Partita Semiramide dalla sala del
convito, il re d'Armenia fu condotto nelle sue stanze dal cerimoniere di corte
e da un drappello di giovani, che recavano faci per rischiarargli il cammino.
Erano quelle stanze in un'ala lontana del palazzo, nei quartieri assegnati ai
regali ospiti di Babilonia.
Colà giunto, Ara dimandò d'esser
lasciato solo, ricusando gli uffizi dei servi, che erano posti a' suoi cenni.
Egli aveva mestieri di raccogliersi, di ordinare i suoi pensieri confusi. E
cotesto era pur necessario, dopo tanta varietà di strane venture, che gli
facevano creder quasi d'essere stato in balìa d'un sogno bizzarro. L'arrivo suo
in Babilonia, il tempio di Militta Zarpanit, la bella sconosciuta, i felici
amori suggellati da un sacro giuramento, la donna diletta poco stante ravvisata
sotto spoglie regali, il fasto della corte, le grandi accoglienze, quel misto
di fragranze e di voluttà, di splendori e di ebbrezze, ond'era stato ricinto,
abbagliato e compreso, siccome un dio da una nuvola d'incensi, lo avevano
tratto fuori di sé, gli avevano annebbiato l'intelletto, lo facevano dubitare,
fremere, esultare, venir manco, quasi sentisse fallir sotto i piedi il terreno.
E invero, non aveva egli
argomento di smarrir la ragione? Egli, il giovine re di poca terra tra i monti,
sceso in Babilonia a tributo, egli conquistatore inconsapevole del più prezioso
tesoro che al mondo fosse! Egli, venuto così a malincuore, con l'amarezza d'un
triste ricordo nell'anima, egli in un giorno, in un'ora, amante riamato di
quella regina, che pur dianzi aborriva! Così era; così aveva voluto il destino;
ed egli, non pure lo ringraziava in cuor suo, ma temeva non fosse che un sogno,
quella felicità di rapidi eventi; e implorava dagli Dei di non aversi a
ridestare mai più. Donna celeste, e veramente nata di Dea, com'era ella mal
giudicata da tutti! Ah, la gioventù è cieca, non sa di quanto lievi apparenze
si vesta la menzogna, e porge troppo facile orecchio alle stolte voci del
volgo. S'invidia, si odia e si calunnia così facilmente tutto ciò che sta in
alto! In quella guisa che il fango calpestato schizza sulle vesti del
viandante, la moltitudine, che striscia a terra, largisce ai grandi le colpe, i
vizi, ond'è contaminata ella stessa.
Povera donna! Perché ella era
bellissima, in eccelso stato, buona e cortese, come tutte le anime grandi,
sazia forse d'obbedienza e desiderosa di affetto, i vanagloriosi, gl'impronti,
i profani sognatori di stragrandi fortune, avevano aguzzate fino a lei le
cupide brame; e, respinti da lei, perché una donna d'alto sentire conosce
l'amor mentito e fuggevole così facilmente come il vero e profondo, s'erano
riscattati delle altere ripulse, gittandole il loro fango sulle candide vesti.
Egli è così facile infamare una donna! Non è ella tutta quanta nella vita del
cuore? Nel cuore si può meglio, si dee soltanto ferirla. È donna; dunque
impudica. È regina; dunque sanguinaria e crudele.
Povera Semiram! Lo aveva detto
ella stessa, ed Ara ben ricordava le sue parole: «Nessuno amò la povera regina,
nessuno! Ella è sola, si sente sola nel suo vasto impero, come un'isola deserta
sul mare. Ognuno in lei vede e desidera la regina; nessuno ha amata la donna.»
Ed ora questa donna, che
finalmente aveva trovato chi meritasse l'amor suo, di quali cose aveva ella a
conferire con lui? Gravi cose, aveva detto; ma ve n'erano forse di tali, che
non fossero quelle dell'amor loro? No certo, e pensandoci meglio, e meditando
le ultime parole di lei, parve ad Ara di aver colto nel segno. E così in nube
egli vedeva la sua diletta Armavir rappicciolirsi a mano a mano, allontanarsi
nel fondo e sparire. La sua Armenia, il reame con tanta cura e con tanto sangue
difeso dalla cupidigia degli Accad e dalle correrie dei cavalieri Turani,
doveva cadere per tal guisa in balla da' suoi vecchi nemici? Egli, il pronipote
di Aìco, avrebbe lasciata la sua piccola, ma nobile reggia tra i monti
dell'Ararat, per salire sul trono di Nemrod? A cotesto intendevano le parole di
Semiramide; cotesto traspariva dagli occhi, era voluto dalla potenza medesima
dell'amor suo.
