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Carlo Bini
Manoscritto di un prigioniero

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Io ho detto nel capitolo XVII che sono in prigione, e lo confermo nel capitolo XX. Oggi finiscono trentaquattro giorni, e non isbaglio; in mancanza del lunario li ho contati due volte sulle dita.

A chi me l'avesse detto il 2 di settembre io avrei riso in faccia di un cotal riso da venirne a duello. Eppure io ci sono!

Benedetti i primi giorni della mia prigionia! - Io era così sempre fresco del passato, che sovente mi riusciva d'illudermi. Sovente sopra pensiero chiamava ad alta voce la serva, perché mi recasse una cosa o l'altra; e sentendo che nessuno mi rispondeva, io mi accertava allora della prigione; ma ci rideva sopra, e non era più altro. Sovente sopra pensiero in un batter d'occhio m'indossava la giubba, mi calcava in capo il cappello, e tutto infuriato andava per uscire; - ma giunto alla porta mi accorgeva che il chiavistello stava per di fuori, - segno evidente della prigione; - ed io al solito ci rideva sopra, e non era più altro. Benedetti i primi giorni della mia prigionia!

Oggi però è ben diversa la cosa. Io son mesto e spossato dalla noia - e così penetrato fino al midollo dal convincimento di essere in prigione, che questo pensiero dinanzi agli occhi e alla mente mi brulica in infinite forme, come uno sciame di atomi innumerevoli traverso un raggio di luce; e così mi si è dentro inchiodato, che nei primi tempi della mia nuova libertà per avventura crederò sempre d'essere in prigione.

Io sono mesto, e spossato dalla noia. La noia tacitamente ha tramato per me una così gran tela che io non vedo parte donde salvarmi. Io son la mosca di quella tela, e più che mi dibatto per uscirne, e più vi do dentro.

Oh! la noia è una parola sola, - una parola breve, che non conta più di quattro lettere,  - ma il provarla è tal volume, che uomo al mondo non sfoglierebbe così per tempo, né così di leggieri. La noia è l'asma dell'anima, - è una ruggine che può consumare la meglio temperata lama, che si dia; - è una cosa, che dai capelli alle piante ti fascia la cute d'un senso umido, fastidioso, ti perverte l'occhio, e ti fa veder tutto in bigio; - toglie il sapore al gusto,   - la fragranza ai fiori, - la dolcezza all'armonia. Schiaccia l'acume dell'intelletto, e lo rende bestialmente stupido, - e insugherisce il cuore, mortificandone la squisita sensibilità, disseccandovi dentro la lacrima del piacere e del dolore. Oh! la noia è il più insopportabile dei nostri dolori, perché è il dolore della stanchezza; perché non eccita in noi una forza che valga a combatterlo. Essa non è un vulcano, ma copre di freddissime ceneri il sorriso della natura intera.

E le ho tentate tutte per medicarla, ma senza pro. - Il leggere non mi giova; - sto mezz'ora sopra un verso, - e poi gitto il libro. Non ho più coraggio né anche di scrivere i miei ghiribizzi; i miei grilli son morti d'inedia; - essi volevano l'erba fresca del prato, e l'alito dell'aria aperta. -  Non mi giova il passeggiare; - vado in su e in giù per dodici passi della mia prigione, e di lì a poco torno a se­dermi colla vertigine. - Se mi affaccio, vedo, è vero, un bel cielo, ma le sbarre, che mi traversano l'occhio, me lo tingono di color di ferro; - vedo un cerchio di monti, e mi paion sepolcri; - vedo una mandra di soldati, che la disciplina militare ha saputo convertire in altrettanti arcolai. - Pallida mi apparisce la verdura degli orti, e dei vigneti, e il canto degli uccelli mi suona lamento.

Alas poor Yorick! Io mi curvo sotto un peso, che non posso più reggere, ho fatto di tutto per sollevarmene. Ho contato le battute del mio polso, e ho dovuto smettere;  - ho fatto la guerra agl'insetti, che mi son compagni, e ho dovuto smettere, perché son troppi; - ho contato i travicelli delle mie due camerette, e sono diciotto e mezzo; - i travi grossi, e son otto; - ho contato perfino i mattoni, e son trecento novantuno. Io non ho più pace, e non so come averne. Non posso più pensare né al passato né all'avvenire, spazi così vasti, e così comodi per il diporto dello spirito. Son confinato nel presente, - e il presente di un carcerato non è già il Tempo coll'ali snelle velocissime, - è una figura di piombo sdraiata in un canto.

