«Nel principio, tutto era tenebre
ed acqua, per entro a cui si movevano confusi gli elementi di ogni cosa che è. Forme
strane di viventi erano allora; mostri con due facce e quattro ali, o con due
teste e corna e pie' di caprone, o di cervo, centauri, sirene, tori
dall'aspetto umano e cani che finivano in coda di pesce, insieme con molte
altre specie di rettili e serpenti di smisurata lunghezza. In questa confusione
di tutte cose, regnava silenziosa la gran madre Omoròca, detta anche Talatta,
nel sacro idioma dei Gasdim.
«E allora comparve Bel, il dio
della luce e dell'aria. Venne egli con le sue innumerevoli schiere di Baalim, e
d'un colpo della sua spada fiammeggiante, divise Omoròca in due parti. Così
furono il cielo e la terra.
«Ora avvenne che quell'immondo
brulicame di mostri non poté sostenere la gran luce del Dio, e giacquero
spenti. E Bel ferì il suo collo, e ne piovvero rivi di sangue. I Baalim,
seguendo l'esempio, vi mescolarono il loro e ne nacquero gli uomini, per tal
guisa ragionevoli e partecipi dell'intelletto divino.
«Allora fu il tempo. E, avendo
Bel creato le stelle, il sole, la luna e i cinque pianeti, incominciò l'età
prima, per la terra di Sennaar. Dieci re vi regnarono, da Ailuro infino a
Chisutro, e fu questo tempo di centoventi sari, ognuno dei quali novera tremila
e seicento rivoluzioni del sole.
«Ad Ailuro, che fu il primo re,
succedettero Alapùr ed Amelon; a questi, Amènnone, il prediletto dei cieli.
Imperocché, essendo egli sulla riva del mare, vide emergere dai flutti Oanne,
il dio marino, il gran pesce, che ha voce ed aspetto umano. Questi non prendeva
cibo, siccome è costume degli uomini; appariva ogni mattina alla spiaggia, e
ogni sera s'inabissava nei gorghi. Fu egli che insegnò ad Amènnone l'uso delle
lettere sacre e l'arti che fanno felici gli uomini, il seminare, il
raccogliere, il radunarsi a civile consorzio, murare città, edificar templi e
far sacrifizi agli Dei.
«Prima di quel tempo, gli uomini
non avevano leggi, né riti. Viveano essi sotto le tende, o vagavano per la
pianura a guisa di fiere; ammiravano le pietre e temevano il fulmine, che si
sprigiona dalle nubi. Ma dopo gl'insegnamenti di Oanne, conobbero gli Dei ed
offersero loro i frutti della terra. Così nacque il culto di Oa, il nume emerso
dai flutti, il re del mondo inferiore; di Bel, il risplendente, il demiurgo,
l'ordinatore di Omoròca; di Ilu, il signore delle acque, e così di tutte le
altre personificazioni della potenza suprema, infìno a dodici, aventi in sé
doppia forma, virile e femminea.
«Morto il savio Amènnone, gli
succedette Magalur, e a questi poscia Davon, durante il cui regno apparvero gli
altri quattro legislatori uomini pesci, e seguitarono la santa opera di Oanne,
insegnando alle genti. Al re Davon tenne dietro Eduruc, nel cui tempo apparve
il pesce Dagone; indi regnarono Amenfìno, Ossiarte e Chisutro.
«Costoro erano giganti e vivevano
oltre la misura assegnata poscia ai mortali. L'ultimo di essi, Chisutro, regnò
diciotto sari innanzi al giorno del diluvio, ossia sessantaquattro mila
ottocento rivoluzioni del sole. Fu egli uomo pio, dotto delle antiche memorie,
a lui lasciate da' suoi maggiori, le quali fe' incidere su tavole di pietra,
insieme con la legge sacra dei cinque comandamenti.
«Ma, come egli era pio e temente
della giustizia celeste, così non erano gli altri uomini, la cui malvagità si
stendeva sulla terra, spregiandosi comunemente la legge e corrompendosi ogni
pensiero. Da lunga pezza i savii, raccolti nella contemplazione degli astri,
profetavano la fine del mondo; ma gli uomini, induriti nelle perverse
consuetudini, avevano in dispregio i certi segni del cielo.
