La voce del re d'Armenia si
ripercosse, più e più volte ripetuta sotto le invisibili arcate. Egli per alcuni
istanti aspettò inutilmente una risposta. Alla perfine, una voce si udì, o, a
dire più veramente, un'eco di voce lontana, che gli diceva:
- No; fatti innanzi per mezzo ai
vapori, se brami giungere a noi. -
Quella voce, sebbene aspettata,
turbò profondamente il giovane, gli fe' batter forte il cuore e correre il
sangue precipitoso alle tempie. Ma egli si riebbe tosto da quell'assalto di
terrore istintivo, e con atto risoluto si cacciò dentro a quel vortice bianco.
Ai primi passi che egli ebbe fatti là entro, meravigliò grandemente di non
riceverne alcun senso spiacevole, o altrimenti molesto. Quel vapor bianco,
anziché fumo, poteva dirsi una nebbia, un nembo di polvere diffusa nell'aria, e
così fitta, che non gli concedeva di vedere la strada due passi più avanti. Ed
egli vi navigava per entro, senza fatica o disagio; la fendeva facilmente,
siccome un raggio di sole si apre la via nel grembo d'una candida nuvola, che,
librata sull'orizzonte, vorrebbe contendergli l'estremo saluto alla terra.
Dopo alcuni istanti di quel
viaggio nel vaporoso strato, la nube bianchiccia ed opaca cominciò a
diradarglisi intorno, ed egli a mano a mano poté scorgere una sequela di arcate
e di smisurati piloni di pietra, in mezzo ai quali s'inoltrava, andando verso
un punto luminoso, che ancora non poteva distinguer che fosse. E allora gli
venne alla mente il valico segreto sotto l'Eufrate, opera di Semiramide, ne'
suoi primi anni di regno, e per tutto il mondo celebrata audacissima tra le
maraviglie di Bàbilu.
Per costruire questo valico
sotterraneo, la regina aveva fatto deviare il corso dell'Eufrate, mandandolo a
scaricarsi in uno sterminato serbatoio, già scavato a tal uopo, che era largo
trecento stadii per ogni suo lato e trentacinque piedi profondo. Così, mentre
il fiume veniva colmando il serbatoio e allagava da ultimo la pianura a
mezzogiorno della città, si era posto mano alle fondamenta del sotterraneo,
facendo girare su enormi piloni di granito gli archi delle vôlte, le quali
erano di mattoni cotti, cementati d'asfalto. La vôlta aveva quattro cubiti di
spessore; le pareti erano rafforzate da una profondità di venti mattoni, e il
sotterraneo misurava dodici piedi d'altezza, quindici di larghezza. La fama,
che tutto ingrandisce, aveva a far credere più tardi che all'opera maravigliosa
fossero bastati sette giorni di assidue fatiche; e certo, ad esaltare
degnamente l'impresa, non era bisogno di cosiffatte invenzioni. Comunque fosse
dei giorni spesi in quell'opera, a mala pena essa era stata condotta a termine
e ricoperta da parecchi strati di bitume e d'argilla, il fiume tornava
nell'alveo e la regina aveva il suo varco sotterraneo, che congiungeva
celatamente i palazzi delle due rive, siccome il ponte congiungeva le due parti
della città, alla luce del sole.
Ed egli stava per l'appunto in
quel sotterraneo. L'immagine dell'amata regina era per tal guisa sempre davanti
agli occhi dell'ospite. Mirabil donna, che, così giovane ancora e risplendente
di tutte le grazie del suo sesso, aveva potuto metter l'animo in tutte le cure più
svariate e più gravi, contender tutte le palme ai più forti, ai più illustri,
ai più fortunati re della terra! Per lei cresciuto a dismisura il regno degli
Accad; per lei Babilonia innalzata a tale di possanza e di fasto, che
nessun'altra città doveva emulare mai più; per lei sorte a gara le opere
stupende, la cui memoria aveva a durare quanto il mondo lontana.
