Le dolci parole, e più l'accento
d'onesta preghiera, toccarono il cuore della donna velata.
- E se tu ti fossi ingannato? -
diss'ella, dopo esser rimasta alcuni istanti raccolta in sé medesima, quasi
volesse aspirare gl'incensi di quel lusinghiero discorso. - Se a me non
arridessero i pregi che fanno cara la donna al tuo sesso?
- Oh, gli è impossibile! - sclamò
il re d'Armenia, stringendosi al suo fianco, mentr'ella lentamente, ma
senz'aria di voler dargli commiato, volgeva il passo al limitare del tempio. -
Me lo ha detto il cuore, che non inganna mai. Né basta; la tua presenza, ciò
ch'io vedo e sento di te, non ti palesano forse? Tu ben lo sai, mia dolce signora;
leggiadri son sempre i fiori odorosi, e il gelsomino, celato nel verde cupo del
bosco, non tramanda più soavi fragranze di quelle che spirano dal tuo velo, o
bellissimo tra i fiori di Babilu.
- Nebo t'ha ornata la mente di
grate fantasie, - soggiunse l'incognita, - e il miele della poesia scorre dalle
tue labbra. Così tu dicessi il vero, come parli cortese!
- Or dunque, - ripigliò Ara
umilmente; - non darai tu l'aspettato guiderdone al poeta?
- Non qui; la luce del tempio non
dee rischiararmi la tua confusione. Son donna, - aggiunse ella con un fil d'ironia,
- e il vero mi potrebbe apparir troppo grave dal tuo aspetto mutato. Non mi dir
nulla; so già la risposta. - Così la sconosciuta, per troncar le parole al
giovane, che già stava per richiamarsi a lei dell'ingiusto sospetto. Indi, come
parlando a sé stessa, mormorò, per modo che egli potesse udirla:
- Infine, mi veda egli; è la Dea
che lo vuole. -
E dato un cenno alle ancelle, che
tosto riverenti si allontanarono, uscì con passo rapido e lieve sulla
gradinata, quasi sfiorando il suolo, mentre Ara le venia tutto sollecito al
fianco.
Discesi sulla spianata, e usciti
fuor della calca, ma non così prontamente come il re d'Armenia avrebbe voluto,
piegarono a destra, dove per tortuosi sentieri
si scendeva all'Eufrate. Egli ebbro di gioia; ella taciturna, lievemente
reggendosi sul braccio che il principe le aveva profferto, e tratto tratto
volgendosi a guardarlo in viso, per mezzo alla trama sottile del velo che
ancora la diniegava agli occhi innamorati del giovine.
- Ah! - sclamò ella, premendogli
il braccio, al primo svoltar della strada, che le consentiva di dare una
fuggevole occhiata dietro di sé.
- Che è ciò, mia divina? - le
chiese Ara turbato.
- Alcuno ci segue.
- Chi lo ardirebbe, dov'io sono?
E così dicendo, il re d'Armenia
si volse e si piantò fieramente in mezzo al sentiero.
Un uomo, ravvolto nel suo
mantello, scendeva per quella medesima via. Ma egli non parve darsi pensiero
dell'atto, e, giunto all'incontro d'una viottola poco lontano da essi, vi
s'inoltrò con passo sicuro, come chi non avesse a fare altro cammino fuor
quello.
- Tu lo vedi; egli non teneva
dietro a noi; - disse il principe alla sua compagna, ripigliando la via verso
il fiume.
Indi a poco, giungevano in vista
dell'Eufrate, ampia zona d'argento, scintillante sotto i loro occhi, ai raggi
del grand'astro notturno. Una barca era legata alla riva, e due donne, in cui
Ara fu pronto a raffigurare le ancelle della sua sconosciuta, andavano a quella
volta.
- Tu dunque mi lasci? - gridò
egli sgomentito; - ed io non avrò ottenuta la grazia tua!
