua: - ma finalmente la volle finire, e in una sera di state
con un colpo di pistola sì uccise. - Sul primo mi spiacque vivamente; poi
ripensandoci sopra, esclamai come Lutero: beatus quia quiescit.
Andate a rammentare a un uomo come questo il dovere sociale ed
ei risponderà: rinverginatemi il cuore, ravvivate il raggio alla stella pallida
del tramonto, ed io vivrò volentieri con voi. - Potete voi farlo? Sappiate che
l'anima umana può essere affetta da una tisi incurabile come il corpo. E se voi
non avete farmaci da risanarmi, perché volete che io viva così dolentemente
ammalato? Il meglio è finir presto.
E il miserabile che si annega per estrema miseria, che ha
cercato il lavoro per ogni officina e da per tutto l'hanno respinto, che ha
bussato ad ogni porta, e tutti per soccorso gli hanno dato un Dio ve ne mandi
(moneta che non si trova chi la baratti), che doveva far altro, se non
gittare un fardello che le sue forze più non valevano a sopportare? Dio o la
Filosofia possono prescrivere l'impossibile? Possono prescriverlo, purché non
ne aspettino poi l'esecuzione. - Certo quell'infelice, tentati invano tutti i
mezzi di sussistenza innocente, poteva farsi assassino; - rapire l'oro e la
vita a quanti s'imbattevano in lui, e da ultimo incappare nel boia che avrebbe
fatto giustizia. Il boia però collo stringergli la gola - fino a che morte
ne segua - non avrebbe scemata una dramma del male già seguito. - O
Filosofia, se tu fossi meno proterva e più umana, invece di gravare la fossa
del suicida d'una maledizione, o del tuo disprezzo, daresti lode, o almeno compatiresti
l'infelice, che, posto fra il delitto e la morte, sceglieva quest'ultima. -
Volete restringere la sfera del suicidio, confinandola ai pochi casi di esso,
commessi per debolezza, o per noia, ai casi rarissimi di questa azione commessa
per eroismo? Spendete meno massime, spendete più fatti: - allargate le vie
della vita, sgombratele di tante spine, che vi seminò l'errore e l'ingiustizia.
Con che titolo l'ozioso opulento verrà a filosofare aspramente sul corpo del
suicida per miseria, - egli, che giornalmente in una bottiglia di sciampagna
beve almeno cinque giorni
dell'esistenza di un povero?
Certe leggi barbare, perché inique e stolte, perché inutili,
pretesero di percuotere il suicida con una pena. Le pene non hanno scopo ed
esercizio che di fronte alla sensibilità. - Affliggete le cose insensibili, se
vi riesce; e allora avrete ragione. Allora Serse quando flagellò l'Ellesponto
fece un'azione degna di Socrate. - Il suicidio, sottraendolo alla speculazione
e concedendolo alle sensazioni delle masse, è argomento di mille diversi
giudizi. - Date a vedere sulle tavole del camposanto il corpo del suicida; -
ecco la fama percorre le piazze e le strade e bandisce che un uomo si è
ammazzato di proprio pugno. - Le turbe accorrono, fanno cerchio, fanno calca,
fanno popolo; compongono l'opinione completa, dal colore più saliente alla
gradazione più sfumata..
Una ragazza tutta tremante d'ansia e di curiosità come l'anima
vergine allo spettacolo di una cosa non veduta mai, s'interna, s'affaccia, si
curva un momento sul morto e poi si volta per partire, e sulla freschezza
vivida della guancia è insorto un livido leggiero, leggiero; l'occhio è lucido
più dell'usato, come quando è vicino a piangere; e facendosi strada frammezzo
alla folla esclama: peccato! che bei giovane! - Un crocchio ben numeroso
ragiona del nome e del cognome del morto; del come andava vestito; del dove
stava di casa, delle sue abitudini, ecc. - Un popolano mette ruvidamente le
mani sulla ferita per mostrarla al compagno e col suo grosso buon senso
conchiude: a pagare e a morire c'è sempre tempo. - Uno scettico dice al vicino
che gli domanda le cagioni del fatto: io non ne so nulla; era padrone di stare,
è stato padrone di andare; - forse volevate rattenerlo? - E il vicino, mal
soddisfatto, gli volta le spalle. - Un teologo lo mette all'inferno, e sigilla
la sua decisione con una presa di tabacco. Una vecchiarella gli mormora addosso
un de profundis, pregando sua divina Maestà che lo mandi almeno al
purgatorio. Un ciarlatano allunga la fisonomia e vi fa sopra una massima. Un
uomo di cuore non apre bocca e vi versa una lagrima.