«Allora il pesce dio apparve
dall'onde a Chisutro; imperocché questi aveva trovato grazia appo i celesti, e
gli annunziò l'imminente diluvio, che avrebbe travolto e distrutto ogni
creatura vivente. Intendesse egli a costrurre una nave ed entrasse in quella,
co' figli del suo sangue e i familiari suoi, preparandosi a navigare, dappoiché
l'ultima ora pei malvagi era giunta.
«- E dove volgerò io il corso? -
aveva chiesto Chisutro.
«- Verso gli Dei! - rispose
Oanne. - In essi soltanto è il porto di salvezza. Sta di buon animo, o
Chisutro! Le tavole della legge sacra e le antiche memorie de' padri tuoi
seppellisci sotto la pietra angolare di Sippara; sia la tua nave così vasta da
poter contenere ogni sorta di cibi, semi della terra ed animali utili al
servizio dell'uomo; spalmala di bitume entro e fuori, così che essa resista
all'imperversare delle acque, e, tosto che avrai finito l'opera tua, chiuditi
in quell'arca sicura, insieme co' tuoi, perocché in quel punto si squarcieranno
gli abissi e comincierà la rovina dei flutti.
«Obbedì ai comandamenti Chisutro;
e tosto, con l'aiuto d'un sapiente architetto, che il pesce dio gli aveva
indicato, attese alla costruzione della nave. E questa fu la misura della gran
mole: cinque stadii pel lungo e due di larghezza. Ivi entrò Chisutro, insieme
con la moglie, i figli suoi, le mogli e i figli di ciascheduno, che moltissimi
furono. E dentro la nave erano cibi in abbondanza, sementi d'ogni pianta e una
coppia d'ogni specie animali, lasciando fuori tutti quelli che nascono dal
putridume e dai vapori della terra, imperocché lo spirito di questi non è
emanato dal sangue degli Dei.
«Intanto gli abitatori del mondo
perduravano nella empietà e spregiavano Chisutro, che in sì gran mole erasi
messo a riparo. Ma posciaché egli fu nella nave, con tutti i nati e familiari
suoi, il cielo incontanente oscurò, cadde la pioggia e il mare staripò con
furia; Ilu, il signore dell'acque, sconvolgeva gli abissi. La nave allora fu
sollevata sui flutti, e un pesce di smisurata grandezza venne a collocarsi
davanti la prora, guidando il legno per mezzo a quella rovina di elementi
scatenati. Era egli Oanne medesimo; e Chisutro ben vide che la mano d'un dio li
proteggeva, imperocché il furore della tempesta e la violenza dei flutti niente
potevano contro di loro.
«Lunghi giorni durò la collera
d'Ilu, per modo che tutti i monti più alti ne furono coperti, ed ogni carne che
si muove sulla terra, perì. E come furono le eccelse cime così soverchiate,
incominciò il gran mare a chetarsi, il cielo si rattenne dal piovere, e le
acque andarono a grado a grado scemando. Raffidato da quell'alto silenzio,
Chisutro mandò fuori dal tetto della nave una coppia di uccelli, per sincerarsi
se la terra fosse in alcun luogo scoverta; ma gli uccelli, non avendo trovato
cibo, né luogo ove posarsi, tornarono a lui. Ed egli, dopo alquanti giorni,
mandonne altri, i quali tornarono con le zampe imbrattate di fango. Altri
finalmente ne mise fuori, i quali non tornarono più; sola, tra questi, una
colomba venne alla nave, recando nel becco un ramoscello d'olivo. Donde egli conobbe
che la terra rinasceva dall'acque; e allora, scoperchiata la nave, vide esser
questa posata su d'una vetta dell'Ararat.