I piloni di granito succedevano
ai piloni, le arcate alle arcate, in tre ordini disposte pel lungo, siccome
nelle tre navate d'un tempio. E gli smisurati piloni uscivano via via dagli
ultimi vapori, siccome escono a poco a poco più spiccate le larve notturne dal
sogno, o le linee dei monti dal crepuscolo del mattino. Intanto, una luce
peritosa si diffondeva dai lati, che egli, indi a poco, notò esser tramandata
da piccole lucerne collocate entro le sporgenze dei cornicioni e dietro le
capricciose spire dei capitelli. A quell'incerto chiarore si illuminavano
sinistramente mille forme fantastiche, condotte a rilievo lunghesso i muri,
uomini pesci, leoni alati e somiglianti a chimere, che assumevano vita e moto
dintorno a lui, e ad ogni suo passo parevano fremere, agitarsi irrequiete,
pronte a scagliarsi sull'audace turbatore dei loro eterni riposi.
Calmo e sereno, compreso di
quella onesta baldanza che conferisce agli animi forti il pericolo, procedeva
il re d'Armenia in mezzo a quelle ostili parvenze. Strani rumori si levavano a'
suoi fianchi, gemiti, grida, sordi ululati, fischi di serpi, e baturli di
tuono; ma egli animoso a nulla badava e proseguiva sicuro la via. Così giunse
in capo al sotterraneo, dove le pareti si ristringevano intorno ad una porta di
bronzo, su cui erano impressi caratteri arcani. Era quella la meta; là dietro
lo aspettava l'ignoto.
Pochi passi lo dividevano da
quell'uscio misterioso; ed egli muoveva risoluto alla soglia, allorquando un
cupo rombo s'intese, che lo fece ristare ad un tratto.
- Sciagurato, dove t'inoltri? -
tuonò una voce minacciosa alle sue spalle.
Ara si volse indietro, turbato;
ma nulla vide, né intese donde venisse la voce. Incrociò allora le braccia sul
petto, e, sorridendo amaramente, esclamò:
- Non mi avete chiamato? son qua!
- E non temi di farti più oltre?
- gli chiese un'altra voce da fianco.
- Temere? io? - gridò il giovane
con piglio superbo. - Chiunque voi siate, sappiatelo; ignoro che sia la paura.
- Non fidar troppo nelle tue
forze! - soggiunse la voce. - Esse non valgono contro le arcane potenze. Sai tu
forse ciò che ti aspetta?
- La morte? - ripigliò il re
d'Armenia. - Fosse pur questo il mio fato, nol temo. -
E così dicendo, il pronipote
d'Ateo volgeva intorno la fronte, quasi volesse sfidare i suoi interlocutori
non visti.
- Ah! - rispose la voce con
accento sarcastico. - Ben altro ti si può fare.... Ben altro.... Tal colpo si
può ferire su te, che ti faccia docile e pauroso siccome un fanciullo. Sacri
misteri ti circondano, non uomini pari tuoi, contro i quali basti snudare il
ferro, di cui la tua mano ha già accarezzata l'impugnatura più volte. Tu sei
nel grembo della terra, ricordalo, nel grembo della terra, in cui si celano le
idee madri, le virtù arcane della natura.
- Sta bene, ed io le venero,
queste arcane virtù; - rispose Ara tranquillo. - Sono avido di sapere, chiedo
di leggere nel passato e nel futuro, se pure è in poter vostro di farmelo palese.
Vengo a voi fiducioso; e che mi date voi, dopo avermi chiamato? Come rispondete
voi alla mia fede, dopo aver turbato il sereno dell'anima mia, dissipati i
dolci miei sogni, avvelenato il nappo delle mie contentezze? M'involgete nelle
tenebre, mi niegate accoglienza, mi fate minaccia di tormenti inauditi.
- Uomo cieco! - disse a lui di
rimando la voce. - Le tenebre dell'errore ti circondavano; le vane voci del
mondo ti suonavano all'orecchio. Ora ti avvicini alla luce del vero, alla
quiete santissima del giusto. Se ti soccorre l'ardimento, batti dunque a
quell'uscio. Ma bada; non si torna più indietro, se non educati alla scienza
del bene e del male; e l'albero della scienza dà frutti amarissimi. -
II re d'Armenia crollò alteramente le spalle e
s'inoltrò verso l'uscio di bronzo. Aveva appena posato il piede sulla soglia,
che questa diè un suono metallico, uno schianto rumoroso, a cui rispose un
sobbalzo del giovane, un tremito di tutta la persona, siccome avviene ai più
animosi e ai più calmi, per ogni inaspettato fragore, o traballìo, che accenni
non esser più sicura sotto i lor piedi la terra.