Eloi Eloi, lamma sabactani. E come fare per il resto di tempo, che dovrò starmi in prigione? Avessero almeno detto; - ci starai tre mesi, sei mesi, un anno, - manco male; - ogni sera con un sospiro esclamerei: - v'è un giorno di meno! - Se io potessi avere dell'oppio, forse sarei felice, e certamente tranquillo; - l'anima mia dolcemente assopita passerebbe le sue giornate in un mondo aereo, multiforme, - un mondo così dovizioso d'illusioni, e d'immagini, che la più alta fantasia dell'uomo desto può concepirne appena una frazione ben minima. Ma non posso sperare nell'oppio; - i miei custodi l'hanno in concetto del veleno e non me lo farebbero vedere né anche dipinto. E per questo io ho desiderato le mille volte una febbre acuta, che mi levasse fuori di me fino al giorno della mia scarcerazione. Ma la febbre anch'essa, che pur non dipenderebbe dai miei custodi, non vuoi venire - non vi è rimedio; è un calice, che bisogna bere, e né anche Dio potrebbe rimuovermelo dalla bocca.

Ecco qui; tutti i giorni sono i medesimi, misurati dalle medesime vicende. Alle Otto la mattina il solito caffettiere colla solita colezione; - al tocco il solito pranzo portato dai due soliti selvaggi, che si son rubati il nome di camerieri. Il pranzo è composto sempre della solita zuppa, e di tre pietanze, che sembran tre morsi, presso a poco sempre uniformi, e di rado una di quelle variata, in un uccello strano, - una specie d'uccello, che avrà che fare coll'ornitologia, ma non so se abbia diritto all'ingresso d'una cucina; - una specie d'uccello, che a casa mia non ho mai veduto né per aria, né sullo spiedo. Io non so dove trovi quegli uccelli il trattore; - mi pare impossibile che un cacciatore li trovi, e, se li trova, che abbia il coraggio di spendervi sopra una botta. Ma io ho veduto spesso il trattore sur un campanile, e di certo ci vi andava per quegli uccelli, e per noi.

E il Profosso? Mutassero almeno il Profosso una volta la settimana, come avevano cominciato dapprima! Ma dopo una volta non l'hanno più fatto. Eccolo là, - è sempre il medesimo Profosso, - col medesimo viso  - col medesimo passo, - col medesimo vestito bianco mostreggiato di rosso, - colle medesime chiavi, coi medesimi 12 articoli, stabiliti contro di me, e contro di lui, - col medesimo suono di voce. Fin qui il Profosso non è ancora infreddato, per sentirgli fare almeno una voce diversa. L'unica mutazione, che segua in lui qualche volta, è quella da un casco a una berretta. E un uomo anche egli convinto della disciplina, - convinto dei suoi superiori, - persuaso che le bastonate sieno un dovere a darle, e a riceverle, come voi siete persuaso a grattarvi in quella parte ove vuole il prurito. - Oh! le strane fantasie della noia! Quante volte non ho io desiderato, per non vedere sempre il medesimo Profosso, di vederlo un giorno con un occhio solo, un altro giorno con tre; un giorno con due nasi, un altro giorno colla bocca sulla fronte; una domenica, quando mi accompagna alla Messa, che camminasse colle mani e coi piedi; un lunedì di vedermelo vestito da donna; un giovedì colla testa voltata dalle spalle, un venerdì senza testa. Ma il Profosso non si muta mai, - è inesorabile; e ogni giorno viene a menarmi fuori per prendere un'ora d'aria, com'egli dice, e spesso mi tocca invece un'ora d'acqua. E sul primo anche questo era un conforto, - ora non è più. È sempre il medesimo Forte della Stella, - le medesime salite, - le medesime scese, - i medesimi sassi ribelli, e pronti ad offenderti, - i medesimi cannoni, - i medesimi soldati; - non si trova un uomo, o una donna, se tu li pagassi a peso d'oro.

