Tra Nivitti Bei ed Imgur Bei, nel
tratto settentrionale di quella lunghissima zona di lieta verdura che corre tra
i due baluardi, come diadema intorno alla fronte d'una regina, è il sacro bosco
e il tempio di Militta Zarpanit, la gran madre, la provvida fecondatrice del
germe, colei che esalta la potenza dei figli di Belo.
Folte macchie di lentischi e di
mortelle, di cedri e di salici, fiancheggiano le vie tortuose e i sentieri dove
luce non giunge. Tutto intorno cespugli di gelsomini e di rose, liberali de'
sottili effluvi che ispirano l'amore, siccome all'amore dispongono i leni
susurri dell'aura vespertina e i gemiti delle colombe, libere abitatrici del
luogo, venerate messaggiere della Dea. Il sacro amòmo dal ceppo sarmentoso si
leva coi tralci, si avvinghia alle piante maggiori, spandendo ombra di
molteplici foglie e fragranza di rosei grappoli sui misteriosi recessi. Da un
lato la via maestra, o regale; dall'altro l'Eufrate; in mezzo alla selva,
murato su d'un poggio, è il tempio della Dea, con la sua cupola gialla, lungi
splendente dal colmo dei rami intrecciati.
Militta Zarpanit! Donde il tuo
culto, che le tarde generazioni vedranno fiorente presso tutti i popoli
antichi, all'alba della lor vita affannosa? Gli Dei, che simboleggiano la forza
degli elementi, ma più assai la paura degli uomini, spariranno dagli altari; i
possenti della terra, i fondatori di città e di regni, santificati
dall'ossequio del volgo, saranno dimenticati o confusi; ma il culto della bella
natura, il culto della gran madre feconda, il tuo culto, o Militta, non perirà.
Beiti, Militta, Zarpanit, Thaaut, Rea, Istar, comunque ti piaccia esser nomata
dalle genti di Sennaar; Astarte a Tiro, Derceto in Ascalona, Afrodite fra gli
Elleni, Venere tra gli ultimi Esperii del mondo antico, i tuoi riti saranno
uguali dovunque, comeché sformati dall'indole varia dei popoli, dalla naturale
trasfigurazione del simbolo, dal riuscir del mito in leggenda. A te sacro
dovunque il mirto, a te le colombe; a te non mai sacrifizio di vittime fumanti,
ma offerte di odorate ghirlande e incruento olocausto di cuori.
In te si venera la diva natura,
che rinacque sorridente e gloriosa dall'onde. Te, sorgente dalle spume, vide la
memore sapienza ellena; preceduta dalla colomba, lieta apportatrice del
ramoscello verdeggiante, ti celebrarono le prime istorie della figliuolanza di
Sem. L'apparir tuo fu mostra di possanza, non doma dal flutto devastatore; il
ramoscello dell'alato messaggiero recò il tuo primo saluto ai superstiti,
ricondusse la speranza nei cuori. E rinata alla luce, investita dalle vampe
maritali del fuoco interno, vigilata dall'insaziabile sguardo dei corpi
celesti, amata amante di avventurosi mortali, fosti feconda di nuovi frutti
alle genti; le quali ti riconobbero madre, dalle tue cento mammelle succhiarono
la vita, e il tuo culto leggiadro recarono divotamente con sé, allorquando,
rifatte dai primi terrori, si sparpagliarono allegre e fidenti sulla faccia del
mondo.
Imperocché (chi nol sa?) da
mezzogiorno e da occidente vennero i primi apportatori di civiltà alla terra di
Sennaar, a mano a mano che su per l'erta delle convalli mediterranee li
sospinse la piena crescente dell'acque, dopo che cadde inabissata nei gorghi
marini la prisca terra d'Atlante e il tremuoto spezzò le immani serraglie di
Abila e di Calpe. E dal mare ebbe Babilu i suoi fondatori, i suoi demiurghi.
