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Carlo Bini
Manoscritto di un prigioniero

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Il suicidio è lecito o no? - I pareri non sono unanimi. Rousseau, da quell'ingegno completo che egli era, ha circondata la questione da tutti i lati, mettendo in rilievo con singolare eloquenza il pro ed il contra del suicidio; però il calore della convinzione, e la maggior potenza di raziocinio in lui si riscontrano in pro del suicidio. - Nell'antichità, in certe epoche e sotto l'influenza di certi sistemi, il suicidio era una massima e una pratica così generalmente consentita che l'uomo si ammazzava a suo beneplacito, senza che la società ponesse mente a quel fatto. - Il suicidio era allora considerato come un caso di morte naturale. - Oggi una discreta filosofia non impugna, né approva assolutamente la legalità del suicidio. - Si parte dai momenti che hanno prodotto l'azione, e secondo quelli si stabilisce il valore dell'azione, la maggiore o minore legalità del suicidio. Un'altra filosofia, piuttosto proterva che no, concede il suicidio soltanto alla follia, e nega che in ogni altra situazione l'uomo abbia potere di gettare la vita, né quando gli pesa oltre le sue forze, né quando oscilla tra la morte e l'infamia. A sostegno dell'assunto loro si fondano sulla forza dei vincoli sociali, e sulla premessa che la vita sia un dono di Dio, per il che nessuno possa disporre del dono senza l'acquiescenza del donatore. Io comprendo poco la questione così come la basano. Io ho sempre pensato che un dono non sia veramente tale quando contiene delle condizioni che vincolano la volontà di chi lo riceve. Quando io ho fatto un dono, ho inteso di abbandonare qualunque minima idea di proprietà sulla cosa donata, Così io la intendo, e se fosse altrimenti, mi pare che il vocabolo non vada d'accordo coll'idea. Se avessero detto piuttosto che la vita è un imprestito fatto da Dio, allora forse la questione poserebbe sopra termini più esatti. Se la vita pertanto è una proprietà liberissima dell'individuo, come credo che sia, perché non potrà disporne a sua voglia anche per contraddizione a chi non vorrebbe? perché non potrà disfarsene specialmente quando questa proprietà ha cessato di rendergli un frutto, e gli sta invece a perdita continua? Non fate voi lo stesso di tutte le proprietà che vi nocciono, e non vi danno più un utile? Non siete voi padroni di amputare il membro ammalato, che potrebbe corrompere il resto del corpo? E l'uomo a cui è cancrenato il cuore non è padrone, tagliando un filo ormai logoro, di finir le sue pene? La legge primaria del nostro organismo è di fuggire il dolore, e si può fuggire in mille modi: voi lo fuggite vivendo, altri lo fugge morendo. Pretendete che tutti godano in un modo unico, nel modo che godete voi? Voi potete più ragionevolmente impugnare la legalità della pena di morte, perché si tratta di agire sull'altrui proprietà, perché può esservi eccedenza di giustizia, perché stante la imbecillità degli umani giudizi, può esservi anche offesa manifesta. Ma l'individuo che aliena la cosa sua libera, separata, indipendente, commette un'azione le più volte utile a sé e indifferente sempre per gli altri. E se la vita fosse anche un dono di Dio, cosa può importargli, se l'uomo crede bene d'impiegarlo piuttosto in una maniera che in un'altra? Porse perché, uccidendosi, vive dieci anni meno di quello che poteva vivere? E che importano a Dio dieci anni più o meno, a lui che misura tutto coll'eternità, che ha destinato tutto a morire per rifar da capo? E perché l'uomo non potrà esercitare sopra questo dono il medesimo. diritto che è stato dato alla tisi, al colera, a una puntura di vipera, al pugnale dell'omicida?