«Il gran pesce era sparito; ma il
sole splendeva nel firmamento, e di rincontro al sole si dipingeva nell'aria la
luminosa striscia dell'arcobaleno. Smontò egli tosto, insieme con la moglie,
una figliuola sua e il sapiente architetto. E scesi che furono dalla nave,
s'inginocchiarono, per baciare la terra; indi, alzato un altare di pietra,
adorarono gli Dei. Che avvenne egli poscia di loro? I rimasti nella nave, non
vedendoli più ritornare, scesero alla lor volta; né altrimenti li ritrovarono,
sebbene con alte grida andassero chiamandoli in giro. Bensì videro la nuvola
con l'arcobaleno impressovi su, e dalla nuvola udirono la voce di Chisutro, che
sé, la moglie, la figliuola e l'architetto, come primi discesi sulla terra,
annunziava rapiti in grato olocausto agli Dei; andassero i figli in pace e
ripopolassero il mondo: scendessero nel paese di Sennaar, scavassero nelle
fondamenta di Sippara, per ritrarne le tavole della legge sacra e i ricordi
delle antichissime genti; indi vivessero felici, camminando nelle vie della
giustizia e onorando i celesti che li avevano scampati dall'acque.
«Così fecero i figliuoli e nipoti
di Chisutro, dopo avere offerto il sacrifizio su quella medesima ara, che egli
aveva pur dianzi rizzata. Trassero fuori le sementi, e le sparsero nel grembo
della terra; gli animali, e li mandarono liberi per mezzo alle selve. La gran
nave fu lasciata lassù, dove gli avanzi rimangono tuttavia, e del bitume, già
fatto come pietra salda e lucente, si cavano gli amuleti, che preservano dallo
sguardo maligno, dai sogni nefasti e dalle male sorti gettate.
«Queste le memorie dei primi
abitatori della regione di Sennaar. Ridiscesi i superstiti del diluvio alla
pianura, e moltiplicatisi in tre figliuolanze, secondo il nome dei padri loro,
che furono Zeruano, Titano e Jafeto, si posero a edificare, non lungi da
Sippara, una novella città, alla quale, per esser eglino usciti salvi dall'acque
invaditrici, imposero il nome di Babilu, ossia la porta di Ilu. E foggiata a
mattoni la molle creta, e adoperato a guisa di malta il bitume tratto dalla
prossima fiumana di Is, presero a murar la città. In pari tempo cominciarono a
innalzare una torre altissima, la quale, giungendo con la cima alle nubi, fosse
testimonio di loro possanza sulla terra.
«Ma erano eglino appena a mezzo
il lavoro, che la discordia entrò nelle loro favelle, e il tremuoto e la
folgore dispersero quei monti d'argilla. E Sem Zeruano, il maggiore tra i
principi loro, avendo preso a tiranneggiare le genti, fu da Titano, detto
altresì Cam nelle prische memorie, e da Jafet, cacciato a settentrione del
paese di Sennaar. E dalla sua gente fu Cus, padre di Nemrod, il possente cacciatore
al cospetto di llu. Questi incominciò a comandare su tutte le genti dei quattro
idiomi, e furono principio del suo regno, Babilonia, Accad, Calne ed Erech.
«Nel tempo suo, Assur, nato dal
sangue di Sem Zeruano, dalle rive dell'Eufrate passò a quelle del Tigri, ove
pose le fondamenta di Ninive, di Reobot, di Cala o di Resen. E, d'altra parte,
Aìco, del sangue di Jafet, ricusando assoggettarsi alla possanza del figlio di
Cus, andò co' suoi, rimontando l'Eufrate, fino alle terre di Ararat, ove pose
sua sede. E Nemrod. da poi ch'ebbe stabilito saldamente l'impero della sua
stirpe, fu tratto al cielo sull'ali poderose di Nisroc.»
- Se ciò sia vero, - pensò Ara in
cuor suo, a quel passo della lettura, - lo dica il campo di Aiotzor, dove il
Titano ebbe morte dallo strale del mio forte antenato. -
E reprimendo un sarcastico riso,
che gli era venuto alle labbra, si dispose ad udire la continuazione delle
memorie di Babilu.
Ma la regina, il cui sguardo
innamorato ad ogni tratto si posava sul volto dell'ospite, notò quel moto delle
sue labbra, e con pensiero cortese si fece a interromper lo scriba.
