Il sole era già presso al
tramonto, allorquando la regina, in compagnia di Ara e dei grandi della sua
corte, si mosse dalla sala di Nemrod, per recarsi al convito, preparato in
onore del suo ospite d'Armenia.
Portava la costumanza babilonese
che i re siedessero a mensa in disparte, e i loro convitati più ragguardevoli o
ben voluti, a un'altra di rincontro, ma divisa della mensa regale la mercè
d'una fitta cortina, per modo che il monarca vedesse a sua posta i convitati,
ed eglino in quella vece non potessero bearsi nelle regie sembianze. Per altro,
ne' giorni di corte bandita, la mensa era una sola e vastissima, alla quale il
re famigliarmente sedeva e faceva mostra di sé, non distinto dagli altri
commensali, fuorché per lo scanno d'oro, pel suo vino e per la sua acqua, di
cui a nessuno era concesso bere, senza suo comando, che era grazia profumata e
segno d'alta onoranza. Inoltre, nelle grandi solennità, che ricorrevano di rado,
si facevano pubbliche feste; e allora le mense regali si tenevano all'aperto,
sedendo il re alla più elevata di tutte, insieme coi grandi del suo regno.
Un pasto solo si faceva, e
lunghissimo, protratto fino a tarda ora, dopo finite le molteplici cure del
giorno. Gran copia di vivande si consumava per l'uso della corte, squartandosi
fino a mille capi per dì, tra buoi, cavalli, onagri, camelli, montoni e
capretti. La selvaggina e il pesce erano pure in buon dato; e tutto ciò
s'imbandiva da prima alle tavole dei grandi; indi passava a quelle dei minori
ufficiali, tornando i copiosi rilievi alle cucine, dove si satollavano i servi
e i soldati di palazzo.
Davasi nelle mense il vino
spremuto dalla palma e dal melagrano, non essendo a quei tempi nella terra di
Sennaar coltivata a tal uso la vite, che prosperava più presso al mare nella
regione di Janaan. Il pane facevasi allora comunemente con la farina di dura,
che è il sorgo; quella di frumento traendosi, con grave dispendio e a mostra di
regio fasto, dalle lontane pianure di Mesraim, fecondate dal Nilo. I pubblici
banchetti erano rischiarati con luce di nafta ardente in acconci vasi,
collocati a giuste distanze su tripodi e candelabri di bronzo. A più ristrette
brigate dava luce gratissima l'olio di sesamo, di cui erano imbevuti lucignoli
di bisso, sporgenti da lampade di rame, o d'argilla rossa, leggiadramente
fregiate di nero, a meandri, ghirlande, disegni capricciosi e figure
fantastiche.
Quel giorno, essendo il convito in
onore del re d'Armenia, le mense erano poste nel cortile degli orti pensili,
vastissima sala, aperta su tre lati e sorretta da colonne addoppiate di marmo.
Veli bianchi e violetti, appesi con anelli d'argento a funi di bisso e di
scarlatto, si stendevano tra le colonne, dolcemente gonfiandosi alla brezza
leggiera e profumata, che veniva attraverso una siepe di gelsomini e di cedri.
Tutto intorno erano disposte le
tavole di legno odoroso, coperte di candide tovaglie listate di porpora. In
fondo alla sala vedevasi la mensa più elevata e più adorna, con l'aureo scanno
della regina a capo, e letti d'argento in giro, sopra un pavimento foggiato a
disegno con tesselli di porfido e di marmo bianco, di granito e di mischio.
Splendeva sul bianco drappo il vasellame d'oro, gloria del paese d'Ofir, donde
allora traevasi il prezioso metallo; e da alti vasi di porcellana, smaltata a
vivi colori, si levavano a mazzo, s'inchinavano ad ombrello, i fiori più
svariati e più rari: la ninfea dai bianchi petali schiusi; il nepento, da cui
si stilla il farmaco per cacciar la tristezza; il giglio, onore delle convalli;
la rosa, il gelsomino e la madrangola, che spandono le più soavi fragranze.