- Ah! - suonò beffardamente la
voce. - Già ti sgomenti, pronipote di Aìco? -
Ara non rispose parola. Tornato
in sulla soglia, spinse l'uscio con urto poderoso che ne fe' andare i cedevoli
battenti fin contro agli stipiti, e si cacciò dentro sollecito.
Ma appunto allora un orrendo
frastuono si udì, come di cento dischi di rame l'un contro l'altro percossi, e
con essi un rombo di tuono, una confusione di grida e di urli feroci.
Intronato, strinse egli ambe le palme alle tempie per turarsi gli orecchi, che
gli pareva dovessero andarne in frantumi. E così avesse chiuso gli occhi del
pari! Un bagliore improvviso venne a ferirgli lo sguardo, e gli si parò dinanzi
come una fornace, anzi un lago di fuoco, per entro a cui si agitavano
confusamente mille figure strane, bocche sgangherate, lunghe braccia e mani
armate di unghioni minacciosi, mostri alati che arrotavano gli occhi uscenti
fuori dell'orbite, guerrieri di smisurata statura, che brandivano spade
roventi, e si raccoglievano sulle gambe tese, in atto di avventarsegli contro.
Egli rimase un istante attonito, guatando l'orrida scena; indi, si dispose ad
attendere i colpi della molteplice schiera.
Aspettava tranquillo la morte, ma
la morte non venne; l'alito di fuoco sul volto, ma esso non giunse fino a lui.
Per contro, quel torrente di luce ad un tratto si spense, cessò il frastuono, e
fu d'improvviso un buio, un silenzio di tomba.
- Ah! - sclamò egli allora, sorridendo
amaramente. - Vi prendevate voi giuoco di me? -
E allora la voce rispose:
- Son queste le false parvenze
della vita, i pericoli che circondano l'uomo, nel suo viaggio sulla terra. Guai
a chi si smarrisce d'animo, imperocché egli è dannato a perire. Il savio non
teme la morte; essa non è che la liberazione dalle catene dei sensi. Da
valoroso hai superata la prova. Gli spiriti arcani non t'impediscono il
cammino. Va innanzi. -
Ara obbedì al comando e si mosse.
Intanto, al suo cospetto si
diradavano le tenebre, e un mite chiarore si diffondeva all'intorno, rendendo
le sembianze smarrite alle cose. Per altro, ciò ch'egli vide non era più il
sotterraneo, bensì un vasto loggiato, sorretto e chiuso da alte colonne, per
mezzo alle quali vedevasi il cielo sereno e l'onda tranquilla d'un lago, che
spirava fino a lui un alito di soave frescura.
Non era quello per fermo un
inganno dei sensi. Una coppia di cigni correva speditamente sull'acque,
incalzando alla riva uno stuolo di giovani donne, le quali si sollazzavano su
quella superficie di liquido argento. Ed egli ammirato le vide emergere
dall'onda, rasciugarsi le candide membra, e poscia, mal chiuse in sottilissimi
veli, entrare sotto il loggiato. Colà, anch'esse si avvidero della presenza del
forestiero; e timorose da prima, indi fatte dal suo stupore più audaci, si
condussero con agili passi alla volta di lui.
Bellissime eran costoro e niente
que'sottilissimi lini negavano delle graziose membra allo sguardo. Una tra
esse, la più leggiadra di certo, splendida a vedersi per sovrumana eccellenza
di forme, pe' sciolti crini, neri come bitume, che facevano risaltare
viemmeglio la perlata bianchezza delle carni, venne a rigirarsegli intorno con
atti cortesi, e movenze, donde traspariva il desiderio di piacergli e di
vincerlo. Si schermiva egli, e già aveva ricusato di bere alla coppa che la
vaghissima ignota gli profferiva, allorquando ella, avvicinatesi in atto
supplichevole, mentre le compagne intrecciavano a tondo le danze, gli gittava
le traccia attorno al collo, s'avvinghiava amorosa a lui e gli susurrava
all'orecchio:
- Tu sei bello; io ti amo! -
Ara si divincolò tosto da quella
stretta, sebbene in quel modo che più gli venne fatto cortese. I baci di Atossa
gli tornavano in mente. Ora l'amplesso dell'ignota non era egli una
profanazione dell'amor suo?