Ilu, il suo primo Iddio, il suo primo terrore, è librato sulla distesa
dell'acque, o posa sulla vetta dei monti, negro come la nube che lo circonda,
pregno di nembi e di folgori. Dal suo grembo squarciato escono le tre forze
arcane, quasi le tre forme della sua medesima essenza: Anu, il caos
primordiale, Bel, la potenza ordinatrice, Hoa, lo spirito intelligente
dell'universo. L'ultimo tra questi è lo spirito più sensibile, il più noto, il
più dimestico ai volgari intelletti; egli è il pesce dio, che reca i primi
comandamenti all'umano consorzio. Daokina è la sua forma femminea, venuta
anch'essa dal mare, emersa dai flutti dell'Eritreo. Lasciate che il mito si
svolga egli assumerà nuove parvenze, altri significati, altri nomi.
Difatti, agli Dei cosmogonici
succedono a breve andare gli Dei siderali. Abbia la divinità un aspetto
visibile; se il cielo è sua dimora, il cielo donde si sprigionano i nembi, il
cielo donde ci piove la luce, vediamola nello spazio azzurro, vediamola in
quelle grandi pupille di fiamma che assidue dardeggiano il mondo. Così i
prischi ed oscuri elementi si rinnovano, ricompaiono in luce di stelle, ed alla
vecchia triade cosmica, ecco tener dietro la triade celeste, Sin, Samas, Iva,
anch'essi rinfiancati di lor forme femminine. Sin, l'astro della notte,
risponde al dio delle tenebre, al caos; Samas, l'astro del giorno, risponde
alla potenza ordinatrice del creato; Iva, lo spirito dell'etere, l'atmosfera
trasparente, risponde allo spirito penetratore dell'universo, al pesce dio
venuto dai gorghi del mare.
E adorati questi fulgentissimi
numi, perché non si adoreranno gli astri minori? Ecco, la triade si scempia
ancora in tutti quei luminosi pianeti che scintillano la notte nel firmamento
azzurro. I nuovi regnatori delle are son questi Ninip, o Adar, il lontano astro
che si circonda d'un candido anello, e i cui satelliti, nascondendosi tratto
tratto dietro al suo disco, lo faranno apparire divorator de' suoi figli;
Merodac, il più appariscente, il più splendido, epperò dal popolo babilonese
chiamato figlio di Bel, e adorato più tardi siccome il vero monarca del cielo;
Nergal, il corrusco di luce rossiccia, fatto signore dell'armi; Nebo, il
sapiente, protettore della eloquenza e della autorità regale, non ancora
sformato dalle volgari leggende, che tra gli Elleni lo diranno rapitore di
mandrie Istar, finalmente, la stella dei soavi splendori, che la venerazione
delle genti confonderà coll'antica Beltis, o Bilit, forma femminea di Bel, e
con Daokina, la compagna di Hoa. Astro in cielo, anima della natura in terra,
diviene la consolatrice dei cuori, la increata bellezza, la fonte dell'amore;
celeste è Taauth terrestre è Zarpanit. Eccola adunque, sempre una in tutte le
sue svariate sembianze, nata dalle onde, splendente nei cieli, vivente nel
creato, cara ai mortali, madre, signora ed amante.
A lei sacro tutto ciò che
risplende per grazia e leggiadria; a lei sacra la lieta fecondità; a lei sacro
l'amore che ingentilisce i costumi. A lei dedicate le prime pietre che il volgo
agreste ammirerà, sporgenti, solitarie, scalzate dalle acque, lunghesso il
dorso dei monti; a lei i primi simulacri che il fantastico genio dell'India
ornerà di cento mammelle, a significarne la materna abbondanza, laddove il
genio più corretto degli Elleni la ritrarrà nelle sembianze della donna amata,
e vedrà il sommo della sua divina bontà nel complesso di tutte le bellezze di
Grecia. A lei consacrate le isole e i boschi odorosi, dove gemono le colombe e
sguardo profano non penetra i dolci segreti. Ogni umana cosa si corrompe pur
troppo, e la casta adorazione cederà il luogo a mostruosi misteri; dei quali,
al postutto, è agevole il sentenziare, col sangue e il giudizio assottigliati
da migliaia d'anni trascorsi.