- Perché dubiti? - chiese ella,
arrestandosi.
E mandando gli atti compagni alle
parole, sollevò il velo importuno, lo arrovesciò sulla testa, lasciando così il
viso scoperto al chiaror della luna.
Il re d'Armenia mise un grido
d'ammirazione. Giammai egli aveva veduto cosa più bella.
Aperto e sereno il volto,
delicatissimi e in un severi apparivano i lineamenti, a cui cresceva
incantesimo il morbido tondeggiar delle carni, splendenti dell'aureo colore di
frutto maturo. Ampia la fronte e nitida come l'avorio, incoronata di chiome
nere, ondate e lucenti, tra le cui copiose anella si nascondevano i capi d'una
trecciera di perle, che ne facevano vieppiù risaltare la lucentezza corvina.
Neri gli occhi del pari sfavillanti, a guisa di granati siriani, profondi come
il mare, e com'esso trasparenti, facili ad esprimere le interne commozioni, o
languidamente si celassero a mezzo, sotto il velo delle lunghe ciglia, o aperti
scintillassero d'amore, o raccolti lampeggiassero di corruccio. Tra due grandi
e sottili archi d'ebano si veniva leggiadramente incurvando la radice del naso,
snello e ben profilato infino alle nari, rosee ne' delicati contorni, come il
grembo delle conchiglie eritree. Le labbra di corallo acceso, tumidette e
madide di voluttà, pareano invitare ai baci, siccome le dischiuse corolle dei
fiori, imperlate di notturna rugiada, cercano desiose i primi raggi del sole;
ma il taglio austero di quelle labbra dinotava un'alterezza acconcia a temperar
gli ardori del sangue, a dissimulare, se non a padroneggiare, la impetuosità
degli affetti. Il superiore, un tal po' rilevato, così che breve spazio
intercedesse dalla bocca alle nari, giusta il tipo della gente semitica,
lasciava scorgere, ad ogni moto di quella vaghissima bocca, due file di candidi
denti, che facevano più grato il sorriso; il sorriso, che è il suggello della
bellezza, come lo sguardo è il raggio dell'anima. Tre cose belle al mondo: il
sorriso sul volto d'una donna; il sole nel cielo; l'amor nella vita.
Né era men bella la persona, che
già di per sé sola aveva potuto cotanto sull'animo del re d'Armenia. Invano il
candido pallio di bisso le si ravvolgeva dintorno, sopra la lunga stola
violacea, frangiata d'argento. Da que' veli trasparivano le elette forme d'una
Dea, che solo tra' Greci aveva a rinvenire uno scalpello degno d'effigiarla nel
marmo; e que' veli, lasciando indovinare i maestosi contorni di quella
sfolgorata bellezza, le conferivano quel non so che d'arcano, donde lo spirito
nostro attinge le sue voluttà più profonde. Il collo, che si mostrava ignudo,
dintornato da una filza d'amuleti, le braccia del pari scoverte, intorno a cui
si allacciavano i simbolici serpenti, disviatori dello influsso maligno, erano
miracoli di grazia, che avrebbero ingelosito Militta ne' cieli, e trattenuto
sulla terra, immemore dei gaudii superni, uno spirito immortale.
Così splendida di vezzi, cinta
del suo candido pallio, di cui la lieve brezza notturna agitava mollemente le
pieghe e i lembi disciolti, lumeggiata da quel mite chiaror di luna, che la
faceva parere quasi una vaporosa visione del sogno, eretta della persona,
atteggiata ad un placido riso che diceva tutto l'intimo compiacimento della
conscia bellezza, ella si stava immobile nel cospetto di Ara.
Commosso da quella vista, che di
tanto superava la sua medesima aspettazione, il re d'Armenia rimase alcuni
istanti muto, estatico, a contemplarla. E bevve in quegli istanti per gli
occhi, fino all'ultima goccia, l'amoroso veleno, che aveva a conquiderlo, a
farlo altro uomo da quello di prima.