- Lasciami! - esclamò, nell'atto
di allontanarsi da lei.
E si spiccò da quel luogo,
rompendo con le sue mani la cerchia che le mute danzatrici gli avevano fatta
dintorno.
La lusinghiera lo saettò d'uno
sguardo corrucciato.
- Ah! tu mi disprezzi? -
diss'ella. - Bada, o re d'Armenia! Tu fuggi dalle mie braccia, per correre
incontro alla morte.
- Che il mio destino si compia! -
mormorò il giovane, ripigliando il cammino.
E intorno a lui svanirono a mano
a mano quelle femminili parvenze; infoscò la scena, fu notte da capo. Il re
d'Armenia tornò a brancolar nelle tenebre.
- Ed ora? - chiese egli,
fermandosi. - Che è egli, questo vostro raggirarmi tra vane lusinghe e più vane
paure? -
Un ghigno beffardo rispose
all'inchiesta del giovine.
- Non ti dolere, o figlio di
Aràmo! I dolci misteri di Militta Zarpanit non ti lusingarono forse? Non ti
trattennero essi più del bisogno? Perdona a queste leggiadre abitatrici
dell'Eufrate, se, memori dell'amorosa vigilia, ti credettero più arrendevole
alle loro carezze. Invero, esse non avevano pensato che dalle braccia della
gran maliarda l'amico di Sandi doveva ritrarsi sfinito. -
Al crudele motteggio Ara non ebbe
virtù di rispondere. Tutto era noto colà, e il ricordo di Sandi veniva pensatamente
a inchiodargli la lingua.
- Suvvia! - proseguì rabbonita la
voce. - Ormai gli è tempo per te di avvicinarti alla luce. Fatti innanzi, e
dammi sicuro la mano. -
A queste parole, e mentre egli si
disponeva a muovere il passo, sentì una mano che afferrava la sua.
Era quella una mano poderosa, e
la sua stretta diceva assai più l'odio d'un giurato nemico, che non la
benevolenza d'un patrono, o la sollecitudine d'una guida. Ed egli, il prode
Ara, non poté rattenere un senso di ribrezzo, un brivido di arcano terrore, che
gli corse per l'ossa. V'hanno tocchi lievissimi, che avvertono di danni,
imminenti o lontani, assai meglio dei più aperti presagi.
Il re d'Armenia procedette, così
trascinato, una ventina di passi. L'urtare che fece il compagno contro una
parete gli fe' intendere che erano giunti alla meta.
- Ci siamo, -disse infatti la
voce; -ascendi la soglia. -
Ara obbedì, dopo aver tastato del
piede l'ostacolo. E allora tre colpi furono battuti dal compagno sopra un
disco di rame.
- Apriti, porta della verità! -
gridò questi con pienezza di accento.
- Chi ardisce accostarsi? -
dimandò dall'altra parte una voce cupa che parea venir di sotterra.
- Un profano; - rispose il primo
interlocutore.
- E che vuole?
- La luce.
- Ha egli superate tutte le prove?
- Sì; ha varcata la tenebrosa via
dell'errore; ha sfidato il pericolo della fiamma e della spada, morte del
corpo, e quello dei sensi, morte dell'anima.
- E sa egli che cosa l'attende?
Sa egli che la gran luce potrebbe acciecarlo e l'amara scienza mutarsi in
veleno per lui?
- Lo sa ed è pronto a patire ogni
cosa pel conquisto della luce e della scienza.
- Orbene, s'inoltri! Ben venga
egli alla scienza, alla luce.-
E la porta, come per incanto,
girò tacitamente sui cardini.
Entrarono in un vestibolo partito
a grosse colonne di pietra, illuminato da lampade di nafta. Un guerriero vi
stava a custodia, col volto coperto di un negro velo, e con una larga spada
scintillante nel pugno.
- Deponi il tuo ferro! - diss'egli con piglio
severo al giovine Ara. - A nulla potrebbe esso giovarti qua dentro. -
Ara si tolse dalla cintola il
coltello dalla impugnatura gemmata, che aveva preso con sé, innanzi di
perigliarsi nella scala misteriosa. Frattanto, si volse a guardare il suo
introduttore, di cui fino a quel punto egli non conosceva che la voce.
