Siccome il vigile Thuravara aveva
riferito a Zarduste, la cavalcata degli Armeni, entrando dal baluardo di Nivitti
Bel, aveva già fornito buon tratto di strada per mezzo ai quartieri occidentali
della città, avviandosi al ponte, che ne congiungeva le membra vastissime,
attraversate dal fiume.
Ristorati da una notte di riposo,
astersi dal sudore e dalla polvere del lungo viaggio, coperti dei loro arnesi
più sfoggiati, i cavalieri del re d'Armenia, facevano vistosa mostra di sé ai
cittadini accalcati lunghesso le vie. Si notavano le sciolte criniere dei
cavalli sbuffanti, le lunghe spade pendenti dal fianco, le luccicanti faretre,
i lunghi archi ad armacollo e le mitre folte di negri peli che davano ai
montanari di Peznuni e di Armavir un così marziale aspetto, facendo così
spiccato contrasto con le gentili e quasi muliebri fogge del popolo babilonese.
Ma gli sguardi della moltitudine
erano in particolar modo attratti dalla nobil figura del re. Era costume dei
monarchi lo andare in cocchio, con l'auriga dai piedi e il portatore d'ombrello
da tergo. Il giovine Ara veniva in quella vece più modestamente a cavallo, ma con
assai più vantaggio per la sua grande bellezza. Calze di porpora si
aggiustavano alle gambe nervose ed eleganti; una tunica di bianca lana,
ricamata d'oro sui lembi, gli si stringeva ai fianchi; la clamide regia,
anch'essa di porpora, gli scendeva in molli pieghe dagli òmeri; la benda di
perle portata da' suoi maggiori, gli girava intorno ai biondi capegli. Il
piede, chiuso in un sandalo di morbido cuoio, posava su staffa d'oro; la
candida mano stringeva i capi delle redini gemmate, splendenti sul poderoso
collo del suo bianco palafreno, a cui una pelle di leopardo serviva di
gualdrappa.
«Ara il bello! Ara il bello! -
gridavano i cittadini di Babilonia, come già, vedendolo passare, avevano il
giorno addietro gridato i volghi suburbani. - Invero, egli non si è mai veduto
un più leggiadro garzone sulla terra di Sennaar. Come la regina nostra
risplende per sovrumana bellezza tra tutte le donne, così questo nobile
straniero tra gli uomini. Ara il bello, sii tu il benvenuto in mezzo al popolo
delle quattro favelle!» Così, per tutta la lunghezza del cammino che il re di
Armenia aveva a percorrere, il mormorio d'ammirazione destato dalla sua vista,
veniva a mano a mano rompendo in esclamazioni, in grida di esultanza, in
affettuosi saluti, come di popolo ossequente e devoto al suo re, anziché di
nazione avventurosa e superba al suo tributario. E tutti, come potevano, a
spingersi innanzi, e far ressa intorno al suo palafreno, che durava fatica ad
inoltrarsi, sebbene una fitta schiera di soldati babilonesi lo precedesse, per
isgomberare il passo al regale cortèo.
Nel cuore di Ara il bello tornava
a regnar la mestizia. Egli già sentiva la vicinanza di Semiramide; pochi
istanti ancora e si sarebbe trovato al cospetto della grande regina d'Assiria,
di colei che signoreggiava il più vasto impero del mondo. E l'immagine di
Sandi, del suo povero amico galleggiante sull'acque dell'Eufrate, gli stava
sempre nell'anima. Per discacciare quella crescente tristezza, egli pensava
allora alla notte vegliata nel sacro bosco di Militta; pensava alla sua
bellissima sconosciuta; pensava ai dolci colloquii, alle ineffabili ebbrezze
che ancora gli scaldavano il sangue. E quella donna adorata non aveva forse
giurato esser la regina innocente della morte di Sandi? Poteva egli mentire, quel
dolcissimo labbro? No certo, ed egli credeva alle parole di lei; ma, per
contro, poteva amar Semiramide chi l'avea tanto odiata fino a quell'ora? Poteva
andarne con allegrezza alla regina, chi ricordava d'esser sangue d'Aìco e non
sapeva dissimulare a sé stesso di venire in atto di tributario alla gente di
Accad? Poteva avvicinarsi desideroso alla donna, celebrata per insigne bellezza
nel mondo, chi aveva pur dianzi veduta ed amata la bellissima tra tutte?