- Il grande progenitore dei re di
Babilonia, - diss'ella nobilmente, - è morto da prode in battaglia. Correggi i
tuoi annali, o savio alunno della schiera di Casdim. Bene io credo che lo
spirito di Bel Nemrod sia stato rapito in cielo dal signor delle sorti; ma il
suo corpo, diligentemente plasmato di balsami e coperto di ricche vesti, riposa
sulla collina di Keresman, nella tomba che la pietà del forte Aìco gli diede. È
dei prodi non serbar l'odio, oltre la morte del nemico, e onorare con ogni lor
possa la memoria dei prodi. -
A quelle parole di Semiramide si
alzò Ara commosso, e nobilmente rispose.
- Tu fai più dolce al mio cuore
il debito della gratitudine, o possente regina. Non è vile la stirpe di Aìco;
ma quind'innanzi ella avrà per massimo de' suoi vanti l'essere stata esaltata
dalle tue labbra, donde scorre il miele della cortesia, insieme con gli aromi
della sapienza regale. Aìco, Armenàgo, Aramais, Amasia, Kegan, Arma ed Aràmo,
progenitori miei, esulteranno nelle lor tombe di Peznuni al soffio consolatore
della tua lode. Grande è Babilonia, e degna tu sei di regnare sul più forte
popolo della terra, o bellezza sovrumana e altezza d'animo veramente divina. -
Le guancie della donna leggiadra
si tinsero in colore di fiamma. Zerduste, il taciturno, a cui nulla sfuggiva,
lampeggiò uno sguardo feroce.
- Possente signora, debbo io
proseguire? - chiese umilmente lo scriba.
- A qual pro? Quindici età sono trascorse
sotto la grand'ala di Nisroc, dacché Babilonia è sorta sulle ubertose rive
dell'Eufrate. Chi non ricorda le opere dei discendenti di Nemrod? Bab, Anuv,
Arbel, Cael, il secondo Arbel e finalmente il gran Nino, che i sommi Dei hanno
fatto partecipe agli onori celesti, scrissero la loro istoria su queste pareti,
ne' sacri caratteri della gente degli Accad, e più chiaramente ancora nelle
provincie conquistate di mano in mano all'impero. I Saci e gli Assùra a
settentrione, i Medi ad oriente, gli Arabi e i Saba a mezzogiorno, i Nabatei, i
Cusi, i Carbaniti e quanti son popoli sul mare del sole occidente, narrano
abbastanza la gloria del popolo che ha nome dalle quattro favelle.
- Tu dimentichi, - soggiunse il
re di Armenia, - le opere tue, le tue vittorie, o regina. Balki, nel paese di
là dai Medi, e l'Indo lontano, donde il sole si leva, tremarono allo scalpito
del tuo cavallo di guerra. Al gran Nino piacesti, così per l'alto valore e per
l'animo eccelso, come per la splendida bellezza del volto. Figlia prediletta
della Dea che ha il suo tempio in Ascalona, non diranno le storie i tuoi
celesti natali?
- Non parliamo di ciò! - interruppe la regina. - In
molte guise si spande e si tramuta l'adulazione del volgo. Io amo assai più
apparire qual sono veramente, e chi mi conosce da presso m’avrà, spero, per
migliore della mia fama a gran pezza. Più che nelle vane pompe della nascita
arcana e nella gloria dei superbi trionfi, amo vivere onorata nella felicità
del mio popolo.
- Gloria a Semiram! Possa ella
vivere in perpetuo! - gridarono tutti gli astanti, in un impeto di devoto
entusiasmo.
Ed Ara fu lieto di unir la sua
voce a quella degli altri commensali. Ma una felicità, una ebbrezza pari alla
sua, non era nel cuor di nessuno.
Tarda era l'ora, allorquando egli
si alzò per toglier commiato.
- A domani! - gli aveva detto
sommessamente la regina. - Debbo conferire di gravi cose con te.
- È la regina che mi parlerà
domani? - aveva chiesto il garzone.
- Sì, e te ne duole?
- Oh no, - aveva egli aggiunto,
sospirando; - ma le parole di Atossa tornarono più soavi al mio cuore.
- Ingrato! - esclamò la regina. -
Non hai tu ritrovato Atossa sotto le spoglie regali di Semiramide? Così il re
d'Armenia tenga fede alle promesse di Ara, come la regina di Babilonia ricorda
di aver perduto il suo cuore nel recinto sacro a Militta. -
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