Si sentì perduto, allora, tratto
fuori di sé, in balla di quella donna, per lei forse felice come un dio, o
disperato come l'ultimo dei viventi; né gli dolse di ciò. L'amore è un abisso,
di cui non si misura la profondità, se non quando s'è affacciati sull'orlo
periglioso. L'ignoto tira a sé; voci lusinghiere chiamano dal profondo, e in
così alto mare è dolce il naufragio.
- Lascia che io t'adori! - le
disse, cadendo a' suoi piedi.
Ella gli porse con grazioso atto
la mano, per rialzarlo da quella umil postura.
- No!- soggiunse egli. -
Adorarti! adorarti! Concedimi di rimanere a' tuoi piedi, siccome nel cospetto
d'un nume. Non sei tu stessa una dea? Militta ha assunte le tue forme, io lo
vedo, io lo sento, per farmi il più lieto, o il più triste degli uomini. -
Arcana virtù delle parole che
sgorgano dal cuore! Colpita da quell'accento di preghiera, soggiogata da
quell'aura misteriosa che sempre accompagna un amor vero e profondo, ella si
lasciò cadere, senza far motto, su d'un sedile di sasso; né ritrasse altrimenti
la morbida mano, che egli aveva stretta fra le sue, in quell'impeto di amorosa
follia.
Ella seduta, in atteggiamento
pensoso, turbata nell'intimo del cuore da un misto di nuove sensazioni; egli
inginocchiato a' suoi piedi, palpitante, cogli occhi fissi ne' suoi; rimasero a
lungo muti. Ma quante cose non disse quel loro silenzio!
Gli astri del firmamento
piovevano una tacita luce su quelle fronti leggiadre; la brezza notturna recava
loro le inebrianti fragranze del bosco, insieme col dolce mormorio dall'Eufrate
vicino; da un'agile barca, che veniva rasentando la sponda, giungevano al loro
orecchio i grati accordi di un'arpa e i suoni indistinti d'una cantilena, lenta
e malinconica come tutte le melodie della vecchia stirpe cussita. Il cielo, la
terra e l'onda, tutto era, intorno ad essi, un soave inno d'amore.
Ad ambedue grato il silenzio; e
la novità del caso loro lo faceva necessario del pari. L'uno all'altro
stranieri fino a quel giorno e a quell'ora, senza pure avvedersene, o
presentirlo, senza esservi tratti da quella ordinata progressione di piccoli
eventi che dissimula spesso, o fa parer meno singolare la prepotenza del
destino, s'erano essi incontrati a mala pena, e già sostavano l'uno a fianco
dell'altro. Occorreva loro anzitutto riaversi da quel subitaneo tumulto,
misurare la via in così breve spazio di tempo percorsa, raccapezzarsi infine,
leggersi scambievolmente nell'anima.
L'amore è cosa di tutti i tempi,
naturale portato di tutti i cuori; cionondimeno, chi ben guardi, è sempre
maraviglioso il suo nascere, siccome è miracolo la cosa più comune del mondo,
il nascere del fiore sul ramo, il suo svolgersi rapidamente in tenere
foglioline, il colorarsi dei petali, il vaporare ai primi raggi del sole in
soavi fragranze. Così il maraviglioso fior dell'amore era nato ad un tempo in
quei due cuori, improvviso, spontaneo, alla prima veduta; ed essi, respirandone
i primi effluvii, a vicenda confusi e rapiti, dimenticarono l'universo in
quell'ora.
Il re d'Armenia (meglio sarebbe dire
lo schiavo di quella ignota bellezza) fu il primo a rompere l'amoroso silenzio.
- Parlami, te ne prego! -
esclamò; - fammi udire il dolcissimo suono della tua voce.
- Che dirti! - chiese la
sconosciuta. - So io forse ciò che tu pensi ora di me?