Coppe d'argento, egregio lavoro
dell'arte babilonese, guastade di vetro, che mandava ai regnatori di Sennaar la
pur mo' nata industria di Tiro, stavano davanti ai convitati, insieme con
piattellini d'argilla colorata e lucente, con spatole d'avorio, dal manico di
metallo, che servivano per accostare i cibi alla bocca, e coltelli di selce, finamente
arrotati, per tagliar le vivande. E mentre i coppieri dalle idrie capaci
mescevano il vino dolcissimo della palma, e l'acqua fresca dalle anfore di
creta, internamente strofinate con mandorle amare a fine di renderne più grato
il sapore, gli eunuchi venivano in lunga fila dalle cucine, recando su piatti
di bronzo grossi quarti di bue, di onagro e di capretto, che poscia gli scalchi
facevano destramente a spicchi, per imbandirli alla nobile comitiva.
Erano inoltre portati sul desco,
fagiani piumati, pernici, ova di struzzo, pesci enormi dell'Eufrate e del
Tigri, olive, porri e cipolle di Mestraim. Andavano da ultimo in giro i bossoli
di cedro, leggiadramente intagliati, che serbavano i condimenti e le salse;
grani d'amòmo, che danno odor così vivo; di aneto, che stimola le forze inerti
o languenti; di comino etiopico, che rende più facile il bere; di silfio
cirenaico, il cui succo spremuto è la più gradevole, ma altresì la più
dispendiosa lautezza del mondo.
Ad ogni nuova imbandigione si
udivano concerti di arpe, di cetre, e di flauti, che accarezzavano mollemente
l'orecchio. I musicisti non erano già nella sala del convito, bensì tra le
piante dell'attiguo giardino; donde avveniva che i suoni, più rimessi e più
blandi, come di musica lontana, non soverchiassero i lieti ragionari, che fanno
più grato il piacer della mensa. Luce, abbondanza di cibi eletti, splendori
dell'arte, fragranze ed armonie, formavano un misto di gaudii ineffabili, una
vera festa, un tripudio dei sensi.
Il re d'Armenia, attonito, quasi
smemorato per maraviglia di tante grandezze che lo attorniavano, confuso da
tanta novità di casi che lo avean sopraffatto in un giorno, più ancora
inebbriato dalle acri sensazioni d'un amore che così apertamente dimostrava la
irresistibile potenza dei fati, sedeva alla destra di Semiramide. Di rincontro
a lui il saccanàco, o gran sacerdote, vicario degli Dei di Babilonia; più in là
il principe dei Medi, l'onniveggente Zerduste; indi, seduti in ordine, secondo
l'altezza del grado, i primarii uffiziali del regno.
Lontano era Ninia; ma il regio
adolescente non era uso assidersi alla mensa materna, né partecipare alle
solennità della corte. La maestà del dispotismo orientale non consentiva
divisioni d'impero, o di gloria: soltanto il re, il malca divino, doveva stare
al cospetto de' suoi grandi, servitori tutti, ossequenti e paurosi, né
altrimenti sceverati dal volgo, se non pel regio favore, mutevole a guisa di
vento; né altri del suo sangue poteva, lui vivo e regnante, emergere dall'ombra
discreta del ginecèo per offrirsi alla vista e all'adorazione de' sudditi.
Oltre di che, il giovinetto non
era egli felice in quell'ora, fuori le porte di Babilonia, al fianco della sua
diletta Analti? I due colombi gemevano sommessamente il loro cantico de'
cantici in riva all'Eufrate, sotto i palmeti di Gomer. Così aveva consentito
Zerduste, l'affettuoso maestro.