Atossa, era il suo nome, il
soavissimo nome che la sconosciuta gli aveva susurrato all'orecchio. Altro non
aveva egli saputo dell'esser suo; ma bene aveva argomentato com'ella fosse una
tra le più riguardevoli donne di Babilonia. E non avrebbe egli dovuto vederla
tra breve, in mezzo alle nobili compagne della regina? A volte lo sperava, o
almeno gli pareva che ciò fosse probabile: ma un dubbio acerbo gli stringeva il
cuore e vi soffocava per entro quella lieta speranza. Una così maravigliosa
bellezza! Mai più Semiramide avrebbe patito la vicinanza e il paragone di così
splendida amica! Eppure, non gli aveva ella detto, a lui dolente di
abbandonarla sui primi albòri del giorno, non dubitasse, non temesse di nulla,
che presto ei l'avrebbe di bel nuovo veduta, ed ella medesima sarebbe stata la
prima a farglisi incontro? Così procedeva, tra speranza e timore; frattanto
veniva rispondendo con atti cortesi alle grida e ai saluti del popolo.
Indi a non molto, la cavalcata
giunse alla svolta del ponte, miracolo dell'arte babilonese, che collegava le
due sponde dell'Eufrate e i due palazzi regali, l'uno a riscontro dell'altro,
ambedue maravigliosi a vedersi. Il primo, che era posto sulla riva destra,
girava trenta stadii, rinfiancato di alte mura merlate, su cui si vedevano
impresse figure di combattenti, città assediate, e lunghe file di prigionieri
supplicanti. Di là dal ponte torreggiava la gran mole dell'altro, sopra un
terrapieno di sessanta stadii, a cui si giungeva per ampie salite laterali,
vigilate ad ogni ripiano da colossi di pietra. Aveva un giro di quaranta stadii
il secondo recinto, ornato di ogni specie d'animali, così diligentemente
condotti e coloriti, che pareano spiranti di vita. Nel terzo recinto, che era
la cittadella, si ammiravano rilievi e dipinti di più egregio lavoro; tra essi
una caccia, in cui le figure apparivano alte di quattro cubiti e più. Quivi era
effigiata Semiramide su d'un focoso destriero, nell'atto di scagliare il
giavellotto contro una pantera. Poco discosto da lei era Nino, il suo sposo,
che d'un colpo di lancia traffiggeva un leone.
Tutto ciò era stupendo a vedersi
da lontano; vera montagna di edifizi sovrapposti, selva intricata di strane
forme e di svariati colori; immani architravi e fregi e merlature correnti per
lunghissimo ordine su colonnati di palme; tori e leoni alati con faccia umana,
qua e là fieramente piantati a custodia degl'ingressi; lunghe aste variopinte,
dalle cui cime sventolavano stendardi e orifiamme di porpora; scale e
balaustrate di marmo; mura lucenti di smalto; varietà infinita di cose, che
confondevano lo sguardo, senza nuocere alla grandiosa unità del complesso! E
sui terrazzi più alti, l'occhio discerneva padiglioni e velarii, tesi a riparo
del sole, fra mezzo ad alberi verdeggianti, òasi sospese tra cielo e terra da
un capriccio di donna, da una fantasia di regina.
Come fu giunto il corteo
sull'altra riva del fiume, la scorta dei babilonesi si fermò e si aperse in due
ale, per cedere il passo agli Armeni. Il giovane re attraversò la spianata e
andò difilato verso l'ingresso della reggia, che gli era addimostrato da due
leoni colossali, l'uno a riscontro dell'altro, in atteggiamento di riposo.
Colà stavano ad attenderlo, per
fargli le prime accoglienze, i grandi della corte, il gran maggiordomo, il gran
coppiere, il capo degli eunuchi, il comandante delle guardie reali, con
numeroso seguito di ufficiali minori e di servi. Tranne questi ultimi, tutti
indossavano il candi, lunga tunica di lana scarlatta, con frangia d'oro sui
lembi, la quale risaliva sul dinanzi infino alla cintura, parimente d'oro,
donde pendeva la spada, con le insegne dell'ufficio di ciascheduno. Gli
appartenenti alla milizia, in cambio di mitra, portavano in capo una tiara
foggiata ad elmo chiuso, che copriva loro le guance ed il mento.
