«Uno è il Dio vero, uno per tutti
i popoli della terra; ma la sua semplice e profonda grandezza non risplende che
allo intelletto dei savi, mentre il volgo lo intravvede a mala pena da lungi,
siccome lampo tra nubi, e lo adora moltiplicato nelle sue manifestazioni
terrestri, ascoso nel fitto involucro dei simboli, trasformato in mille guise e
parvenze, come porta l'indole varia e il costume mutevole delle genti. Uno per
tutti, egli è trino in sé stesso; alto mistero disvelato a pochissimi,
contemplatori, custodi ed interpetri della sublime verità, che tu sei per
grande ventura chiamato ad intendere.
«Odi colui che siede alla mia
manca, il savio di Mèsraim; egli ti dirà ciò che è scritto nel sacro papiro, chiuso
agli sguardi profani. Prima di tutte le cose ora esistenti, era un Dio,
immobile nella sua unità. Chi sei? gli domandò il savio, prostrandosi nella
polvere davanti a lui. E allora per mezzo alla gran notte scintillarono le tre
sacre parole Nuk pu Nuk (Io son chi sono). Egli il solo generatore in
cielo e sulla terra; né egli è generato; egli il solo Dio, generator di sé
stesso, che è fin dal principio, increato creatore d'ogni cosa. Da lui, che ha
tra gli uomini il nome di Knef, emana Fta, lo spirito onnipossente; da ambi
procede Oro, o Frè, il demiurgo celeste.
«Odi colui che siede alla mia
destra, il savio di Bakdi, nella
terra di Javan; egli ti dirà ciò che è scritto nel libro della legge a lui
dettato nella caverna del monte Elburz, dagli spiriti immortali. Da principio
era Zervane Acherene, l'essere assurto nella propria eccellenza, il tempo senza
misura, l'eterno senza estremità e senza radice. Con lui ed in lui esisteva
Honnover, il verbo, procedente da lui, fonte ed esempio d'ogni perfezione, produttore
degli esseri. Da lui è nato Ahuramazda, il principio del bene; da lui
Ahriinane, il principio del male; ambedue in lotta continua tra loro, fino alla
consumazione dei secoli.
«Seguimi ora con la mente,
seguimi alle fortunate sedi degli Aria, alla sacra vetta del monte Merù, culla
del vero, che illuminò l'universo. Dal grembo di Jarvam Akiaram, il tempo senza
misura, esce Brama, il dio che esiste per sé medesimo. Egli è in ogni cosa, ed
ogni cosa è in lui. Il Gange che scorre, il mare che rugge, il vento che freme,
la nube che tuona, la folgore che splende, tutto è sostanza, forma, immagine
sua. Il creato era nella sua mente fin dall'eternità; tutto ciò che esiste reca
l'impronta della sua mano. Egli è la vita e il moto; egli Naraiana, lo spirito
che va sulle acque; egli il creatore del mondo e degli spiriti inferiori, che
attestano la sua gloria. In lui sono tre essenze e l'una procede dall'altra.
Brama è il creatore, Visnù il protettore, Siva il trasformatore d'ogni cosa.
«La luce, l'aria, le acque e la
terra, sono opera di Brama. Egli dall'anima sua alitò la vita comune alle
piante e ad ogni sorta d'animali: dall'anima sua la coscienza, l'intelletto e
la parola nell'uomo. Fu questa l'ultima creazione del Dio; e l'uomo, per volere
di Brama, fu da più di tutti gli animali della terra, inferiore soltanto agli
spiriti celesti.2
«Ora, siccome le piante e gli
animali furono creati per modo che potessero riprodursi, così avvenne
dell'uomo, che fosse creato in due corpi, maschio e femmina; al primo dei quali
Iddio diede la maestà e la forza, al secondo la bellezza e la soavità. E al
maschio impose il nome di Adìma, che significa il primo uomo: alla femmina il
nome di Eva, cioè a dire compimento di vita.
«Andate, diss'egli poscia,
amatevi e procreate esseri che siano a somiglianza vostra sulla terra, fino a'
tempi più lontani da voi. Io, signore di ogni cosa che esiste, vi ho creati
perché m'adoriate tutta la vita, e tutti coloro che crederanno in me
parteciperanno alla mia beatitudine, dopo la consumazione dei secoli. Insegnate
ciò ai figli vostri, affinché eglino si ricordino di me; imperocché io sarò con
esso loro, fino a tanto pronunzieranno il mio nome.