E Militta Zarpanit chiamava ai
suoi amabili riti la gente di Sennaar. Era essa la divinità più grata al popolo
babilonese. Belo, insieme con le sette sfere lucenti, aveva la sua torre dai sette
piani e dai sette colori nel borgo sacerdotale di Barsipa. La triade antica
delle fondamenta della terra aveva la piramide di tre piani, innalzata in
quella parte occidentale della città che è più vicina all'Eufrate. Ilu, il
temuto iddio delle acque, aveva la città tutta quanta e la soggetta pianura;
Nisroc, o Salman, nume dalle ali e dal rostro aquilino, Assur, il protettore,
nella cui faccia umana e nelle membra di toro alato raffiguravasi la forza e
l'intelligenza divina, custodivano, paurosi simulacri, le cento porte di
Babilu. Militta, più soave e più cara, aveva sulla riva destra del gran fiume
il suo tempio, i penetrali, la selva e i riti notturni. Non risplendeva essa,
amica stella nei cieli, la prima ad apparire dietro il sole cadente, l'ultima a
dileguarsi ai primi chiarori dell'alba?
Il suo bell'astro scintillava
nell'azzurro sereno, accanto alla colma luna, rallegrando il creato di miti
splendori, allorquando il giovane Ara, vestito delle nuove fogge babilonesi,
s'inoltrò in compagnia del suo Bared, sotto i platani che facevano confine alla
selva. Quel lieto viavai di gente sconosciuta, quei volti sfavillanti di gioia,
quelle donne a mezzo velate che si appoggiavano fidenti al braccio degli
amanti, quel luccichio di fiaccole, quell'effluvio di fragranze, quell'onda di
musicali concenti tra i rami, rapivano il suo cuore, facendolo immemore d'ogni
cosa, sussurrandogli arcane parole, che avevano un'eco nel profondo dell'anima.
Giovinezza beata! come le arride il futuro! e come i suoi dolci incantesimi
possono far tacere in lei le mestizie d'un passato, che ancora non ha avuto
agio di mutarsi in assenzio! A lui l'ignoto, con le sue lusinghe, le promesse,
le speranze dolcissime, sorrideva sotto quei rami, in quella moltitudine
appariscente e festosa, immagine del mondo in cui egli era entrato per la porta
d'avorio. Ed ammirato, estatico, fuori di sé, saliva lentamente, rasentando le
belle coppie innamorate, pei meandri del bosco.
Com'egli fu giunto al sommo del
poggio (che tale era la forma del sacro recinto), gli si parò davanti agli
occhi la maestosa mole del tempio, torreggiante su d'una piattaforma che gli
faceva terrazzo in giro, a cui si saliva dai quattro lati, la mercè di ampie
gradinate. Le mura di sostegno si vedevano fregiate di bassorilievi e dipinti
in onore della Dea, e di iscrizioni scolpite nei venerati caratteri della
stirpe degli Accad, somiglianti a chiovi impressi per lungo ed in mille guise
intrecciati. A' piedi delle gradinate vigilavano leoni di granito; certamente
posti colà, sotto gli occhi della Dea, come emblemi della forza, cui la
bellezza soggioga. E il tempio infatti innalzavasi poco più in alto, cinto da
doppio giro di colonne, coronato di capricciosi fregi e di eleganti merlature,
sormontato da una svelta cupola, rilucente nello spazio azzurro ai raggi della
luna.
Il suono dell'arpe e dei cantici
era da pochi istanti cessato innanzi all'ara della gran madre Militta, e già la
moltitudine devota scendeva a torme dal limitare, spandendosi lungo i terrazzi
e per le scalinate, a guisa di fiume che rompa fuori dagli argini. Il vano
della gran porta appariva vestito dell'aurea luce, ond'era sfolgoreggiante
l'interno, e di là venivano profumi d'incenso, di gàlbano, di cinnamomo e di
mirra.