Il gran maggiordomo, facendosi
incontro al re d'Armenia, così parlò, levando in alto le mani:
- Ben giungi, o discendente
d'Aìco, alla reggia di Semiramide, nostra gloriosa signora, cui Belo ha
concesso la vittoria della spada e l'impero dello scettro sui potenti della
terra. In quella guisa che Sani regna nel cielo e diffonde per ogni dove i
benefizi della sua luce, così ella regna in Babilonia e sparge i tesori della
sua amicizia sui regnatori dei popoli che la circondano. -
Il re d'Armenia chinò leggermente
il capo, ma senza risponder nulla. Gli eunuchi, fattisi innanzi a lor volta,
pigliarono ossequiosamente le redini del suo cavallo, per condurlo entro il
primo recinto e su per l'ascesa che metteva al piano superiore. Così salendo in
compagnia degli ufficiali babilonesi, il giovine Ara poté, alla prima svolta
dell'ampio viale, scorgere dietro a sé la lunga fila de' suoi, e il popolo di
Babilonia accalcato sul ponte e sulle rive del fiume.
A quel grandioso spettacolo, un
altro ne seguì, quando egli fu giunto all'altezza del secondo ripiano, vasto
piazzale dintornato da nobili edifizi, ov'erano gli alloggiamenti di tutti i
grandi della corte. Colà stavano in bell'ordinanza schierati i guerrieri della
regina, splendidi a vedersi nelle loro corazze di lino, coi loro tondi scudi
imbracciati e gli elmetti di rame luccicanti al sole. Alla vista del re
d'Armenia squillarono le trombe, rimbombarono i timballi percossi, e il canto
guerresco degli Accad si levò fino al cielo.
La cavalcata proseguì fino al
secondo ingresso, vigilato da due enormi tori dall'aspetto umano. Cessarono i
canti ed i suoni ad un tratto, e sul limitare comparvero i sacerdoti de' sommi
iddii protettori di Babilonia. Alle vesti d'oro si conoscevano i sacerdoti di
Sam, il dio sole, a quelle d'argento i ministri di Sin, che è il dio luna.
Vestivano di nero i sacerdoti di Ninip, di aranciato i sacerdoti di Merodac, di
scarlatto i seguaci di Nergal, di bianco quei di Militta, d'azzurro i dedicati
al culto di Nebo. Di pietre preziose apparivano tempestate le tuniche e le
tiare dei venerandi; frangie d'oro ne ornavano gli orli, e ghiande di smeraldo
pendevano dai lembi.
- Gli Dei ti proteggano o re
d'Armenia; - gli disse il gran sacerdote, levando le mani in atto di benedirlo.
- Insegni a te la prosperità di questa reggia come soltanto dal patrocinio degli
Dei gli uomini derivino ogni loro fortuna. Soltanto mercè l'aiuto celeste i re
salgono in fama per le loro virtù, camminano nelle vie della giustizia e si
raffermano nella santità, che li fa degni, dopo morte, degli onori divini. -
Ara chinò gravemente il capo e
rispose:
- Tu parli il vero, o santissimo.
Un re a cui venga meno il soccorso celeste, vaga nelle tenebre a guisa di
cieco. Gli abitatori del firmamento azzurro, comunque nomati tra le genti
vostre e le mie, assistano sempre il popolo delle quattro favelle! -
Ciò detto, spinse il cavallo sul
limitare e, seguito dal venerando stuolo, penetrò nel terzo recinto, donde si
ascendeva all'ultima spianata della regia piramide, innanzi al palazzo della
grande signora di Babilonia.
Lassù lo aspettava una scena più
maravigliosa a gran pezza. Davanti a lui si stendeva una piattaforma, lunga
cinque stadii e larga per modo che dieci cavalli vi si potevano muover di
fronte, senza occuparne i margini di pietra, l'uno dei quali correva lunghesso
il parapetto, ornato a giuste distanze di figure simboliche, e l'altro
circondava, come una fascia di candido lino, il magnifico peristilio del
palazzo, formato da colonne di palma, che sorreggeano capitelli di granito,
stranamente foggiati a chimere, sirene, ed altre creazioni fantastiche. La
piattaforma era vuota, in attesa degli ospiti, che dovevano schierarvisi in
bella ordinanza; per contro, l'intercolonnio appariva folto di gente, tra cui
erano primi i trecento portatori di scettro, ministri dei regali voleri, splendidi
a vedersi per le lunghe vesti di porpora e d'oro e per le ricche tiare che
stringevano loro le chiome inanellate e lucenti. Infine, sul peristilio, per
quanto era lungo, si scorgeva un terrazzo, chiuso da una balaustrata di mattoni
dipinti a smalto, e sormontato nel mezzo da un padiglione, o velario, partito a
liste di varii colori; sotto il quale, circondata dalle sue ancelle, stavasi la
regina ad attender l'arrivo del suo tributario d'Armenia.