Era questi un uomo di alta
statura, di membra robuste; ma la sua faccia non era dato vederla. Anch'egli
portava un velo nero ravvolto intorno al capo, siccome il guerriero che
vigilava l'ingresso.
Deluso nella sua onesta curiosità,
il re d'Armenia si inoltrò dal vestibolo fino al limitare d'una gran sala, le
cui pareti si vedevano impresse di simboli svariati e di segni arcani, che
accennavano a scritture di popoli stranieri. Se egli avesse potuto por mente a
tali cose, gli sarebbero apparse in que' simboli le deità antiche di Mesraim,
poste colà a riscontro di quelle del Gange, e delle più vicine di Bakdi; nelle
arcane leggende egli avrebbe poi ravvisati i caratteri sacerdotali dei tre
popoli, a cui si riferivano quelle sacre figure.
Ma il giovane non si trattenne a
guardar le pareti, i suoi occhi essendo corsi ad un palco che sorgeva nel
fondo, dietro a cui, siccome a tribunale di giustizia, stavano seduti tre
uomini, o, per dire più veramente ciò che gli apparvero, tre simulacri d'uomini
immoti, vestiti di candide stole, cinte le tempia di bende dorate, le quali
scintillavano per mezzo a' veli, ond'erano coperti i venerabili aspetti. Aveva
uno di loro tra mani il fiore del loto, emblema della vita; l'altro una foglia
di papiro, sacro ai dettami della sapienza; il terzo un ramoscello di amòmo,
dell'ottima tra le piante.
Una negra cortina scendeva
dall'alto, dietro alle loro spalle, celando l'adito sacro, il penetrale del
tempio. Sui lati, e sotto il lume di parecchie lampade pendenti da bracciuoli
di bronzo, il re d'Armenia vide altre figure, ma coperte di nero dal capo alle
piante, siccome il suo introduttore, immobili, con le mani appoggiate sul pomo
di lunghe spade, dalle cui larghe lame a due tagli balenava una luce sinistra.
Il giovane era rimasto tra
ammirato e confuso, a guardare quei tre, che bene non sapeva discernere se
uomini o spiriti, o muti simulacri di Dei. Ma poco stante, uno di loro si fece
a trarlo di dubbio, rivolgendogli la parola in tal guisa:
- «Fatti innanzi, profano! Dalle
vie dell'errore, tu giungi alla luce del vero. Alla nuova aurora tornerai tra i
viventi, ma rigenerato, più savio e più forte di loro. Nulla di ciò che hai
veduto ed udito, nulla di ciò che vedrai ed udrai, ha da uscirti dal labbro. Non
giurare; ciò non t'è chiesto; ciò non è necessario. Quelle spade che vigilano
il nostro tribunale, ti seguiranno invisibili ovunque. Oltre di che, il varco
per cui se' giunto fino a noi, fu aperto dalle possanze arcane, e già non ne
resta più traccia. Nessuno aggiusterebbe fede a' tuoi racconti; ognuno li
avrebbe per sogni di mente inferma, frutto dei vapori perniciosi dei liquor
della palma. Gli uomini hanno occhi e non vedono, orecchi e non odono; soltanto
a pochi eletti è dato di conoscere il vero, che si nasconde sotto l'aspetto
ingannatore, o manchevole, delle cose create.
«Invero, l'uom savio ha due viste; quella
infida dei sensi, e l'altra, più pura e più certa, dell'anima. Egli ha altresì
due scienze: quella che insegna al volgo, e quella che custodisce gelosamente
per sé. La prima è involucro, la seconda è sostanza; quella adombra, questa
disvela; nell'una è il simbolo, nell'altra la ignuda ragion delle cose. Tre
diverse dottrine, ad esempio, ti stanno dinanzi: Memfi, Battro, Ayodìa. Il
Nilo, l'Arasse ed il Gange, sono i tre fiumi per cui primamente è discesa la
sacra verità. L'Eufrate, nelle sue torbide acque non travolge che errore; però
sia maledetto fino a tanto egli scorra ossequente ai superbi regnatori della
stirpe di Nemrod.