Ma, per contro, non c'era egli
altra via? In cambio d'innalzarlo a sé, non poteva la regina discendere a lui?
Ninia era un adolescente: ma a qual principe ha mai fatto ostacolo l'età
giovanile, per cinger corona di re? E Semiramide, fatta grande dalle nobili
arti del regno, non sarebb'ella diventata grandissima, celebrata in tutte le
età future, per alto esempio di amore, al cui cospetto impallidiscono e sfumano
i gaudii del potere, i sogni dell'ambizione? Piccolo era il popolo aicano, ma
forte; ed egli, confortato dall'amore di quella donna, fatta compagna delle sue
sorti, non dubitava di poterlo condurre animoso sul cammino della vittoria e di
dare all'amata un nuovo regno, che nulla invidiasse all'antico.
In queste dubbiezze, in questi
sogni dell'anima amante, si stava il giovane Ara; né sempre pensando,
imperocché tal fiata il pensiero ama posarsi e dormire, mentre gli occhi son
desti, e vagano intorno, vedendo senza guardare, o guardando senza vedere.
Un mite chiarore si diffondeva
per la camera dai lucignoli d'una gran lampada di rame, che pendeva dal
soffitto, illuminando le storiate pareti. Tenui fragranze di eletti aromi
vaporavano da bracieri d'argento, collocati negli angoli. Poco lontano era il letto, sormontato da un
sopraccielo di porpora e coperto d'una coltre, la cui lana era di cammello non
nato. Ma rifuggendo ancora dal sonno, il re d'Armenia se ne rimaneva seduto
sopra un tettuccio di morbidi guanciali, di contro al monopodio di cedro, il
cui piede era bizzarramente intagliato, e il rotondo piano si nascondeva sotto
uno di que' tappeti, vagamente intessuti, che mandava a Babilonia l'arte famosa
di Tiro e di Sidone. Su quel tappeto era posata una lucernuzza da mano, e poco
discosto da quella un rotolo di papiro, collocato per modo da attirare lo
sguardo.
E tuttavia, il giovine Ara, così
sovra pensieri com'era, non ci aveva anche badato. Più e più volte i suoi occhi
s'erano volti a quel rotolo, ma senza che l'animo lo avvertisse del pari.
Senonché, in uno di quegli intervalli che l'innamorato garzone metteva nelle
sue fantasticherie, gli occhi posarono tanto sul misterioso involucro, da
destare la sua attenzione, e finalmente la sua curiosità.
Rimase un tratto dubbioso a
guatarlo; indi stese la mano e lo afferrò, in quella che si accostava alla
fiamma della lucerna, per considerarlo più da vicino. Un suggello di argilla
rossa chiudeva il margine del foglio, e in quel suggello si vedeva l'impronta d'un
cigno. Un brivido gli corse, a quella vista, per l'ossa. Il cigno era l'emblema
consueto di Sandi, del soave cantore, amico dell'anima, compagno fedele della
sua giovinezza.
Che voleva dir ciò? Un senso
d'angoscia ineffabile penetrò il cuore del giovane, e una voce arcana gli
bisbigliò nel profondo che in quel rotolo suggellato si chiudevano le sorti
della sua vita.
Sandi! Che voleva in quell'ora
l'estinto da lui? Veniva forse a rimproverarlo di qualche suo mancamento verso
la memoria dell'amico? Egli per fermo non lo aveva dimenticato; ma doveva egli
altresì chiudere ad ogni affetto il suo cuore? E perché il triste fantasma
veniva egli a turbargli il suo primo giorno di gioia?
Ma forse la presenza di quel ricordevole
emblema altro non era che un giuoco del caso. Ara lo sperò, e ruppe avidamente
il suggello.
Pochi versi di scritto, ne'
caratteri accadii, allora comuni alle genti della pianura e della montagna, si
leggevano sulla interna faccia del papiro; i primi nereggianti e visibili, gli
altri man mano più incerti e sbiaditi.
Ed ecco ciò che Ara vi lesse:
«Tu ami e credi di essere amato.
Ora, vuoi tu conoscere il vero? Sandi, il tuo Sandi, te lo dirà egli stesso,
pur che tu il voglia. La gran luce ti aspetta. Ma bada, per giungere ad essa,
v'hanno terribili prove a sormontare, fatte soltanto per animi forti.