- Ah sì! - ripigliò Ara sollecito. - Perdonami! Io
me ne stavo qui muto, ad assaporar la dolcezza della tua vista, non d'altro
curante che della mia felicità senza pari. Ma potrei io operare diverso? Che
dire, quando si contempla e si adora? Ho io mai provato ciò che oggi provo? Ho
io mai veduto figlia di donna, la cui beltà reggesse al paragone della tua?
Mai, lo giuro pei sacri platani di Van, donde a noi si rivela il consiglio dei
Numi, mai ho sentito così fiero, e in un così dolce tormento; né tra miei monti
natali, o nella istessa Annavir, famosa per le sue donne bellissime, ve n'ha
una che ti somigli da lungi.
- Sei tu d'Armenia? - chiese ella
con piglio curioso. - E il tuo nome....
- Ara; - rispose brevemente il
giovane; - e il tuo, mia divina? Non mi sarà egli dato di udirlo, soave al
certo come il suono della tua voce? -
Ma la sconosciuta non pose mente
alla dimanda, o non la udì; tutta la sua attenzione essendo rivolta a quel
nome.
- Ara! hai detto? Ara, figlio
d'Aràmo? Esso è nome di re; - soggiunse ella, veduto il cenno affermativo di
lui.
- Son io quel desso; - rispose
egli umilmente; - re del popolo aicàno, e tuo schiavo. Ma dimmi, o bellissima;
come ti è egli noto l'oscuro nome del figlio d'Aramo?
- E a chi, lungo le rive
dell'Eufrate e del Tigri, non è noto il nome del giovine re d'Armenia, del
vincitore di Masciag, dov'egli ottenne ad un punto la palma della vittoria e la
benda di perle? Non è ella forse una benda di perle che voi cingete in capo, o
figli di Aìco, quasi a testimonianza del vostro corso vittorioso dalle cime
dell'Ararat fino ai lidi eritrei?
- Tempi di gloria! - esclamò il
principe, con malinconico accento. - Ora i leoni di Cus regnano sulla vasta
pianura; le aquile aicàne si raccolsero crucciose sui greppi.
- Donde volarono spesso a settentrione,
per piombare sui mobili campi dei predatori Turani, o ad occidente, per
annientare la potenza dei figli di Canaan. -
Così parlava la sconosciuta, e le
sue parole eran balsamo al cuore del pronipote d'Aico.
- Grande è Babilonia, - proseguì
ella nobilmente, - e non invidia la gloria ai suoi amici della montagna. Aìco e
Nemrod si guerreggiarono aspramente; ma vivono in pace ed amistà i loro
discendenti. E tu, glorioso tra tutti i forti della tua stirpe, da quando
giungesti alle nostre mura ospitali? Ancora non hai veduta la regina? -
La fronte del giovane si
rannuvolò a quelle parole.
- Son giunto poc'anzi, - rispose,
- e la mia gente è qui presso, negli alloggiamenti a noi assegnati dalla
possente regina. Soltanto domani oltrepasserò il baluardo di Nivitti Bei, con
la pompa che s'addice ad un re.... ad un re tributario! - aggiunse egli, mal
reprimendo un sospiro. - Tu sei cortese, o mia divina; ma che giova il
nasconderlo? la gloria dei figli d'Alce s'è grandemente offuscata, ed io,
l'ultimo tra essi, reco a Babilonia il tributo dell'amicizia, come il minore al
maggiore. Felice, invero, dacché t'ho veduta e t'amo; più felice, se mi saprò
riamato da te; ma domani, pur troppo, io vedrò Semiramide.
- Pur troppo! e perché?
- Perché.... debbo dirtelo? Infine,
sì; non sei tu la signora del cuor mio, e non debbo io aprirtelo intiero?
Perché il mio pensiero rifugge da costei; perché, al solo profferire il suo
nome, sento nell'anima come un misto di terrore e di odio.