Il gran maggiordomo, che veniva
innanzi, tenendo per mano le redini del palafreno di Ara, annunziò al cavaliere
la presenza della regina. E il principe allora si fermò in mezzo alla
piattaforma; alzò gli occhi al terrazzo, mettendosi una mano sul petto; indi si
tolse la benda di perle dal capo, trasse la spada dal fodero, e depose queste
insegne del suo potere tra le mani del gran maggiordomo, il quale fu sollecito
a raccoglierle e sollevarle con palme tese verso la regina, che dall'alto
sorrise e con lo scettro accennò cortesemente di gradire l'omaggio.
A quel cenno squillarono da capo
le trombe e risuonarono i timballi percossi. Il re d'Armenia scese d'arcione,
per avviarsi all'ingresso; intanto i suoi cavalieri e le salmerie sfilavano
sulla piattaforma, sotto gli occhi della regina.
Portavano queste salmerie i donativi
del re alla grande signora di Babilonia; massi di rame naturale cavati nelle
montagne di Armenia; pezzi di lapislazzoli tratti di Atropatene, a levante del
lago di Van; tappeti di finissima lana intessuti a varii colori nelle lunghe
veglie invernali dalle donne di Peznuni; cavalli piccoli e forti, velocissimi
al corso, cresciuti nelle mandrie regali di Armavir. E in quella che il gran
tesoriere disaminava i ricchi presenti, e gli eunuchi aritmetici venivano con
canne temperate annotando ogni capo su rotoli di papiro, i servi della reggia
conducevano i seguaci del re d'Armenia alle stanze loro assegnate per alcune
ore di riposo, innanzi che facessero ritorno ai loro alloggiamenti fuori il
baluardo della città.
Guidato dal gran maggiordomo,
seguito dai sacerdoti e dai portatori di scettro, il giovine Ara entrò nel
vestibolo, dove gli fu data l'acqua ospitale alle mani, insieme con soavi
profumi e ristoro di grate bevande, che adolescenti biancovestiti versavano
dalle idrie capaci. Quindi ad un cenno recato dagli eunuchi, il re d'Armenia fu
introdotto nella sala di Nemrod, a cui si ascendeva per un'ampia gradinata, in
mezzo a due file di tori giganteschi, emblemi della possanza divina, le cui
vaste ali erano dipinte di azzurro, la tiara di rosso, le corna e l'ugne
dorate, laddove il volto, che figurava l'umano, aveva il color delle carni e
gli occhi apparivano di persona viva, attraverso la vitrea scorza di smalto.
La sala, detta di Nemrod dalle
imprese di quel re, che vi erano narrate in caratteri cuneiformi ed espresse in
bassorilievi lunghesso le pareti, era di sterminata grandezza. Le mura, qua e
là rinfiancate da enormi pilastri foggiati a colonne, misuravano ottanta cubiti
e più, dallo zoccolo di marmo colorato insino al fregio dell'architrave, donde si
partivano i correnti del sopracielo, condotto in legno di odoroso cipresso,
sfarzosamente dorato e aperto nel mezzo alla luce del giorno, che scendeva
temperata da un velario di porpora.
Tra le colonne messe ad oro, con
scanalature dipinte di rosso, erano vaste quadrature, ognuna delle quali divisa
orizzontalmente in due parti; la superiore rivestita di mattoni lucenti, i cui
rotti disegni concorrevano a formare in ogni intercolonnio l'imagine della
divinità suprema, ch'era un cerchio con entro una figura d'uomo alato, il quale
stringeva nella manca lo scettro e teneva la destra alzata nell'atto dello
insegnamento; l'inferiore, poi, coperta di tavole d'alabastro, raffermate al
muro da ramponi di rame, sulle quali erano scolpite scene di guerra e di caccia.