Il Profosso è una disperazione; - quando io gli chiedo se ci è nessuna nuova del mondo, mi risonde sempre che non vi è nulla di nuovo. Possibile mai! - bisognerebbe che tutto il mondo fosse in prigione. - Eccolo là il Profosso! è inconvertibile. - Viene tre volte al giorno nella mia stanza, uguale uguale, senza pendere un capello da quello che era la vigilia; e mi dice se può entrare, quando è già entrato; e, allorché se ne va, mi domanda se io voglio nulla. Egli lo fa per dovere, non ci mette ironia, - così voglio credere; - ma quella dimanda mi fa il sangue più agro. O Profosso! Profosso! Se tu sapessi quello che lo voglio, certamente non me lo dimanderesti due volte. D'ogni tre volte due almeno io voglio che tu vada al diavolo.

E la notte? - non me la rammentate, per l'amore che portate a voi stessi, La notte è per me l'eternità di un dannato. La notte con quel suo vasto silenzio, così propizia ai fantasmi poetici, al meditare profondo, per me non significa nulla; e mi scende sull'anima, fredda, piatta, e pesante come una lapide. Invoco il sonno coi nomi più lusinghieri, ma vanamente. Disteso sopra un letto né cattivo né buono, mi volto a destra, mi volto a sinistra, mi giaccio supino, mi giaccio bocconi, mando fuori un Gesù mio, mando fuori una parola a rovescio, ma il sonno non viene. La notte la noia non è sola; - chiama sull'armi le zanzare, e mi fanno una guerra mortale da fedeli alleate. Finalmente prendo un poco di sonno, -  ma torpido, vuoto, senza balsamo di riposo, senza sogni. Potessi almeno farmi de' sogni! ché la mattina di poi m'ingegnerei a farne la storia, e a metterli in bello stile.

Sul principio, quando veniva la notte io mi consolava standomi alla finestra a godermi lo spirare dei venticelli, e lo spettacolo solenne d'un bel cielo italiano. Ma, dopo quello che avvenne una sera, ora appena cade il crepuscolo io chiudo le imposte, e disperatamente mi caccio nel letto. Sentite quello che mi accadde una sera. Io me ne stava, come v'ho detto, immergendomi lo spirito nella considerazione d'una gloriosa natura, assorto in uno di quei momenti d'estasi e d'oblio, nei quali l'uomo non è più una povera creta, ma è pellegrino dell'Infinito; e guardando sospeso sopra di me quell'azzurro immenso, sereno, gioioso, magnifico di stelle e di misteri, mi sentiva sollevare, mi sentiva intenerire: - a un tratto mi venne fissato l'occhio sulla Luna, che spuntava in un lato del firmamento, pallida amabilmente e modesta; - allora il mio sentimento cominciò a svilupparsi in una forma più precisa, più palpabile, ed io volli esprimerlo con un inno e cominciai:

 

È mesto il raggio della Luna e Dio

Lo temprò in armonia colla sventura.

 

Ma come fui a questo punto, una fata leggiera leggiera, coll'ali color dell'iride, mi trasvolò din­nanzi, mi fece un inchino, e mi diede la buona notte. - Era la Musa. - Io sul subito non me ne accorsi, e non seppi interpretare in buona parte quel suo consiglio. Quindi, per non dirvi le bugie, avrò ripetuto almeno un cento di volte quei due versi in cadenza accademica, ma il terzo non venne mai. Alla fine ripensai più pacatamente alla figura veduta, e tra il dispetto e l'umiliazione mi coricai.

Io non conosco a prova il martello della gelosia, - ma, faccia pure l'estremo di sua possa, non può arrivare altra noia.

O Torquato Tasso! io non ti chiedo nulla che valga; - non ti chiedo quella corona di stelle, onde tu cingesti in Palestina la Musa italica; solo chiedo, reverentemente, che tu mi dica come facesti quando al magnanimo Alfonso piacque decretarti pazzo, e chiuderti per lunghi anni in un ospedale, come facesti in quei lunghi anni a pensare alle sette giornate del Alfonso Creato, mentre io in trentaquattro giorni, se qualche volta ho pensato al mondo, ho pensato dì disfarlo, non già per istizza, ma perché mi sembra mal fatto.

O Silvio Pellico! io non ti domando la tenera ispirazione, che sarà un palpitò del cuore finché l'Amore sarà una passione dell'uomo; ma ti domando soltanto d'insegnarmi donde traesti la tua decenne pazienza, a costo di fare un facsimile delle tue Prigioni che io non t'invidio punto né descritte, né in pratica.

 

N.B.   - Questo capitolo naturalmente è fuori della giurisdizione della critica; egli non ha pretensioni; - è il capitolo della noia.

 

 

 




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