- Tu la conosci già?
- Non lei, la sua fama. Ella è
possente, ma crudele; grande il regno, ma feroci gli amori. -
Si riscosse a quelle parole la
sconosciuta, e un lampo di sdegno le balenò dagli occhi, promettitore di più
fiera risposta. Senonché, nell'atto di guardare il compagno così bello, così
candido nel sembiante, le venne meno il proposto; l'ira si spense e il pietoso
affetto prevalse. E allora, non senza un tal po' d'amarezza, ella prese in tal
guisa a rispondergli:
- La fama? E tu credi a questa
vile menzogna? Anzitutto, sai tu donde nasca? Non già dalla lode, così scarsa
pei vivi e restia; bensì dalla invidia, dal maltalento, a cui giova il
perfidiare, e dalla stoltezza, cui torna agevole il credere. Semiramide ha i
suoi nemici e non li cura; ma per fermo le dorrà di vederti fra costoro. In che
t'ha ella offeso, perché tu creda così ciecamente il peggio di lei?
- Tu l'ami, lo vedo; - le disse
il re d'Armenia, con malinconico accento; - ma io pure ho amato, e l'amico del
mio cuore non è più tra i viventi. Povero Sandi! Era egli il compagno della mia
fanciullezza, egli il mio fratello d'armi, di cacce e di giuochi, egli il
gentile poeta che mi allegrava lo spirito con le sue grate canzoni. Vaghezza di
gloria lo trasse pellegrino alle mura di Babilu. Chi non lo avrebbe amato,
vedendolo? E lo vide costei, il biondo garzone d'Armenia, che aveva cantata nei
suoi versi innamorati la bellissima rosa di Sennaar; lo vide e lo amò, per
ucciderlo. Così fu narrato in Armavir; una sera egli saliva chetamente ai
pensili orti della regina; all'alba vegnente, l'Eufrate accoglieva nei suoi
gorghi un cadavere.
- Ah, menzogna! - gridò ella,
balzando in piedi, con piglio iracondo. - E chi ha osato calunniarla in tal
guisa? Ella non vide il tuo Sandi, io te lo giuro pe' sommi Dei, che ci stanno
sul capo. Non dar vanto di regali amori, siano essi pure feroci, come tu pensi,
o re d'Armenia, a chi forse lasciò la vita in un laccio volgare.
- Perché ti sdegni? - le chiese
Ara turbato. - Amica della regina, sei troppo poco amica a chi t'ama. E sia
pure! L'oracolo di Peznuni me lo aveva pur detto, innanzi ch'io lasciassi
Armavir! «La terra di Sennaar ti sarà fatale!» Accusami alla regina; domani non
andrò al suo palazzo, sibbene alla morte. Non mi dorrà il morire, se dalle tue
labbra mi verrà la sentenza. -
L'accento appassionato commosse
la sconosciuta.
- T'inganni; - soggiunse ella, ad
un tratto mutata. - Troppo facile trascorsi allo sdegno; ma non temere! Chi
t'ha veduto una volta non può tradirti, per fermo. A te l'amicizia offuscò la
ragione; a me l'amicizia dettò le irose parole. Se tu conoscessi Semiramide, -
e qui la voce di lei assunse un tono d'infinita mestizia, - sventurata la
diresti, non rea. Nessuno amò la povera regina, nessuno! Ella è sola, si sente
sola nel suo vasto impero, come un'isola deserta sul mare. Chiede affetto (e
chi, tra i nati all'amore non lo chiede?) ma invano, gagliardo e sincero come
il suo. Ognuno in lei vede e desidera la regina; nessuno ha amata la donna. Tu
la vedrai, re d'Armenia; e se non somigli a quanti le stanno tementi dintorno,
se hai virtù di penetrare con lo sguardo oltre il fasto regale che la circonda,
vedrai dolore che non ha uguale in terra, e che mal si tenta di nascondere nel
profondo dell'anima; vedrai fastidio d'ogni grandezza, d'ogni vanità, d'ogni
ossequio bugiardo; vedrai desiderio infinito di verità, di schiettezza e di
fede. E allora... allora non crederai alla fama; allora, forse, tu amerai
quella donna. -
II giovane crollò mestamente il
capo, come chi, non potendo assentire, non ardisce far contro.