Che se voi mi parlate di vincoli sociali, vi dirò io; dove sono questi vincoli, e chi li ha stabiliti? Se sono una cosa che emerge spontanea dalla natura umana, allora vi dirò che le cose naturali vanno da sé, non si contraddicono mai, e le loro leggi non hanno da temere infrazione. Ma se invece fossero un pregiudizio contro natura, una convenzione ideale sancita ne' tempi trascorsi, allora vi dirò che i posteri non son tenuti di stare alle decisioni di un errore, perché sia antico, e che possono annullare qualunque legge incompatibile coll'utile e colla ragione, e perché quello che stava bene cent'anni sono, oggi sta male. La società è un contratto tacito, regolato da una scambievole convenienza di condizioni fra le parti: se così non è, la società non regge più sulle basi approssimativamente eque di un contratto; - invece sta sopra un piede di vio­lenza; e allora somiglia più che altro il supplizio di Mezenzio, un corpo vivo legato a un cadavere. Se in società io godo, e voi soffrite, dov'è fra noi la forza dei vincoli? A qual fine voi dovete star meco? forse perché io vi veda soffrire? Perché quando non ho la potestà o la volontà di mettervi al pari mio dovrò anche torvi il diritto di andarvene dove non vi sarà società, o ve ne sarà una più giusta? Come può immaginarsi società e mutua corrispondenza di doveri sociali fra l'uomo che spende un milione all'anno e l'uomo che non è sicuro di mangiare ogni giorno una scarsa misura di pane impastato di fiele e di lacrime? Donde il primo cava il diritto di dire al secondo: vivi; te lo impone il dovere? Dio stesso, se l'uomo, come ho detto, non fosse arbitro della sua proprietà, gli torrebbe per compassione la vita. Certo io ammiro la testa che porta fieramente la sventura, come un re la corona. Ma lo fa non per sommissione a un dovere che non esiste; lo fa perché ha sortito una tempra vigorosa d'anima, che lo rende capace a resistere. Ma l'infelice cui si son disseccate tutte le fonti del piacere, che vive dolorosamente per sé, e inutile per il prossimo, che trova a morire tutto l'interesse che gli altri trovano a vivere, perché un infelice siffatto deve rimanere al suo posto? Non vedete che la sua missione è finita? che l'equilibrio del patto sociale è stato alterato? Fareste voi meco un contratto in cui si stipulasse a me il riposo, a voi la fatica; a me le rose, a voi le spine? Perché vivete voi? perché la vita vi arride; perché considerandola anche come un male, se la mettete in bilancia colla morte, questa per voi è un male più grave, e fa traboccar la bilancia. - Spogliatevi di ogni ipocrisia; voi non vivete per un dovere; vivete per un calcolo. - L'infelice ha pesato l'esistenza e la morte; - l'esistenza era più grave; ed in senso inverso ha i medesimi diritti che voi; egli muore per un calcolo. - Ma voi direte: egli non deve cedere così per poco; deve combattere; deve tentar di vivere. - Se voi sapeste quanto lungamente ha combattuto, sareste men rigidi. - Egli ha combattuto a lungo, e con tutta l'energia dell'istinto, perché la vita non si getta via sbadigliando; e avanti di rodere la catena dell'istinto, ci vuoi tempo e dolore più che non credete. - lo ebbi un amico di ragione salda, d'ingegno capace, di cuore generoso; era amato e stimato da tutti e lo sentiva con riconoscenza; - ma non si sa come, fin dai primi anni, in cotesta pianta s'insinuasse il verme del suicidio che cominciò a minare, a minare tanto che all'ultimo la lasciò inaridita e nuda di qualunque fronda. Resisté molti anni, ma indarno; - egli doveva e voleva morire. - Vani furono i conforti delle persone a lui care: - vani i tentativi che faceva egli stesso per sottrarsi alla vocazione fatale.   Provò i piaceri dello spirito, - provò quelli dei sensi, - non avevan sapore; - per lui non aveva sapore che la noia; - vedeva il mando di dietro a un vetro affumicato. - Gli amici gli si mettevano d'intorno con ogni sorta di argomenti per levano da quel proposito; ed egli non ricusava la disputa, anzi l'accettava di buon grado, e l'esauriva con un ordine di ragionamento maraviglioso, e gli amici tornavano via quasi convinti a far lo stesso. Egli non era disperato; - era freddo e determinato a morire, come noi siamo a vivere. - lo ed altri giungemmo più volte ad ottenere perfino da lui una tregua di qualche mese al suicidio; - 'ed egli accordava sorridendo la tregua: - ma finalmente la volle finire, e in una sera di state con un colpo di pistola sì uccise. - Sul primo mi spiacque vivamente; poi ripensandoci sopra, esclamai come Lutero: beatus quia quiescit.

Andate a rammentare a un uomo come questo il dovere sociale ed ei risponderà: rinverginatemi il cuore, ravvivate il raggio alla stella pallida del tramonto, ed io vivrò volentieri con voi. - Potete voi farlo? Sappiate che l'anima umana può essere affetta da una tisi incurabile come il corpo. E se voi non avete farmaci da risanarmi, perché volete che io viva così dolentemente ammalato? Il meglio è finir presto.