«E avendoli collocati in
un'isola, di cui non è la più bella, né la più ricca, sui mari, il sommo Iddio
proseguì:
«Sia vostro ufficio di popolare
questo lembo felice di terra, e di spargere il mio culto tra coloro che di voi
nasceranno. Tutto l'altro del mondo è inabitabile ancora; ma se in progresso di
tempo il novero dei figli vostri crescesse in tal guisa che l'isola non
bastasse a nutrirli, lasciate lor detto d'interrogarmi in mezzo ai sacrifizi,
ed io farò loro conoscere la mia volontà.
«Ciò detto, disparve. E in quel
punto Adìma si volse alla sua giovine compagna; la guardò, e il sangue gli
riarse nelle vene, alla vista di così splendida bellezza. Ella stavasi ritta
dinanzi a lui, sorridente nel suo virgineo candore, palpitante d'arcani
desiderii. Il morbido volume dei neri capegli le ricadeva disciolto sui bianchi
òmeri e intorno al colmo seno, che l'interno tumulto degli affetti incominciava
a commuovere.
«Adìma le si avvicinò trepidante.
Lontan lontano, il sole stava per inabissarsi nell'oceano, e i calici dei fiori
si alzavano desiosi per suggere le vespertine rugiade; migliaia d'uccelli
variopinti cantavano tra i rami il loro inno all'amore: le lucciole
fosforescenti cominciavano ad aliare per l'azzurro dell'aria, e tutti i mille
rumori dell'operosa natura salivano a Brama, che si rallegrava in cuor suo,
dall'alto delle celesti dimore.
«Ed in quel punto, Adìma stese la
mano a carezzare le morbide chiome fragranti della sua vezzosa compagna. Egli
sentì come un tremito scorrere per le membra di lei, e quel tremito invase
eziandio le sue vene. La strinse allora tra le sue braccia e impresse il primo
bacio sul viso della donna diletta, sommessamente chiamandola per nome. Adìma!
mormorò ella con soavissimo accento, e tremante, confusa, si abbandonò nelle
braccia di lui.
«La notte era giunta: gli augelli tacevano nel
bosco, e Iddio era lieto nel profondo del cuor suo, imperocché l'amore era
nato. Ciò egli voleva, il sapientissimo Iddio, dirittamente vedendo esser cosa
brutale, indegna di puri spiriti, l'amplesso, la confusione di due vite, a cui
non presiedesse amore.
«Così felici vissero a lungo i due
primi mortali; né mai nube di tristezza era venuta a turbare il sereno di
quella beata esistenza. Ma un giorno, una vaga inquietudine cominciò a
serpeggiare nei candidi cuori. Invidioso della loro felicità senza pari e
dell'opera perfetta di Brama, lo spirito del male bisbigliò al loro orecchio
arcane parole, spirò in quell'anime desiderii ignoti. Andiamo a diporto per
l'isola, disse Adìma alla sua leggiadra compagna, e vediamo se non ci è dato
trovare un luogo più dilettoso di questo.
«Eva seguì obbediente il marito,
ed entrambi andarono oltre; viaggiarono per giorni e per mesi, soffermandosi al
margine delle chiare sorgenti e al meriggio degli alberi giganteschi, che
celavano ad essi la spera del sole. Ma più s'innoltravano, e più la donna si
sentiva sopraffatta da un arcano sgomento. - Adìma, diceva ella al marito, non
andiamo più innanzi, che per fermo noi facciam contro al comandamento di Dio.
Non ci siamo noi già dipartiti dal luogo che egli ci aveva assegnato a dimora?
«Non temere, rispose Adìma alla
donna diletta. Vedi? Non è già questa la terra inabitabile che egli ci disse.
Avanti sempre, avanti; l'uomo non è nato per poltrire nell'angolo in cui egli
ha veduto la luce.
«E andarono innanzi; ella
obbediente ed amorosa, egli sempre più ansioso, tormentato dal desiderio di
vedere e sapere. Così giunsero alla punta estrema dell'isola, donde poterono
scorgere ai loro piedi un breve tratto di mare, e di là da questo una lista di
terra, che pareva dilungarsi all'infinito sui margini del lontano orizzonte. Uno
stretto e malagevole passo, formato di scogli a fior d'acqua, collegava l'isola
al continente ignoto.
«I due viandanti si fermarono
ammirati. La terra che si stendeva dinanzi ai loro occhi, appariva vestita di
alberi svariati e largamente frondosi; augelli dai mille colori correvano
cinguettando di frasca in frasca, o s'inseguivano a volo. - Splendida vista! -
esclamò Adìma. E come hanno ad essere gustosi i frutti di quegli alberi! Vieni,
o diletta; andiamo ad assaggiarne, e se quella terra è migliore della nostra,
noi laggiù metteremo dimora.