- Perché, - entrò egli a dire, -
ci diam noi pensiero di ciò? Tristi ricordi hanno fatto forza all'animo mio;
lasciamo ora in disparte ogni cosa che non sia l'amor nostro; te ne prego.
Parliamo di noi; parliamo di te, - aggiunse con voce carezzevole, - di te, che
sei tanto bella, anco negl'impeti dello sdegno. Celebrata è Semiramide nel
mondo per maravigliosa bellezza; ma ella, mentre tu l'ami e la difendi,
certamente invidia la tua. -
E rimase ad attendere una sua parola,
curvo in atto amoroso di fianco a lei, che s'era di bel nuovo seduta, modesto e
ardente ad un tempo, lo sguardo fisso in quei grand'occhi neri, che lo
guatavano tra curiosi ed incerti.
- M'ami tu molto? - gli chiese
ella cedendo ad un moto repentino dell'anima.
- Lo chiedi? - gridò egli,
nell'atto di afferrarle la destra e di stringerla al petto, come se volesse
farla consapevole degli ardori ond'era tutto compreso. - Odimi, o figlia di
Babilu, odimi, ignoto astro di luce! Nei miei monti natali, sono i costumi più
semplici e rozzi, ma forti. Si ama una volta sola, ma per tutta la vita.
Veloce, prepotente a guisa di fulmine, scende l'amore nel cuor nostro e lo
strugge; però sono una cosa sola il vedere e l'amare. Io ti ho veduta e ti amo;
non ti amavo io già, prima di vederti in viso, di udire il suono della tua
voce? E tu, dimmi, nel nostro incontro non vedi, non senti, alcun che di
fatale?
- Fatale, sì, tu l'hai detto,
fatale! - ripetè con vibrato accento la sconosciuta. - Così è bello, non
altramente, l'amore; così s'avrebbe mai sempre a volerlo: o incendio o nulla.
Amare è darsi intieramente, è confondersi, vivere in una due vite, se felici o
sventurate, non monta, ma gloriose, ma ardenti, fino al punto di consumarsi a
vicenda e morire, a guisa degli astri, in uno sprazzo di fuoco.
- Così t'amerò, - disse Ara; -
fosse pure la morte nei tuoi baci. Chi ama, ha vissuto.
- E dimmi.... - soggiunse ella
peritosa, fissando i suoi grandi occhi neri in quelli del giovane, - per questo
tuo medesimo affetto, non potrai tu farti più umano nel giudicar la regina?
- Che chiedi tu ora? - esclamò
egli turbato.
- Gli è un mio capriccio, -
rispose ella prontamente. - Donna amante non si reputi amata, se prima non
abbia messo il cuore dell'uomo alla prova.
- Ah! - proruppe Ara. -
Dubiteresti ancora di me?
- Non dubiti tu ancora delle mie
parole? - diss'ella di rimando. - Non dai tu orecchio, anzi che alla mia voce,
alle perfidie del volgo?
- No, t'inganni; io non dubito,
ma il mio cuore sanguina tuttavia; concedi al tempo di rimarginare la piaga. Tu
taci? O mia diletta, non t'offenda il diniego! Più tiepido amico, ti parrei
forse più fervido amante?
- Amore, dolore! -mormorò ella
tra sé, quasi rispondesse ad una voce segreta dell'anima. - E sia così, come
vuole la Dea!
- Rispondimi, te ne supplico; -
incalzò il re d'Armenia, cadendo in ginocchio e tendendo le palme verso di lei.