Dopo essere stato un tratto
immobile a contemplar da lontano quella scena incantevole, il re d'Armenia si
avviò verso la gradinata, in mezzo alla moltitudine, che scendeva dal tempio, o
saliva.
I raggi della luna rischiarando
il suo volto e la leggiadra persona, si fece a breve andare dintorno a lui
quella ressa curiosa, quel bisbiglio, quell'avvicendarsi di domande e di
ammirazioni, che furono mai sempre, e saranno, il più naturale omaggio reso
alla bellezza dal volgo dei riguardanti. Ora, presso i babilonesi, come presso
tutti i popoli antichi, più schietti adoratori della forma, quell'omaggio era
più facile a rendersi; né solamente riservato alla donna, come accade tra noi,
non so se più austeri o più invidi.
Turbato un tal poco da quegli
atti curiosi e da quelle voci di meraviglia, il giovane affrettò il passo fin
sopra la spianata; s'inoltrò sotto il pronào del tempio, che era sorretto da
enormi tronchi di palma, foggiati a colonne, ed oltrepassò il sacro limitare,
fiancheggiato dai simbolici leoni di pietra.
Colà, un più meraviglioso
spettacolo si parò davanti agli occhi del giovine. Sulle prime, tra per la luce
riflessa dalle lamine d'oro e d'argento, che correvano alternate sull'alto
delle pareti, e per la nube d'incenso che si diffondeva nell'ampio recinto,
parve a lui d'essere, anzi che tra' mortali, nella regione dei sogni, in cui si
pregustano le delizie celesti. Ma, a poco a poco, avvezzando lo sguardo a
quella vaporosa veduta, egli poté discernere partitamente ogni cosa.
La cella sacra, dov'egli aveva
posto piede, era un'ampia sala quadrilunga; conterminata da un abside, su cui
si levava la cupola, già veduta di fuori. Le mura tutto intorno apparivano
ornate di stucchi, con iscrizioni e bassorilievi colorati, fino all'altezza
degli stipiti di un gran numero di porte, le quali mettevano alle camere dei
sacerdoti. Ai lati di queste grandeggiavano leoni e tori alati, dal volto umano
o dalla testa d'aquila, che parevano vegliare riverenti, a custodia delle mezze
figure chiuse nel circolo eterno, con lunghe ali distese, emblemi della
divinità suprema, i quali si vedeano scolpiti più in alto. E dove finivano le
sculture e i dipinti, incominciavano i fregi di lamine d'oro, intelaiati a
guisa d'arazzi nel vano di un finto colonnato d'argento, che saliva a sostenere
un sopraccielo di legno prezioso, partito a cassettoni, con entro rosoni ed
altre fogge di fantastici fiori, messi ad argento ed oro, siccome le colonne
già dette. Nell'abside, sotto la cupola, sorgeva l'altare di Militta, masso di
diaspro riquadrato e lucente, su cui s'innalzava il bianco simulacro della Dea,
che poggia il piede sul domato leone, e reca tra mani il fiore della vita. Ai
quattro angoli dell'altare, fumavano, entro bracieri sostenuti da tripodi di
bronzo, i quattro aromi più grati agli abitatori del cielo; e d'ogni parte pendevano,
in lungo ordine disposte, le lampade d'argento, donde i lucignoli di bisso
attingevano l'olio fragrante, per dar luce e profumi all'intorno.
E per mezzo a quella nube
d'incenso che si diffondeva dall'abside, il principe vide uno stuolo di
sacerdoti, i quali posavano dalle cerimonie e dai cantici, seduti su sgabelli
d'ebano, il cui nero lucente faceva vieppiù risaltare la candidezza delle
lunghe stole (il bianco era il color sacro a Militta) e degli ampi mantelli in
cui ravvolgevano la persona. Il gran sacerdote si discerneva, fra gli altri,
per la tunica sfoggiatamente trapunta e frangiata d'oro sui lembi, per l'aurea
cintura tempestata di gemme e per l'aurea mitra foggiata a testa di pesce, la
cui infula scendeva ad accappatoio sulle spalle, simulando le squamme
dell'animale e la coda a due punte. Militta, non lo si dimentichi, era altresì
Daokina, e la mitra del pesce dio, portata dai sacerdoti di Babilu, doveva
coprire il capo ai ministri di ben altre divinità, posteriori nel tempo.