E il miserabile che si annega per estrema miseria, che ha cercato il lavoro per ogni officina e da per tutto l'hanno respinto, che ha bussato ad ogni porta, e tutti per soccorso gli hanno dato un Dio ve ne mandi (moneta che non si trova chi la baratti), che doveva far altro, se non gittare un fardello che le sue forze più non valevano a sopportare? Dio o la Filosofia possono prescrivere l'impossibile? Possono prescriverlo, purché non ne aspettino poi l'esecuzione. - Certo quell'infelice, tentati invano tutti i mezzi di sussistenza innocente, poteva farsi assassino; - rapire l'oro e la vita a quanti s'imbattevano in lui, e da ultimo incappare nel boia che avrebbe fatto giustizia. Il boia però collo stringergli la gola - fino a che morte ne segua - non avrebbe scemata una dramma del male già seguito. - O Filosofia, se tu fossi meno proterva e più umana, invece di gravare la fossa del suicida d'una maledizione, o del tuo disprezzo, daresti lode, o almeno compatiresti l'infelice, che, posto fra il delitto e la morte, sceglieva quest'ultima. - Volete restringere la sfera del suicidio, confinandola ai pochi casi di esso, commessi per debolezza, o per noia, ai casi rarissimi di questa azione commessa per eroismo? Spendete meno massime, spendete più fatti: - allargate le vie della vita, sgombratele di tante spine, che vi seminò l'errore e l'ingiustizia. Con che titolo l'ozioso opulento verrà a filosofare aspramente sul corpo del suicida per miseria, - egli, che giornalmente in una bottiglia di sciampagna  beve almeno cinque giorni dell'esistenza di un povero?

Certe leggi barbare, perché inique e stolte, perché inutili, pretesero di percuotere il suicida con una pena. Le pene non hanno scopo ed esercizio che di fronte alla sensibilità. - Affliggete le cose insensibili, se vi riesce; e allora avrete ragione. Allora Serse quando flagellò l'Ellesponto fece un'azione degna di Socrate. - Il suicidio, sottraendolo alla speculazione e concedendolo alle sensazioni delle masse, è argomento di mille diversi giudizi. - Date a vedere sulle tavole del camposanto il corpo del suicida; - ecco la fama percorre le piazze e le strade e bandisce che un uomo si è ammazzato di proprio pugno. - Le turbe accorrono, fanno cerchio, fanno calca, fanno popolo; compongono l'opinione completa, dal colore più saliente alla gradazione più sfumata..

Una ragazza tutta tremante d'ansia e di curiosità come l'anima vergine allo spettacolo di una cosa non veduta mai, s'interna, s'affaccia, si curva un momento sul morto e poi si volta per partire, e sulla freschezza vivida della guancia è insorto un livido leggiero, leggiero; l'occhio è lucido più dell'usato, come quando è vicino a piangere; e facendosi strada frammezzo alla folla esclama: peccato! che bei giovane! - Un crocchio ben numeroso ragiona del nome e del cognome del morto; del come andava vestito; del dove stava di casa, delle sue abitudini, ecc. - Un popolano mette ruvidamente le mani sulla ferita per mostrarla al compagno e col suo grosso buon senso conchiude: a pagare e a morire c'è sempre tempo. - Uno scettico dice al vicino che gli domanda le cagioni del fatto: io non ne so nulla; era padrone di stare, è stato padrone di andare; - forse volevate rattenerlo? - E il vicino, mal soddisfatto, gli volta le spalle. - Un teologo lo mette all'inferno, e sigilla la sua decisione con una presa di tabacco. Una vecchiarella gli mormora addosso un de profundis, pregando sua divina Maestà che lo mandi almeno al purgatorio. Un ciarlatano allunga la fisonomia e vi fa sopra una massima. Un uomo di cuore non apre bocca e vi versa una lagrima.

E come vedete l'opinione pubblica non offre dati da fondare un sistema sull'unità del principio. - Chi biasima in forza di un diritto ereditato; - chi approva per simpatia; - chi per raziocinio; - chi compatisce: - i più son curiosi, e lasciano il fatto com'è senza definirlo. Io, facendo un sistema per conto mio, ripeto quanto ho avanzato in addietro, che la vita è la prima proprietà dell'uomo, proprietà assoluta, indipendente e separata con distinzione si profonda dall'altrui proprietà che non v'è rischiò di liti sui confini; e da una proprietà di questa natura deriva inevitabilmente l'esercizio di un diritto illimitato sulla medesima. Che ponendo ancora la vita. come un dono di Dio, egli non ha prescritto il modo speciale con cui deve finirsi. - Non si trova in nessun libro che abbia vietato il suicidio; e se pure una volta ha parlato, ha detto: non uccidere: e qui va bene, perché si tratta della cosa altrui, ma non ha mai detto: non ti uccidere. Egli ha donata la vita e l'ha destinata a finire. Sul modo poi è affatto indifferente, e per lui il suicidio è un genere di morte come un altro. Se il resto degli uomini vivessero eterni, e il suicida morisse, allora il suicidio si potrebbe considerare come una contradizione al suo concetto: ma poiché tutti dobbiamo morire, egli è indifferente sulla specie d'imbarco che noleggiamo per giungere a questo porto. - Dio ha donata la vita, ma non s'è riserbati i modi particolari per metterla a fine: ha lasciato questi modi alla nostra organizzazione e a quella rete di infiniti accidenti in cui siamo ravvolti. Credereste voi che egli occupi la sua eternità e i suoi attributi a scegliere per voi l'apoplessia, per me il mal di petto? Il pensarlo sarebbe forse una cosa empia e certamente ridicola. Lo spirito della sua legge è creazione e distruzione in perpetuo: - basta che l'uomo nasca e muoia, e la sua legge è adempita.