Vedevasi in una di queste il
fortissimo Nemrod, potente cacciatore nel cospetto di Ilu, correr sull'orma di
un leone, piagato dalle sue frecce. Su d'un'altra era incisa la torre delle
sette sfere celesti, lasciata a mezzo per la confusione delle lingue. Altrove
il gran re presiedeva alla fondazione di Erech; più oltre si vedeva nel suo
cocchio di guerra, con l'arco teso in pugno, nell'atto di scacciare Assur,
figlio di Sem, dalla terra di Sennaar.
Seguivano le imprese di altri re
della stirpe cussita, da Bel, figliuolo di Nemrod, infine allo sposo di
Semiramide, il felicissimo Nino, che si vedeva raffigurato in più tavole,
giusta il numero delle sue vittorie. In una di quelle sculture, il gran monarca
era effigiato sul suo trono d'argento, con la tiara ricinta dal regio diadema,
la veste bianca frangiata d'oro e due servi da tergo, l'uno de'quali in atto di
agitare il flagello, emblema del suo assoluto potere, l'altro con le armi del
re tra le mani, mentre davanti al trono passavano lunghe file di vinti, coi
polsi legati dietro le spalle. Più oltre si vedeva l'assedio d'una città
fluviatile. Gli assedianti spingevano torri di legno, cariche d'armati, contro
le mura, dall'alto delle quali il popolo assediato si difendeva gagliardamente
scagliando frecce e bitume infuocato. Da un altro lato della città, le donne
fuggivano su carri tirati da buoi, ed uomini paurosi si gittavano a nuoto,
aggrappandosi ad otri gonfiati, giusta il costume dei luoghi.
Di contro ad uno di questi scompartimenti
della sala, ergevasi il trono di Semiramide, alta e splendida mole d'argento e
d'oro, sormontata da un padiglione di bisso e sorretta da figure di popoli
vinti, alla quale si ascendeva per parecchi gradini, coperti da un sontuoso
tappeto. Il cerchio e la immagine alata, simbolo della divinità, splendevano
per aurei riflessi e per vivezza di smalto sopra lo scanno della regina; e
intorno a questo, distribuiti sui gradini del trono, stavano immobili ed
ossequiosi i flabelliferi, con alti ventagli di penne di pavone, i melofori,
con le armi in pugno, significanti la virtù guerriera di Semiramide, e i
portatori di scettro, interpetri e ministri de' suoi cenni regali. Seguivano le
nobili compagne della regina, sfoggiatamente vestite: indi tutti gli altri
uffiziali di corte digradanti via via, tanto erano essi numerosi, lungo le
pareti della sala. Tutt'intorno, poi, guerrieri sfavillanti nell'armi,
suonatrici d'arpa e di cetra, musicisti in buon numero, ancelle e schiavi,
diversi di nazione e di fogge.
Semiramide, bella come il sole
nascente, sfolgorava dall'alto. La copriva dalla radice del collo insino alle
piante una tunica di bisso, tinta in violetto di porpora marina e partita in
mezzo da una larga striscia bianca, intessuta di ricami d'oro e di gemme. Una
sopravveste, simile al peplo argivo, scendeva in molli pieghe dal colmo seno,
rattenuta da un'aurea cintura e coperta a mezzo da una gorgiera a sette filze
di pietre preziose, agate, onici, crisoliti, lapislazzoli, perle d'ambra,
ligurini e giacinti. Le bellissime braccia apparivano ignude infino al sommo
degli òmeri, e anelli gemmati ne facevano risaltare vieppiù la marmorea
bianchezza. Nella destra teneva lo scettro, insegna del comando; nella sinistra
il fiore del loto, emblema delle sue conquiste fin sulle rive dell'Indo.
Una gioia profonda e calma
traspariva dal volto della regina, il cui riposato atteggiarsi, lasciando i
soavi contorni in tutta la loro serena maestà, diceva l'onesto compiacimento
della bellezza, che è sicura di vincere dovunque ella si mostri. I suoi grandi
occhi neri, accortamente allungati, giusta il costume orientale, la mercè di
sottilissime linee, impresse con polvere stemperata d'antimonio, tramandavano
una luce intensa e penetrante, come di zaffiro incontro ai raggi del sole.