Il principe dalla mente profonda
e dallo sguardo acuto, sedeva calmo, tranquillo, impassibile, alla mensa di
Semiramide. Aveva egli amata mai la regina? Ciò, pel volgo dei riguardanti, era
chiuso nel più alto segreto. L'amava egli ancora? Non ne traspariva nulla da
quell'aspetto marmoreo. Semiramide istessa, così avvezza a scernere l'amore
negli ossequii ond'era attorniata, Semiramide istessa, se avesse potuto in quell'ora
rammentarsi d'alcuna cosa che non fosse il suo ospite, e volgersi a scrutare
quel muto sembiante, a interrogare il lume di quegli occhi raccolti, non
avrebbe potuto per fermo ravvisarvi i segni dell'antica fiamma. Amore che non
si gradisce, poco si vede e facilmente s'obblia; inoltre, il sentir di Zerduste
era d'uomo altero, misurato negli atti, geloso custode di sé; non altro poteva
egli vedersi del cuor suo, se non quel tanto ch'egli volesse mostrarne.
Covava egli vendetta? O rodeva,
impaziente e cruccioso, il freno della servitù del suo popolo? Mare profondo
cela nel grembo oscuro il segreto delle sue collere e limpido azzurreggia il
suo dorso, poco prima di sollevarsi in legioni di flutti e di scagliarsi
impetuoso alla riva. Tale era Zerduste, riverito abitatore della reggia di
Babilonia, maestro di saviezza al futuro erede dello scettro di Nemrod, e
ammesso ai consigli della gran vedova di Nino. E Ilu, e Nebo, e tutta la
schiera dei sommi Dei, comportavano ciò? Ahimè, forse neppure vi ponevano
mente; quelle vivide luci fiammeggianti dalla vòlta celeste, vigili in
apparenza, non si prendevano cura delle cose mortali. E i Casdim, sapienti
indagatori del corso degli astri, niente leggevano per entro agli arcani
dell'anime. Eglino, o forse non ancora ordinati a sospettoso collegio
d'ambizione sacerdotale, o forse più intenti a temperare l'onnipotenza del re,
che non a sgominarne i nemici, non pigliavano ombra di quel taciturno, entrato
così innanzi nella confidenza della reggia.
E sedeva egli a mensa, sorridendo
e favellando dimesticamente coi vicini, a cui il bere snodava la lingua e
annebbiava l'intelletto. Ma così ascoso in quella confusione di allegrezze, in
quel deliziarsi dei sensi, lo spirito suo aleggiava non visto, invigilava le
parole, gli atti e gli sguardi. E certo in cuor suo non doveva esser lieto;
imperocché l'amore è possente come la morte e la gelosia aspra più dello
inferno.
Frattanto, il re d'Armenia era
parco di parole oltre l'usato, che l'interno tumulto degli affetti non gli consentiva
d'esser loquace. Molto, per contro, dicevano gli occhi, donde traluceva la
profonda voluttà, bevuta a lunghi sorsi dal viso dell'amata. E gli occhi di
Semiramide erano spesso rivolti su lui, in ciò accordandosi la prepotenza del
desiderio, al debito delle cortesie ospitali. In quegli sguardi erano lampi,
raggi di vivissima luce, che lui felice investivano e gl'infiammavano il
sangue. Dov'eri tu, in quell'ora, o Sandi, o rimpianto amico della sua
giovinezza? Dove eravate voi, severi ammonimenti dell'oracolo, parlante dai
sacri platani di Peznuni?