«Hai tu ardire? Hai tu sete di verità? Ricordi tu l'antica
amicizia? Davanti a te, a' piedi della parete che reca scolpita l'immagine del leone
alato, si apre un vuoto, che ti guiderà fino a me. Pensa e risolvi.»
Null'altro si leggeva nel foglio.
Soltanto seguivano alcuni segni scoloriti, che ad Ara non venne dato
d'intendere. Da que' segni, gli occhi del re d'Armenia corsero alla parete. Il
leone alato vi si vedeva scolpito sopra una tavola di alabastro dipinto, e
pareva guardarlo, co' suoi occhi di smalto. Un sudor freddo gli corse a quella
vista per l'ossa, e le chiome gli si rizzarono sulla fronte.
Senonché, a' piedi della parete
si vedeva il pavimento liscio e lucente, senza alcun segno che indicasse una
apertura sotterranea. Il re d'Armenia balzò in piedi, corse laggiù e guatò
lungamente il suolo, ma invano. Tornò allora al lume della lucerna e si fece a
legger da capo il papiro. Un altro verso di scritto era apparso nel foglio.
«La botola è aperta; mettivi il
piede, animoso....»
Ara tornò a guardare. E appunto
allora gli venne udito un rumor sordo, un cigolio come di serrami smossi. E
tosto una cateratta si aperse, discese, e una buca spalancata si mostrò nel
pavimento.
Il re d'Armenia era prode tra i
prodi; ma quello spettacolo, e dopo quella lettura, non era tale da lasciarlo
tranquillo. Tuttavia, non apparve inferiore al suo nome. Vi hanno uomini che il
pericolo imminente, non che abbattere, rinvigorisce un nemico ignoto e
invisibile? Un agguato? Suvvia! egli è dei valorosi il farsi innanzi, checché
avvenga, e solamente a conforto della propria dignità. Mancano gli spettatori;
che importa? La coscienza del prode non è ella presente a sé stessa?
Ritto, immobile, cogli occhi
sbarrati, rimase un tratto, guardando la buca; indi, come trascinato da una
arcana virtù, mosse a quella volta, si affacciò in sull'orlo e cacciò lo
sguardo avido nel profondo.
Un pozzo di scale gli venne
veduto là dentro. Si scorgevano i larghi gradini di mattoni scender giù ad un
pianerottolo, donde un altro braccio si partiva, voltando ad angolo retto; ed
altri a mano a mano andavano in giù digradanti, la cui sequela si perdeva nel
buio. Nessun rumore di passi, od altro di somigliante, giunse all'orecchio del
giovane; tutto era silenzio in quel baratro; solo un alito, un senso
lievissimo, quasi un odor di frescura, venne di là dentro a sfiorargli la
guancia, come per dirgli che quello non era un sepolcro, e che l'aria
respirabile non vi faceva difetto.
Senonché, era opera di uomini o
di spiriti ignoti, quella via che gli si parava dinanzi? D'uomini forse, pensò
Ara in cuor suo. E tornato prestamente alla tavola di bronzo, afferrò il suo
coltello dalla fulgida lama, che già aveva deposto, e lo rimise alla cintola.
Frattanto, gli occhi suoi
correvano da capo al misterioso papiro. Altri versi di scritto nereggiavano,
dal mezzo insino al piè della pagina. Il re d'Armenia non lesse, divorò i nuovi
caratteri, che gli offriva lo scrittore invisibile.
«.... scendi; quanto più
scenderai, tanto più sarai innalzato alla conoscenza del vero.
«Odi una triste istoria. È già
gran tempo che due purissimi spiriti, inviati da Dio a spargere la sua luce
sulla terra di Sennaar, dimenticarono qui, per l'amore di una figlia di Babilu,
il loro celeste mandato. L'ingannatrice strappò dal labbro di quegli illusi il
motto d'entrata alle eterne dimore, dov'ella fu pronta a sollevarsi in lor
vece.
«Però il santo Iddio li punì,
confinandoli in una chiostra profonda, sotto la torre delle sette sfere. Colà
vivono in tenebre fitte; colà rimarranno, sospesi per le ciglia, fino al dì del
perdono.
«Pari a costoro è il tuo Sandi.