Per mezzo alla gran moltitudine
regnava un alto silenzio, che ben dimostrava la regia potenza di Semiramide,
più che non la raffigurassero agli occhi del re d'Armenia tutte le splendidezze
di quella sala, in cui mettea piede, guidato dal gran maggiordomo.
Poco prima di introdurlo alla
presenza del trono, questi aveva detto al giovine re:
- Sai tu, mio signore, qual sia
il nostro costume, nell'accostarci, umili o grandi, alla maestà regale?
- Io no; - aveva risposto Ara; -
e qual è il vostro costume?
- Prostrarci a terra e adorare. Sì, - ripigliava il
gran maggiordomo, notando un gesto di ripugnanza del principe, - la più bella
delle nostre leggi è questa, che ci comanda di onorare i re e di onorare in
essi l'immagine degli Dei conservatori d'ogni cosa creata. A te, mio signore,
omaggio in Armavir, come a Semiramide nella sua reggia di Bàbilu. -
Il re d'Armenia, bene intendendo
il senso riposto di quella distinzione del suo introduttore, non aveva più
fatto parola; e, lasciandolo inconsapevole de' suoi propositi, era entrato
nella sala di Nemrod, avviandosi con passo modesto, ma sicuro, in mezzo a
quelle due ale di cortigiani, che si prolungavano, lasciando vuoto un
grandissimo spazio, dai lati del trono all'ingresso.
Lungo era il cammino, sterminatamente
più lungo tra quella doppia fila di sguardi, che egli ben sapeva tutti rivolti
sul nuovo venuto. Ma Ara non sentiva turbamento di ciò; bensì gli cuoceva di
aversi a por ginocchioni, come ogni altr'uomo, davanti alla signora di
Babilonia; e veniva appunto maturando in cuor suo il proposito di ristringere
l'ossequio ad un cortese inchino, che egli del resto avrebbe fatto di gran
cuore alla donna. Foss'ella stata la sua divina amica! Come sarebbe caduto
volentieri ai piedi di lei! Altra maestà sopra la sua non conosceva il re
d'Armenia fuor quella.
Andando così verso il trono, avea
intravveduto, come in barlume, uno stuolo di donne, e il cuore gli aveva dato
un sobbalzo. Ah, foss'ella nel numero! E ciò pensando, s'era fatto in volto del
color della porpora. Intanto, un mormorìo di ammirazione, correndo
sommessamente tra la folla, salutava l'apparire di quel baldo garzone, la cui
bellezza accresceva decoro al grado, più assai che il grado non facesse
risaltar la bellezza.
Giunto egli finalmente a' piedi
del trono, si fermò, e, recatasi la destra al petto, chinò il capo davanti alla
regina, di cui non aveva pur contemplato il sembiante.
- Gran Semiramide, vivi in
perpetuo! - egli disse.
- E tu pure, nobil sangue d'Aìco;
- rispose una voce melodiosa dall'alto.
Tremò egli in udirla, e il
sangue, acceso ai memori suoni, gli scorse con impeto al cuore. Alzò gli occhi
a guardare e li abbassò prontamente, come abbacinato da una gran luce; indi gli
parve di aver male veduto e risollevò le pupille, ma per chinarle da capo. Fu
un batter d'occhio, fu un lampo; e in quel lampo si stemprò la nerezza del
giovine, che cadde allora sulle ginocchia, contro i gradini del trono.
Semiramide gli era venuta
incontro amorevole, e lo aveva preso per mano. Egli, a stento rimettendosi in
piedi, ma non riavutosi dal colpo, la guardava inebriato e confuso.
- Regina.... - balbettò egli, nel
rialzarsi da terra
- Atossa! - gli susurrò la regina
all'orecchio, con carezzevole accento.
E presa la benda di perle, che un
donzello recava insieme con lo scettro, sopra un ricco cuscino, la rimetteva
con le sue mani sul biondo capo di Ara.
- Sorgi, re d'Armenia! -
diss'ella con piglio maestoso. - Ecco il tuo scettro; impugnalo per la felicità
del tuo popolo, come hai impugnata la spada, per terrore de' tuoi nemici.
Figlio d'Aràmo, tu non sei tributario di Semiramide, ma alleato ed amico. -
Indi, volgendosi ai grandi della
sua corte e alla moltitudine congregata, proseguì con voce sonora:
- Il re d'Armenia è l'ospite
nostro. Amicizia eterna regna tra l'aquile della montagna e i leoni della
pianura. -
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