Una mensa di lucido argento,
sorretta da figure simboliche, era collocata davanti all'altare; e sovr'essa
splendevano le liberali offerte dei più ricchi adoratori. Capaci coppe di
bronzo si scorgeano dai lati, nelle quali ogni donna che uscisse dal tempio
gittava la sua moneta, d'argento o di rame. E tratto tratto si vedeva alcuna di
esse muoversi dal fondo, inoltrarsi fino all'altare, e deporre il suo tributo,
levar le mani in atto di adorazione ed uscire.
Ciò ricondusse più indietro gli
sguardi del giovine. Il sacro recinto non era anche spopolato del tutto;
imperocché, sedute in lungo ordine su panche di legno, attorniate da curiosi
che le veniano squadrando degli occhi, stavano molte donne in attesa, con
funicelle ravvolte intorno al capo, e, ognuna di esse giusta la sua condizione,
nobilmente vestite ed adorne. Quella era per fermo la celebrazione d'un rito;
né il re d'Armenia lo ignorava, essendo allora i misteri di Militta Zarpanit
famosi per tutte le circonvicine regioni.
Così voleva il costume, che ogni
donna babilonese dovesse, una volta in sua vita, rimanersi nel tempio
aspettando, fino a tanto non avesse pagato il suo tributo alla Dea. Ciò ch'ella
riceveva dall'ignoto, il quale accostavasi a lei, rivolgendole la frase «invoco
per te la dea Militta», dovevasi gittare in offerta nella coppa di bronzo. Né
ella, poiché s'era così seduta in attesa, con la funicella intorno alle tempie,
potea più respinger l'omaggio dello straniero, chiunque egli fosse. Mostruoso
rito; ma non è in balìa del narratore il mutarlo. Forse era naturale
corrompimento d'un alto concetto; forse reliquia di più rozzi costumi, non
potuta cancellare del tutto, epperò saviamente dissimulata dalla santità della
cerimonia; fors'anco, nell'uso, era temperato da acconci convegni, da gentili
artifizi, che la storia non ha tramandati alle tarde generazioni, e che il
senno di queste può argomentar verisimili. Ma di ciò pensi ognuno a sua posta.
Ben ci raccontano gli antichi, ed
è anche agevole il credere, che le più nobili e ricche sdegnassero di mescolarsi
cosiffattamente alla comune delle donne babilonesi, nella celebrazione dei
sacri misteri. Elleno per fermo non si ristavano dallo accorrere al tempio; ma
in lettighe coperte e accompagnate da uno stuolo di servi, che recavano i loro
donativi e le debite offerte all'altare.
Una di queste felici era appunto
allora nel tempio, prostrata dinanzi ai gradini dell'abside, su d'un morbido
cuscino che sotto i ginocchi le aveva posto un'ancella, mentre un'altra
deponeva sulla mensa il presente della signora, aromi e polvere d'oro in vasi
d'alabastro.
Quella donna, veduta appena,
trattenne lo sguardo del giovane. O fosse la singolar leggiadria delle forme,
non potuta nascondere dalle pieghe del velo che tutta le involgea la persona, o
il suo rimanersi in disparte e la compagnia delle ancelle, che la dicevano
donna di ragguardevole stato, od altra più riposta cagione (che molte ve n'ha,
sottili, inavvertite ed arcane, per disporre in varie guise la trama degli
eventi), fatto sta che quella donna velata, lontana, ignara di lui, gli occupò
la mente, lo disviò da tutta quella moltitudine di aperte e sorridenti
bellezze, che in lui figgevano i grandi occhi neri, pieni di schietta
ammirazione e di dolci lusinghe.