Affermata la legalità del suicidio, è facile fissarne i diversi gradi di stima. - Le azioni hanno un valore intrinseco che di rado può sfuggire all'aritmetica della morale. Voi potete compatire il suicida che si ammazza per debolezza; potete biasimare chi s'ammazza in conseguenza del giuoco o d'altre dissipazioni, approvate come un conto che torna il suicidio fatto per noia, o ratto dal tisico, che arrivato al terzo stadio, crede bene di risparmiarsi un qualche mese di agonia infallibile; - potrete ammirare il suicidio prodotto dall'eroismo. Potrete distinguerlo in tre calcoli, - fallace, giusto e sublime. Di tutti questi elementi potrete fare una piramide, dandole per base la debolezza e per comignolo la virtù.

Discendendo poi dalle teoriche al fatto, osserviamo che più ordinariamente questo fenomeno si verifica o nell'estrema energia o nell'estrema spossatezza dell'umana natura. Di rado tocca il grado intermedio; - di rado un uomo dotato di facoltà temperate mette le mani nel proprio sangue. Egli è buono a sopportare molti disastri, che fiaccano il debole; - egli, in forza delle sue misurate facoltà, non si trova mai avviluppato in quel nodo di eventi che sforzano l'uomo superiore a sparire dalla scena del mondo celandosi in un sepolcro. L'uomo moderato può convenientemente transigere con una lunga serie di fatti. L'uomo debole vive a caso, - e se i fatti gli passano rasente senza urtano di fronte, può invecchiare pacificamente, e morir nel suo letto. Ma se un fatto lo prende dì fronte, egli è perduto, egli non ha vigore bastante da sviarlo e rimetterlo sul suo cammino. Una cosa lieve, un nonnulla, anche una risata, in un cervello così fatto diventa un'idea fissa; e allora la follia compie la paralisi delle sue forze morali, ed egli è costretto a morire senza poterne dar conto a chi glielo dimandasse. Io ho conosciuto un giovane leggiadro di forme, d'indole mite, ma vuoto di testa, che si fucilò, perché i genitori, che l'amavano assai, non gli permisero di farsi dragone. - Ma l'anima atletica d'un eroe trascorre una scala lunghissima dì eventi, e nulla l'arresta; - la sua gagliardia rompe spesso la corrente, che strascinerebbe in rovina ogni altra forza fuorché la sua; - poi ad un tratto si trova di faccia una combinazione intricata, profonda, dove freme l'onnipotenza del Destino. Allora il Genio si conosce perduto, - ma non cede sul subito; si sviluppa una lotta da gigante a gigante, - e la lotta dura finché le forze da una parte resistono; - finalmente il Genio soccombe, - il Destino supera, perché il Destino è ciò che deve essere. Che deve fare allora l'eroe? - progredire è impossibile, perché una barriera di adamante gli chiude i passi; - rovinare in fondo è impossibile, perché la natura del Genio è di salire finché può. Allora l'eroe decide di morire, non già perché vuoi morire, ma perché non può più vivere. Non è il delirio, che spinge; è la coscienza, che sceglie. Il Genio si scava la fossa su quel gradino, dove la Fatalità gli ha reciso l'ale; - e si scava la fossa per insegnare che il sistema del Bene va portato innanzi finché si può, e non va rinnegato colla codardia del tornare indietro. Certo il suo concetto era di salire al sommo della scala e piantarvi lo stendardo della vittoria. Dio non ha voluto, - egli è morto. Egli non poteva vivere sospeso fra il cielo e la terra.