«Costoro, violenti, oltracotanti
e feroci, radunarono sotto il loro scettro le genti sparse sulla pianura, non
popolo vero, ma avanzi di un popolo, che la collera dell'Eterno aveva sepolto
tra l'acque. Naufraghi campati a fatica, non videro che sé medesimi al mondo, e
dissero: ecco, i forti siam noi! Tirannica mistura di favelle, di credenze e di
costumi, pretendono di dettar leggi alle più antiche nazioni della terra del
sole. Già le loro armi hanno invase le regioni sacre dell'Iran, dove regna il
purissimo culto della parola di Dio. A mezzogiorno, di là dai vinti Nabatei,
già volgono il cupido sguardo agli avventurosi figli di Mesraim, dov'è
prosperità d'arti e scienze, dove l'ascosa verità si adora in effigie e templi
degni di lei. Né basta. Per mezzo ai popoli vinti, non domi, della stirpe di
Iavan, ai Medi, ai Battriani, ai Sogdiani, s'inoltrano audaci ad insidiare i
remoti confini dell'India. Dove non corre, in quali imprese non si periglia, lo
sterminato orgoglio degli Accad? Non hanno essi, nel loro folle ardimento,
tentato di giungere al cielo? Rispetteranno essi alcuna parte di terra, che
faccia ostacolo ai mostruosi disegni della loro ambizione? E l'Armenia, alle
cui balze ospitali si erano essi aggrappati nel grande naufragio, non tentarono
forse di assoggettarla del pari? Il grande Aìco rintuzzò l'orgoglio dei
superbi; ma essi non hanno già dimenticato lo sbaraglio del loro esercito, e
fremono vendetta della uccisione di Belo. Fatti possenti su noi, si
scaglieranno su te. Aquila delle montagne, vuoi tu collegarti con noi, per
fiaccare questa minacciosa potenza, per distruggere il covo dei serpenti, che
tutti ne stringerebbero un giorno nelle molteplici spire.»
- Io sono, - rispose Ara, -
l'alleato della regina.
- Il tributario della regina eri
tu, ed oggi sei lo schiavo della donna. Sì, schiavo, ed imbelle; non ti
sdegnare; qui tutto è noto. Chi ti ha chiamato quaggiù nulla ignora dei tuoi
facili amori. Lui forse pretenderesti ingannare? -
II giovane, che già, nell'impeto
dell'ira, aveva dato un sobbalzo, chinò raumiliato la fronte. Un turbine di
confusi pensieri lo assalse. Che era egli tutto ciò che udiva? E tra qual gente
era egli disceso? Lo avevano chiamato alla luce del vero, nel regno delle
ombre, in mezzo a spiriti arcani; ed ecco, si vedeva in balìa di uomini
congiurati. Per altro la chiamata di sotterra non eragli apparsa nel misterioso
papiro come cosa sovrannaturale? E se l'estinto amico doveva mostrarsi ai suoi
occhi, non erano quei tre uomini velati gli arbitri del passato e del futuro,
credibili e venerandi maestri di alto sapere alla sua mente in angustie?
Il dubbio del giovane non isfuggì
per fermo allo sguardo acuto del suo interlocutore; il quale fu pronto a
soggiungere:
- La verità dee risplenderti
intiera. Per gli increduli, ella si cela dietro a questa negra cortina, che ci
basterà sollevare. Pei credenti, ella si svolge dai penetrali del pensiero,
raccolto saviamente in sé stesso. Tu sceglierai. Preparati ora al grande
arcano, ascoltando la voce del vero, che si sprigiona dai veli discreti delle sante
dottrine. Le storie dell'errore ti furono narrate poc'anzi, tra i fumi del
regio convito; odi ora le nostre. Ma anzitutto, bevi alla coppa ospitale,
purifica il tuo cuore coi tre sorsi della sacra bevanda. -
Uno dei muti servi del misterioso
tribunale si mosse allora, e profferse al re di Armenia una coppa d'argento, in
cui tremolava un liquore biancastro. Egli vi intinse tre volte le labbra, e il
liquore gli seppe di dolce, misto con alcun che di aromatico e di frizzante al
palato. Indi si assise su di uno scanno, che gli era pôrto in quel mezzo, e
stette in attesa, guardando i tre uomini velati.
Allora uno di essi, quegli che
aveva tra le mani il fiore del loto, cominciò in questa guisa a parlare.
|