E come vedete l'opinione pubblica non offre dati da fondare un
sistema sull'unità del principio. - Chi biasima in forza di un diritto
ereditato; - chi approva per simpatia; - chi per raziocinio; - chi compatisce:
- i più son curiosi, e lasciano il fatto com'è senza definirlo. Io, facendo un
sistema per conto mio, ripeto quanto ho avanzato in addietro, che la vita è la
prima proprietà dell'uomo, proprietà assoluta, indipendente e separata con
distinzione si profonda dall'altrui proprietà che non v'è rischiò di liti sui
confini; e da una proprietà di questa natura deriva inevitabilmente l'esercizio
di un diritto illimitato sulla medesima. Che ponendo ancora la vita. come un dono
di Dio, egli non ha prescritto il modo speciale con cui deve finirsi. - Non si
trova in nessun libro che abbia vietato il suicidio; e se pure una volta ha
parlato, ha detto: non uccidere: e qui va bene, perché si tratta della
cosa altrui, ma non ha mai detto: non ti uccidere. Egli ha donata la
vita e l'ha destinata a finire. Sul modo poi è affatto indifferente, e per lui
il suicidio è un genere di morte come un altro. Se il resto degli uomini
vivessero eterni, e il suicida morisse, allora il suicidio si potrebbe
considerare come una contradizione al suo concetto: ma poiché tutti dobbiamo
morire, egli è indifferente sulla specie d'imbarco che noleggiamo per giungere
a questo porto. - Dio ha donata la vita, ma non s'è riserbati i modi
particolari per metterla a fine: ha lasciato questi modi alla nostra
organizzazione e a quella rete di infiniti accidenti in cui siamo ravvolti.
Credereste voi che egli occupi la sua eternità e i suoi attributi a scegliere
per voi l'apoplessia, per me il mal di petto? Il pensarlo sarebbe forse una
cosa empia e certamente ridicola. Lo spirito della sua legge è creazione e
distruzione in perpetuo: - basta che l'uomo nasca e muoia, e la sua legge è
adempita.
Affermata la legalità del suicidio, è facile fissarne i
diversi gradi di stima. - Le azioni hanno un valore intrinseco che di rado può
sfuggire all'aritmetica della morale. Voi potete compatire il suicida che si
ammazza per debolezza; potete biasimare chi s'ammazza in conseguenza del giuoco
o d'altre dissipazioni, approvate come un conto che torna il suicidio fatto per
noia, o ratto dal tisico, che arrivato al terzo stadio, crede bene di
risparmiarsi un qualche mese di agonia infallibile; - potrete ammirare il
suicidio prodotto dall'eroismo. Potrete distinguerlo in tre calcoli, - fallace,
giusto e sublime. Di tutti questi elementi potrete fare una piramide,
dandole per base la debolezza e per comignolo la virtù.
Discendendo poi dalle teoriche al fatto, osserviamo che più
ordinariamente questo fenomeno si verifica o nell'estrema energia o
nell'estrema spossatezza dell'umana natura. Di rado tocca il grado intermedio;
- di rado un uomo dotato di facoltà temperate mette le mani nel proprio sangue.
Egli è buono a sopportare molti disastri, che fiaccano il debole; - egli, in
forza delle sue misurate facoltà, non si trova mai avviluppato in quel nodo di
eventi che sforzano l'uomo superiore a sparire dalla scena del mondo celandosi
in un sepolcro. L'uomo moderato può convenientemente transigere con una lunga
serie di fatti. L'uomo debole vive a caso, - e se i fatti gli passano rasente
senza urtano di fronte, può invecchiare pacificamente, e morir nel suo letto.
Ma se un fatto lo prende dì fronte, egli è perduto, egli non ha vigore bastante
da sviarlo e rimetterlo sul suo cammino. Una cosa lieve, un nonnulla, anche una
risata, in un cervello così fatto diventa un'idea fissa; e allora la follia
compie la paralisi delle sue forze morali, ed egli è costretto a morire senza
poterne dar conto a chi glielo dimandasse. Io ho conosciuto un giovane leggiadro
di forme, d'indole mite, ma vuoto di testa, che si fucilò, perché i genitori,
che l'amavano assai, non gli permisero di farsi dragone. - Ma l'anima atletica
d'un eroe trascorre una scala lunghissima dì eventi, e nulla l'arresta; - la
sua gagliardia rompe spesso la corrente, che strascinerebbe in rovina ogni
altra forza fuorché la sua; - poi ad un tratto si trova di faccia una
combinazione intricata, profonda, dove freme l'onnipotenza del Destino. Allora
il Genio si conosce perduto, - ma non cede sul subito; si sviluppa una lotta da
gigante a gigante, - e la lotta dura finché le forze da una parte resistono; -
finalmente il Genio soccombe, - il Destino supera, perché il Destino è ciò che
deve essere. Che deve fare allora l'eroe? - progredire è impossibile, perché
una barriera di adamante gli chiude i passi; - rovinare in fondo è impossibile,
perché la natura del Genio è di salire finché può. Allora l'eroe decide di
morire, non già perché vuoi morire, ma perché non può più vivere. Non è il
delirio, che spinge; è la coscienza, che sceglie. Il Genio si scava la fossa su
quel gradino, dove la Fatalità gli ha reciso l'ale; - e si scava la fossa per
insegnare che il sistema del Bene va portato innanzi finché si può, e non va
rinnegato colla codardia del tornare indietro. Certo il suo concetto era di
salire al sommo della scala e piantarvi lo stendardo della vittoria. Dio non ha
voluto, - egli è morto. Egli non poteva vivere sospeso fra il cielo e la terra.