Qui sta dolorando il suo spirito, sotto la medesima terra ov'egli ha amato e pianto,
sotto le medesime acque in cui ha trovato la morte. Respingerai tu
l'invocazione di un'anima, la quale non attende che te? Vorrai tu essere
maledetto in eterno?»
- Ah no! - proruppe Ara, gittando
il foglio e correndo alla botola. - Chiunque tu sia, spirito immortale o astuto
ingannatore, eccomi a te! Dovess'io lottare col negro fantasma di Nemrod, son
pronto. Aìco, fortissimo Aìco, proteggi invocato il tuo sangue! -
E si cacciò entro la botola, giù
per la segreta scalèa, da prima con passo veloce, soccorrendogli il lume che
pioveva dalla sovrastante apertura, quindi a mano a mano più tardo, poiché la
luce veniva scemando sempre più ad ogni svolta di scale.
Del resto, anche quel fioco
raggio gli venne meno ben tosto. Un cigolio si fe' udire alle sue spalle, indi
un fragore, un urto, quasi di pietra con pietra. La cateratta si richiudeva su
lui. Il re d'Armenia era come sepolto in quel baratro.
Né di codesto gli dolse,
quantunque il richiudersi della cateratta, togliendogli ogni speranza di
ritorno, gli dicesse tutta la gravità del pericolo. Il dado oramai era tratto.
Non lo aveva egli forse voluto?
Brancolando con le palme distese
lunghesso le mura, proseguì allora il cammino e poté sincerarsi che le scale
giravano a pozzo, coi loro ripiani tutti ad uguali distanze. Però, abbastanza
spedito, siccome gli veniva fatto, procedendo tentoni, andava egli allo ingiù,
null'altro udendo che il rumor dei suoi passi, sordamente ripercosso nel vuoto.
E nello scendere, gli ricorrevano al pensiero i lieti splendori del convito,
gli sguardi amorosi della regina, tutte le allegrezze di poche ore addietro,
finite così malamente per lui, in quel buio, in quel silenzio di tomba.
Per altro, seguitando egli a
calare nel cieco abisso, incominciò ad udire un suono lontano, come un susurro,
un mormorio dal profondo. Da principio, gli parve inganno dei sensi; ma il
suono si faceva più distinto; né egli poteva intendere che fosse, poiché di
voci umane non gli pareva certamente. In quel mezzo, anche un po' d'aria manco
soffocata era venuta a soffiargli sul viso. Certo ella spirava da fori aperti
nello spessore dei muri. Intanto il suono cresceva, cresceva, sordo, fragoroso,
flottante; indi, da sotto che egli l'udiva, incominciò a farglisi sentire di
fianco, e poscia sul capo, a grado a grado men forte, mutato in brontolìo
sommesso, fino a tanto si tacque del tutto, lasciando il giovine Ara nel
sepolcrale silenzio di prima.
Egli argomentò che quel fragor
d'acque scorrenti venisse dall'Eufrate vicino, e che, mettendo la scala sotto
il gran fiume, la incognita meta del suo tenebroso viaggio non dovesse ormai
esser lontana. Né male erasi apposto nel suo giudizio. Difatti, pochi istanti
dopo, il pozzo delle scale finiva, ed egli, sempre attenendosi alla parete,
conobbe di inoltrarsi sul piano, sopra un androne sterminato, in fondo al quale
gli parve di scorgere un lieve barlume, simile a quello che precede, nelle
fredde regioni, il sorgere di un nebbioso mattino.
Guidato da quel tenue filo di
luce, il giovane studiò il passo per afferrare la meta. Ma, giunto colà, si
avvide che il suo viaggio non era anche finito. L'androne riusciva ad una
svolta, d'onde un più vasto sotterraneo gli si parò improvvisamente dinanzi.
Il chiarore là dentro appariva
men fioco, ma incerto sempre, confuso, torbido di vapori, che davano sembianza
di un denso fumo. Per altro, nessun senso di oppressura al petto, o di
irritamento alle palpebre, accennava a cotesto; senonché, per mezzo a quella
nube immobile e fissa, tornava malagevole discerner la via a pochi passi più
oltre.
Il re d'Armenia, abbacinato,
ristette sotto il grand'arco dell'ingresso, che era sorretto da smisurati
piloni. Doveva egli commettersi là dentro? Doveva egli dar volta? Prima di
appigliarsi ad un partito, volle esser certo del fatto suo, e con voce sonora,
con accento deliberato, gridò:
- Ho io fallita la strada? -
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