Così è l'amore; inebbriante più
del vino generoso, datore d'obblio più che non fossero le favoleggiate acque di
Lete. E infine, non è egli ragionevole che ciò sia? Non viviamo noi forse per
l'amore, per questo dolcissimo tra tutti i sentimenti, per questa parte
veramente divina di noi? Ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, non si
riferiscono forse a questo argomento della nostra operosità, a questa cagione
dei nostri errori, a questa meta fatale del nostro viaggio? Come l'ape lavora
istintivamente a riempire il suo favo di miele, non ci affatichiamo noi con
assidua cura a comporre questo splendido inno, unica glorificazione che ci sia
consentita, alla virtù ignota e possente che compenetra il mondo? È un sorriso
di donna (adorabile sorriso, sebben misto di lagrime) quello che ci saluta in
sul nascere, ed è un sorriso di donna quello che può farci men triste il
morire. Guai a chi è solo! ha detto il savio; ma che significa ciò? gli
arridano pure amici e ricchezze, l'uomo è nulla, senza l'amore; son tenebre ed
ombra di morte, ove raggio d'amore non splende. L'inferno, spaventosa visione
dell'uomo che primo tremò, al prolungarsi soverchio d'una notte jemale, non
avesse a ricomparir più il sole nel firmamento, l'inferno è luogo muto d'ogni
luce e d'ogni calore ai viventi; ora, calore è affetto, e luce è bellezza. Date
all'uomo la sua dolce compagna, ed egli n'avrà lume
d'ispirazione, ardore di grate fatiche. L'antichissimo fondatore dei civili
consorzii non fu del tutto infelice, poté consolarsi del suo gramo destino, se
donna innamorata lo seguì, portando volenterosa con lui il peso della
maledizione celeste.
Ed essa, la dolce compagna, senza
di lui, che sarebbe? In lui si compie il suo destino; in lui è il sostegno e la
guida; egli il fiore ed ella il profumo; l'uno all'altro necessarii a vicenda.
Date l'uno nelle braccia dell'altro, e il mondo è in essi; rinascerebbe, se più
non fosse, in quelle due vite confuse. E il passato, e il presente, e il
futuro, memorie, gioie, speranze, tutto eglino sono a sé stessi; donde appar
manifesto che possano viver da soli, senz'altra compagnia di viventi. E che
questa sia lieta esistenza, un grande amore alcuna volta il dimostra. Un grande
amore; ecco il divino tra tutti i misteri, altare e tempio a sé stesso!
L'universo è contorno necessario e fatale, soventi volte giudice iroso, sempre
testimonio increscevole. Che farci? Si vive, obliandolo; si comporta qual è;
gli si perdonano le molestie che arreca, ma a patto di non mescolarsi a lui, di
non seguirlo ne' suoi indirizzi volgari, di non vivere della sua vita. L'aura,
pregna di soavi fragranze, rapite ai boschi natali, passa rasente alle case
degli uomini e segue noncurante il suo corso. I tristi vapori dell'abitato ne
turbano la delicata essenza, pur troppo; ma lontano di là, sotto la luce
purissima del sole, per mezzo ai rami della selva vicina, la gentil vagabonda
si rinfranca, si rinnovella e dimentica.
La natura offre talvolta di
simiglianti magnificenze, a far prova del suo sterminato potere. L'aquila nei
cieli, il leone nel deserto, il baobab nella selva, sono le sue maraviglie.
Ella ha innalzato rupi, che cacciano la vetta infin tra le nuvole, argomento di
pauroso stupore ai riguardanti; ella ha prodotto fiori di così acute fragranze,
che l'uomo non può respirarle senza pericolo. Ella di tanto in tanto dà vita a
que' forti intelletti, che grandeggiano per mezzo alla universale pochezza e
governano e mutano a lor posta gli eventi; ella accende quelle gagliarde
passioni che splendono, fari solitarii ed eccelsi, nella penombra degli affetti
volgari. Bellezza e gioventù, forza e intelligenza, si vanno incontro desiose,
si abbracciano, si confondono; e son prodigiose le nozze, come di giganti
innanzi ad un popolo di pigmei. Invero, che sono quelle migliaia di amori
fuggevoli, esangui, mal vivi, al paragone di queste gagliarde, intense e
luminose passioni? Gran mercè se alla picciolezza infinita delle umane cose è
dato di essere pavimento umilissimo all'ara, su cui si sposano queste superbe
inconsapevoli fiamme. Così il genio di Omero vide il monte Ida, recinto di nubi
gelose, esser talamo agli amori di Giunone e di Giove, mentre laggiù, sulle
rive dello Scamandro, si azzuffavano due popoli, sperando testimoni alle lor
collere i Numi. Quest'alta dimenticanza è la misura di cosiffatti amori
possenti, superiori di tanto alle meschine consuetudini umane.