Catone sta per la repubblica, - e combatte all'usurpatore a palmo a palmo il terreno; ma questi, più felice di lui, lo incalza di provincia in provincia, - lo soffoca coll'alito ardente della vittoria. Catone finalmente è in Utica, chiuso in circolo magico, donde gli sarà impossibile uscire come dalla tomba. - Già si sente fremere a tergo il delitto e la fortuna di Cesare. Ma i fati non sono per lui, - egli lo sa. Non v e più scampo, - non v'è più spazio, - non v'è battaglia più da tentare; - la Virtù contro il Fato è un vetro contro una massa di ferro. Catone deve morire, e morrà. Poteva rendersi a Cesare, - ed ci l'avrebbe perdonato, - l'avrebbe anche onorato,   perché Cesare era un tiranno, ma un tiranno di genio. Catone era come quei metalli, che si spezzano, ma non si piegano. Doveva morire per dimostrare che la Virtù è un fatto sensibile, e non un nome vuoto; doveva morire, perché la sua ragione gl'insegnava pacatamente la morte come un dovere, la vita come un tradimento. Se non fosse morto, né i contemporanei né i posteri avrebbero saputo in che più credere. La sua morte fu una protesta eloquente contro l'usurpazione felice, - una guarentigia del diritto - un conforto, uno stimolo ai superstiti; e dal suo sangue usciva una voce, un insegnamento solenne a morire piuttosto che a disertare una causa santa.

E Bruto da quei sangue raccolse quella voce, e se la pose nel cuore. Quella voce gl'intimò primamente a non disperare della salute della patria, - a tentare la sorte incerta delle armi, e così fece; - poi quando a Filippi fu perduta l'ultima battaglia delle libertà latine, interrogò quella voce, e gli disse di morire, E Bruto moriva incontaminato, come devono morire le anime sublimi. - Comprese la san­tità della sua missione, - la grandezza dell'esempio che andava a dare, - il frutto immenso di cui questo sarebbe stato fecondo nell'avvenire. Il suicidio in lui non fu il consiglio d'uno stretto egoismo, fu un sacrifizio fatto alla dignità dell'umana morale. Se fosse vissuto, avrebbe commesso peggio che una viltà; - avrebbe messo in dubbio i diritti dell'uomo; - avrebbe sanzionata la scelleraggine trionfante;   ne avrebbe in certo modo velate le vergogne: - così la lasciò nuda, - così col suo sangue si appellò pei diritti delle nazioni alla vendetta dei posteri rigenerati; - così, piuttosto che concederla agli stupri della tirannide, volle condur seco la Virtù vergine nella tomba. Bruto, anima esaltata, e inflessibile nell'amore del grande e del giusto, era portato al suicidio dalla necessità e dal dovere. Non gli rimaneva a fare più nulla né di buono né di grande; - non gli rimaneva né anche di sedersi sulle rovine della patria, e sciogliervi un canto funereo; - le rovine della patria erano ormai lo scanno dei Cesari. - Doveva fuggire? Il pensiero solo è un sacrilegio; - ma e in qual parte di mondo fuggire? Il mondo era una provincia romana, e qualunque nazione avrebbe portato a gara la testa del Bruto in aggiunta ai consueti tributi. - Doveva ricorrere alla clemenza di Augusto? Oh! l'ultimo dei Romani non poteva ricorrere al primo dei tiranni. La Fatalità aveva incatenato lui alla Repubblica, e la Repubblica a lui, Erano due in un destino solo; - dovevano esistere insieme, perire insieme, e perirono. E poi conoscete voi la clemenza di Augusto? Ve lo dica Perugia. - Augusto non aveva che talento e libidine d'imperio; - del resto ineccitabile come una pietra; un alito di passione non aveva mai increspato quel mare morto dell'anima sua. Un giorno fece un conto, e barattò la testa di Cicerone suo amico contro quella d'un uomo che appena conosceva, come farebbe un fanciullo dei suoi balocchi; e sotto manto d'amore carezzava Cleopatra per menarsela a Roma in catene in un giorno di festa e d'orgoglio. Augusto avrebbe messo la testa di suo padre per puntello a un piede del trono, se quel piede non avesse posato in piano.

Il suicidio di Catone, di Bruto e di mille martiri della verità, è un eroismo, - un fatto di natura trascendentale, che sfugge al compasso di una volgare filosofia. È il punto culminante dell'umana grandezza, è il sacrifizio. L'invidia sola può tentare d'impiccolire le proporzioni colossali d'un tanto fenomeno, ma la ragione sdegna l'analisi, e si contenta di venerare. Il suicidio è vero che in questi casi stacca un fiore dalla corona della Virtù; ma la Gloria raccoglie tosto quel fiore, - ne fa una stella, e l'aggiunge al suo serto immortale.

 

 




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