Tanto può l'ignoto sull'animo
nostro! Così tenui sono le fila in cui ci avvolge il destino!
Ella era inginocchiata dinanzi
all'altare, in atto di preghiera, mentre alcuni adolescenti ministri del tempio
venìan raccogliendo di mano alle ancelle i preziosi donativi della sconosciuta
supplichevole.
- Militta ti vede e ti ascolta! -
le avea detto il gran sacerdote; - ti conceda ella ciò che le tue preghiere
dimandano. -
Ara non poteva distogliere lo
sguardo da lei. E più la rimirava, e più si riempiva il suo cuore di dolcezza
ineffabile; come se da quelle forme mal note emanasse un tiepido effluvio che,
tutto investendolo, gli s'infiltrasse per ogni meato nel sangue. E una
speranza, un desiderio, uno struggimento gli cresceva grado grado nell'anima,
di vederla in volto, d'essere veduto, di non essere un ignoto per lei.
Donde nascono essi, questi moti
repentini del cuore, soventi volte datori d'un nuovo indirizzo alla nostra
esistenza, che ci fanno di punto in bianco, quasi per virtù d'incantesimo,
consapevoli di noi, cosicché ci sembri, o di vivere per la prima volta, o di non
aver vissuto mai di vera vita da prima? Bagliori improvvisi nelle tenebre
dell'intelletto, voci arcane all'orecchio, tumulti nel cuore, inni prorompenti
dai penetrali dell'anima, donde traggono essi l'origine? Dal nulla, chi guardi
all'apparenza, come dal nulla hanno vita i fantasmi del sogno; ma il savio, che
scruta i segreti della natura e argomenta le cause non viste, si raccoglie
umilmente nella sua pochezza, e ciò che ancora è sfuggito al suo spirito
indagatore, non deride egli, per fermo, e non nega.
Così ammaliato, ignaro di sé, il
giovane s'era fatto più innanzi e più presso alla sconosciuta, quasi volesse
inebbriarsi dell'arcano effluvio ond'era soggiogato, o raffigurarsi, sebbene
imperfettamente, il profilo di quella testa, sotto le pieghe del velo che
l'ascondeva, o cogliere a volo, respirare un alito di quelle preghiere che ella
rivolgeva all'altare.
- Che chiede ella a Militta?
Forse il suo cuore arde, si strugge d'un amore disperato, e prega la Dea che
versi sovr'esso i balsami dell'oblio? O le voci dell'affetto non hanno ancora
parlato all'anima sua, e implora il conforto, fors'anche lo strazio, d'un amor
vero e profondo? Ed io ti chiedo, o Militta, che quella donna mi ami. -
Fu un impeto subitaneo,
irresistibile, e decisivo del pari. Ascese incontanente il primo gradino del
santuario, e recò la mano alla sua cintura tutta adorna di gemme. L'aveva egli
portata seco d'Armenia, e per vezzo giovanile, rigirata al fianco, sulla tunica
babilonese pur dianzi indossata. Un grosso e trasparente smeraldo ne fregiava
il nodo, ed egli fu pronto a strapparnelo.
- È questa la mia offerta, -
diss'egli, avvicinandosi alla mensa, per deporvi la gemma, - se Militta non
isdegna il presente d'uno straniero.
- Bellezza e gioventù spirano dal
tuo volto, come una dolce fragranza, - gli rispose il gran sacerdote,
accompagnando le parole con un paterno sorriso. - II tuo aspetto è d'uom caro a
Nebo, al veggente Iddio, che dà lo scettro ai reggitori dei popoli. Qual cosa
dimandi tu, che Nisroc, il signor delle sorti, non t'abbia concesso il dì che
nascevi? Pure, è bello il non fidarsi nei doni della natura, e tutto in quella
vece aspettar dagli Dei. Essi non deludono la speranza di chi li invoca con
animo riverente. E Militta, invocata, conceda a te, o giovine straniero, il
compimento de' tuoi voti, conservi a te il regno de' cuori.