Catone sta per la repubblica, - e combatte all'usurpatore a
palmo a palmo il terreno; ma questi, più felice di lui, lo incalza di provincia
in provincia, - lo soffoca coll'alito ardente della vittoria. Catone finalmente
è in Utica, chiuso in circolo magico, donde gli sarà impossibile uscire come
dalla tomba. - Già si sente fremere a tergo il delitto e la fortuna di Cesare.
Ma i fati non sono per lui, - egli lo sa. Non v e più scampo, - non v'è più
spazio, - non v'è battaglia più da tentare; - la Virtù contro il Fato è un
vetro contro una massa di ferro. Catone deve morire, e morrà. Poteva rendersi a
Cesare, - ed ci l'avrebbe perdonato, - l'avrebbe anche onorato, perché Cesare era un tiranno, ma un tiranno
di genio. Catone era come quei metalli, che si spezzano, ma non si piegano.
Doveva morire per dimostrare che la Virtù è un fatto sensibile, e non un nome
vuoto; doveva morire, perché la sua ragione gl'insegnava pacatamente la morte
come un dovere, la vita come un tradimento. Se non fosse morto, né i
contemporanei né i posteri avrebbero saputo in che più credere. La sua morte fu
una protesta eloquente contro l'usurpazione felice, - una guarentigia del
diritto - un conforto, uno stimolo ai superstiti; e dal suo sangue usciva una
voce, un insegnamento solenne a morire piuttosto che a disertare una causa
santa.
E Bruto da quei sangue raccolse quella voce, e se la pose nel
cuore. Quella voce gl'intimò primamente a non disperare della salute della
patria, - a tentare la sorte incerta delle armi, e così fece; - poi quando a
Filippi fu perduta l'ultima battaglia delle libertà latine, interrogò quella
voce, e gli disse di morire, E Bruto moriva incontaminato, come devono morire
le anime sublimi. - Comprese la santità della sua missione, - la grandezza
dell'esempio che andava a dare, - il frutto immenso di cui questo sarebbe stato
fecondo nell'avvenire. Il suicidio in lui non fu il consiglio d'uno stretto
egoismo, fu un sacrifizio fatto alla dignità dell'umana morale. Se fosse
vissuto, avrebbe commesso peggio che una viltà; - avrebbe messo in dubbio i
diritti dell'uomo; - avrebbe sanzionata la scelleraggine trionfante; ne avrebbe in certo modo velate le
vergogne: - così la lasciò nuda, - così col suo sangue si appellò pei diritti
delle nazioni alla vendetta dei posteri rigenerati; - così, piuttosto che
concederla agli stupri della tirannide, volle condur seco la Virtù vergine
nella tomba. Bruto, anima esaltata, e inflessibile nell'amore del grande e del
giusto, era portato al suicidio dalla necessità e dal dovere. Non gli rimaneva
a fare più nulla né di buono né di grande; - non gli rimaneva né anche di
sedersi sulle rovine della patria, e sciogliervi un canto funereo; - le rovine
della patria erano ormai lo scanno dei Cesari. - Doveva fuggire? Il pensiero
solo è un sacrilegio; - ma e in qual parte di mondo fuggire? Il mondo era una
provincia romana, e qualunque nazione avrebbe portato a gara la testa del Bruto
in aggiunta ai consueti tributi. - Doveva ricorrere alla clemenza di Augusto?
Oh! l'ultimo dei Romani non poteva ricorrere al primo dei tiranni. La Fatalità
aveva incatenato lui alla Repubblica, e la Repubblica a lui, Erano due in un
destino solo; - dovevano esistere insieme, perire insieme, e perirono. E poi
conoscete voi la clemenza di Augusto? Ve lo dica Perugia. - Augusto non aveva
che talento e libidine d'imperio; - del resto ineccitabile come una pietra; un
alito di passione non aveva mai increspato quel mare morto dell'anima sua. Un
giorno fece un conto, e barattò la testa di Cicerone suo amico contro quella
d'un uomo che appena conosceva, come farebbe un fanciullo dei suoi balocchi; e
sotto manto d'amore carezzava Cleopatra per menarsela a Roma in catene in un
giorno di festa e d'orgoglio. Augusto avrebbe messo la testa di suo padre per
puntello a un piede del trono, se quel piede non avesse posato in piano.
Il suicidio di Catone, di Bruto e di mille martiri della
verità, è un eroismo, - un fatto di natura trascendentale, che sfugge al
compasso di una volgare filosofia. È il punto culminante dell'umana grandezza,
è il sacrifizio. L'invidia sola può tentare d'impiccolire le proporzioni
colossali d'un tanto fenomeno, ma la ragione sdegna l'analisi, e si contenta di
venerare. Il suicidio è vero che in questi casi stacca un fiore dalla corona
della Virtù; ma la Gloria raccoglie tosto quel fiore, - ne fa una stella, e l'aggiunge
al suo serto immortale.
|