- Non mi lasciare in questa tormentosa incertezza, peggior d'ogni morte! Vedi,
non sempre si è padroni di sé: v'hanno cose da cui l'animo rifugge. Comanda che
io m'allontani; comanda che io ti dimentichi; potrà forse il mio cuore
obbedirti?
- Giuralo, dunque; - diss'ella
con piglio risoluto! - giura che mi ami, e che, qualunque cosa avvenga.... Bada
bene; qualunque cosa avvenga, - ripetè solennemente, - tu sarai mio, sempre
mio!
- Che vuoi nascondermi? - chiese
il giovane attonito. - Che vedi tu nel futuro?
- Tremi già? - soggiunse la sconosciuta.
- Oh, se tu credi che io
m'arresti per tema....- rispose egli sollecito; - ecco, io lo giuro; qualunque cosa
avvenga, sarò tuo, sempre tuo! -
Un divino sorriso irradiò il
volto della bellissima donna, che si fece allora a chiarirgli il suo pensiero
con più dolci parole.
- Tu domani, vedrai la regina, e
chi sa? forse in vederla, ti fuggirebbe dal cuore ogni affetto per me.
- Di ciò temevi! - gridò Ara, con
accento di amoroso rimprovero.
- Di ciò, d'altro ancora, di
tutto! - rispose ella trepidante.
- Oh, crudele! - ripigliò il
garzone innamorato. - Io giuro nel santo nome di Militta, che ti ha fatta
pietosa alle mie preghiere, giuro per la mia fede di re, che non s'è macchiata
di tradimento mai, giuro per la sacra memoria di Sandi, che fu sino ad oggi
l'unico affetto vero della mia vita, giuro di non amar che te sola, te sola e
sempre, checché mi serbi il dio delle sorti! Ti basta? Non accoglierai tu il
mio giuramento? -
E stette anelante, lo sguardo
fiso, in atto supplichevole, ad aspettar la sentenza dalle labbra di lei, che
rimase un tratto immobile e muta a contemplarlo.
- Acerba pena ti preparo forse, o
mio cuore! - mormorò ella, raccogliendosi sgomentita in sé stessa. - Ma sia!
non l'ho io chiesto poc'anzi a Zarpanit, d'essere amata per me, per me sola,
checché potesse accadermi? -
Il giovane era tuttavia ai suoi
piedi, spiando ogni suo moto, chiedendole mercè con la muta eloquenza degli
occhi. La luna, librata a mezzo il suo corso, accarezzava coi candidi raggi
quell'amoroso sembiante. Ed ella, impietosita, chinò il viso sul viso di lui,
lo trasse a sé, lo guardò ancora; un ricambio d'ansiose interrogazioni, di
fervide promesse, di soavi languori, parlò in quegli sguardi confusi; indi,
un'arcana virtù ravvicinò le labbra alle labbra, le strinse in un bacio, lungo,
intenso, come il desiderio che ardeva nei cuori.
- Ti credo; - ella disse quindi,
gettandogli al collo le braccia e nascondendo il bellissimo volto sul seno
palpitante del re; - ti credo e son tua. -
Così l'uno all'altro ristretti, a
guisa di due giovani fidanzati, ebbri d'amore, dimentichi d'ogni cosa creata,
ripigliarono leggieri la via del tempio, guardandosi in volto, bisbigliandosi
all'orecchio cento di quelle parole, soavemente vane, che l'aura stessa non può
udire, né l'eco ripetere, senza toglierne il pregio.
Si erano essi a mala pena partiti
di là, che una testa curiosa sbucò fuori da un vicino cespuglio. Indi,
raffidato dalla solitudine, un uomo ne uscì con tutta la persona, ravvolto in
un bruno mantello; strisciando a guisa di serpente, attraversò il sentiero, e
si cacciò da capo nell'ombra, in una macchia di lentischi, che risaliva lunghesso
l'erta del colle.
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