- D'un solo, e sarò il più
avventuroso tra gli uomini! - esclamò il re d'Armenia, nel ritirarsi dal
santuario.
Agli atti improvvisi, alle parole
del giovane, la donna velata aveva rivolto il capo da quella banda; di certo
essa lo aveva veduto per mezzo alla trama sottile del bisso che le copriva il
sembiante. A lui parve che più d'una volta, e lungamente, gli occhi della
sconosciuta si fossero soffermati a guardarlo; invero, ei non li aveva veduti,
ma sentiti, e il benefico raggio gli era penetrato al cuore, che aveva dato un
sobbalzo.
Bared, in quel mentre, gli si era
accostato da tergo.
- Va; - disse egli concitato al
suo fedele servitore; - va a riposarti, mio povero Bared!
- E tu, mio signore?
- Io? Non dormirò più questa
notte.... né poi; la mia pace è perduta. -
Bared, senz'altro aggiungere, si
allontanò. E il re d'Armenia, tiratesi alquanto in disparte, per non dar più
oltre nell'occhio ai curiosi, stette immobile, estatico, a contemplare la
donna velata.
Poco stante, ella si alzò, e,
seguita dalle ancelle, si mosse per uscire dal tempio.
Al giovane parve allora di veder
cosa non mortale, una dea, la stessa Militta Zarpanit, discesa dal suo altare
di diaspro, per farglisi incontro; tanta era la maestà del portamento, tanta la
leggiadria delle forme. Ed egli credette di non potersi reggere in piedi, e
istintivamente si appoggiò ad uno di quei colossali leoni di pietra, che
sporgevano dalla parete, allorquando la vide avvicinarsi, e argomentò che gli
occhi della nobil donna fossero volti su lui.
Ma si riebbe ad un tratto, volle
esser forte, per cogliere al varco la fuggente occasione. Infine, che dirà
ella, se parlo? E che penserà ella, se taccio?
Commosso, palpitante, combattuto
da desiderio e da tema, fu per accostarsi a lei; e fatto il primo passo, si
rattenne ancora. Ella si accorse dell'atto, in quella che stava per passargli
dinanzi, e balenò irresoluta a sua volta.
Non era più da rimanersi
perplesso. Ara si mosse verso di lei, e con accento soave le disse:
- Perdonami!
- Che cosa? - dimandò ella,
arrestandosi.
Il principe non rispose parola,
tanto era turbato. Né forse ella pose mente a cotesto, o, se vi pose mente, non
le parve irriverenza. Il rossore del giovane non era egli la più eloquente
risposta e la più schietta confessione dall'animo suo?
Ella stessa, o compassionevole, o
grata, ruppe l'uggioso silenzio.
- Tu sei straniero? - gli chiese.
- Sì, sono, - rispose il giovane,
pigliando animo dalle cortesi parole e più ancora dal soavissimo accento; - e
se non t'incresce.... se nulla ti chiama così presto lontano da me.... amerei
dirti, o signora, una preghiera insensata, che io feci poc'anzi alla Dea.
- Ti ascolto; - disse a lui di
rimando l'incognita.
- Di vederti, - proseguì Ara
sommesso, - di poter dirti che t'amo, di essere amato da te. -
Ella rimase un tratto in
silenzio, forse turbata dalle inattese parole. Il giovane, temendo di averle
recato offesa, già era per chieder venia del soverchio ardimento, quand'ella si
fece, senz'ombra di sdegno, a domandargli:
- Mi conosci tu forse?
- No; e tu ben lo vedi, - rispose
Ara, con voce carezzevole, - questa è follia. Ma son io forse più signore di
me? La Dea mi ha condotto a forza quassù, perché io smarrissi la pace dell'anima.
E là, presso l'altare, ho detto a me stesso che tu eri la più leggiadra donna
di Babilu. Per Militta, che tu invocavi poc'anzi, io ti chiedo in cortesia di
sollevare un lembo di quel tuo velo geloso. -
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