Così, in mezzo all'esultanza del
convito, la regina e il suo ospite, l'uno nell'altro felici, avevano
dimenticato ogni cosa. Ara pensava che ella era innocente e calunniata, quella
bellissima tra le donne, quella potentissima tra le regine. La vicinanza di lei
cancellava dalla sua mente gli infausti presagi dell'oracolo. Unico dolore il
pensiero di dover tornare, indi a non molto, in Armenia, alla sua reggia
d'Armavir, ora più triste e desolata di prima. Ed anche questo pensiero egli lo
aveva cacciato lontano da sé. Il destino, che lo aveva gettato inconsapevole
nelle braccia di Semiramide, non avrebb'egli operato un altro dei suoi alti prodigi?
Ed ella, frattanto, pensava che
il suo trono era così grande, da potervi accogliere l'eletto del suo cuore;
così splendido, da non dovervi accogliere che lui, il più leggiadro degli
uomini. Non erano essi fatti l'uno per l'altro? E la natura, creandoli, non
aveva per l'appunto mirato a tal fine? Così nella mente di quella donna
innamorata, il mondo, Babilonia, la reggia, altro non erano che un'immensa
piramide, innalzata da Nisroc, dal signore delle sorti, per collocarvi il loro
amore, intenso, sfolgorante, glorioso sul vertice.
E gli occhi suoi dicevano tutto
ciò all'inebbriato garzone.
Intanto erano levate le mense, e,
pel cader delle ombre notturne, tolti dal colonnato i velarii, che facevano
impedimento alla brezza ristoratrice. Misteriose luci splendevano in mezzo alle
piante del giardino; in alto, disseminate per la vòlta di zaffiro,
scintillavano le stelle.
- Sien grazie agli Dei! - disse
il saccanàco, levando al cielo le mani. - Da essi ci viene ogni cosa. Il mondo
s'inchina obbediente a Babilu, che li onora e li venera.
- Ed ora, - parlò la regina, -
mentre Sin, co' suoi miti chiarori illumina il mondo e così dolce è il riposo
allo spirar della brezza notturna, si rechino a noi gli annali di Babilu. Il
nostro gentile ospite d'Armenia conoscerà da essi la nobiltà dell'amica gente
degli Accad. -
A quelle parole di Semiramide, il
gran maggiordomo si alzò per andare all'ingresso, dove, ad un suo cenno,
comparve sollecito lo scriba, della setta dei Casdim, al quale era dato in
custodia l'archivio delle memorie babilonesi.
Venuto innanzi alla regina, lo
scriba si prostrò fino a toccar colla fronte il suolo.
- Gran Semiramide, - diss'egli
poscia, levando le mani verso di lei, - possa tu vivere in perpetuo!
- Sorgi, - disse a lui di rimando
la regina, - e mostraci la successione dei sari e dei sosi, al giorno che Bel,
il gran dio creatore, balzò fuori dal tempo senza limiti, infino a questo dì
fortunato.
- Ciò che tu chiedi sarà fatto; -
rispose alzandosi da terra lo scriba. - Gli Accad hanno diligentemente notato
ciò che ad essi tramandarono i padri loro. I moti degli astri, le apparizioni
degli Dei e le glorie dei re, tutto è vergato nelle foglie di papiro, la mercè
dei sacri caratteri, che Oanne ha insegnati agli abitatori di Sennaar. -
Un alto silenzio si fece allora
nella sala del convito. Lo scriba si assise su d'uno scanno, davanti alla regia
comitiva, e, recatesi tra mani un volume di papiro, ne ruppe il suggello di
creta; indi, svolgendo le pagine, così prese a leggere, in mezzo all'attenzione
universale, gli antichi ricordi della stirpe di Accad.
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