«La donna tremante supplicò
Adìma, che non volesse tentare più oltre la collera celeste. - Non viviamo noi
bene in questa isola? Non abbiamo noi chiare, fresche e dolci acque per
dissetarci, e frutti soavi, che nulla più, dopo i tuoi baci? Perché cercheremmo
noi altro?
«E sia; torneremo; disse Adìma a
lei di rimando. Che facciam noi di male, a visitare questa terra ignota, che si
profferisce ai nostri occhi?
«Così dicendo, s'innoltrò verso
la scogliera. Eva lo seguì tutta tremante in cuor suo. Egli allora, sollevata
la donna da terra, si recò il dolce peso sull'òmero e, mutando i saldi passi
tra pietra e pietra, si fece a valicare, quanto più speditamente poté, quel
tratto di umida via, che lo disgiungeva dall'argomento dei suoi desiderii.
«Avevano essi a mala pena
raggiunto il lido vietato, che un terribile schianto si udì. Lido verdeggiante,
alberi, fiori, famiglia di pennuti, ogni cosa che prima aveano veduta di là dal
mare, in un baleno disparve. La scogliera per cui erano venuti si sprofondò nei
gorghi frementi e solo alcune creste qua e là rimasero ritte fuor d'acqua, come
indizi d'una via per sempre distrutta.
«La lieta verzura, che i due
infelici aveano veduta colà, non era che una mostra ingannevole, suscitata dal
principe degli spiriti malvagi, per tirarli alla disobbedienza. Adìma conobbe
allora il suo fallo, e così perduto dell'animo, com'era stato baldanzoso da
prima, cadde piangendo sull'inospite arena. Ma in quel punto Eva gli si
accostò, pose le braccia intorno al suo collo e gli disse: - Non ti affliggere,
amor mio; preghiamo in quella vece il Signore, che voglia condonarci il nostro
peccato!
«E una voce si fece udir dalla
nube, che parlò ad essi in tal guisa: - Donna, tu hai peccato soltanto per affetto
all'uomo, che io ti ho comandato di amare, ed hai posta in me la tua fede. Io
ti perdono, ed anche a lui, mercè tua. Ma udite, voi non riporrete più il piede
in quel luogo di delizie, che io avevo creato per la vostra felicità. A cagione
della disobbedienza vostra, ecco, il malvagio ha invaso la terra. I figli
vostri, condannati a patire e a romper le glebe in penitenza del vostro fallo,
intristiranno nel corso dei secoli e dimenticheranno il mio nome. Non piangere,
o donna; il dì della clemenza verrà. In quel giorno Visnù prenderà umana veste
nel grembo d'una figlia tua, recando a tutti la mia parola, e con essa la
speranza di un premio futuro e il modo di alleviare i lor mali nella ardente
preghiera.
«Raffidati dalla voce di Brama,
si alzarono i due piangenti da terra e ripigliarono la via dell'esilio. Ma da
quel giorno, furono costretti a duro travaglio, per ottenere il nutrimento dal
suolo.
«E giusta il comando di Dio, si
venne popolando la terra. I figli di Adìma e di Eva si moltiplicarono ed
intristirono per guisa, che più non poterono durarla in pace tra loro.
Dimenticarono essi il nome e le promesse di Dio, ed egli si stancò finalmente
del rumore di loro aspre contese. La sua folgore tuonava tra le nubi, salutare
ammonimento ai perversi; ma gli uomini non conobbero la voce di Brama, e il re
Dayta non si peritò di scagliare le sue maledizioni alla folgore,
minacciandola, se non tacesse, di salire co' suoi guerrieri alla conquista del
cielo.
«Allora il Dio deliberò
d'infliggere alle sue creature un tremendo castigo, che fosse d'insegnamento ai
superstiti e alla discendenza loro. E avendo rivolto lo sguardo sulla terra,
per conoscere tra tutti l'uomo non indegno della celeste clemenza, vide il
giusto Vaiwastata e si rallegrò delle opere sue.
«II virtuoso uomo, l'unico che
ancora temesse ed onorasse il Signore, faceva le sue mattutine abluzioni nelle
sacre acque della Viriny. E in quel mezzo, un pesciolino, dalle squame lucenti
di vivi colori, venne a lui con le ultime spume del flutto.
«Salvami, disse il pesciolino a
Vaiwasvata, imperocché i più grossi di me, che vivono nel fiume, minacciano
d'ingoiarmi.
«Impietosito, il sant'uomo lo
colse, lo ripose nel vaso di rame, che gli serviva ad attinger acqua dal fiume,
e lo portò sotto il suo povero tetto. Ma il pesciolino incominciò a crescere ad
occhi veggenti, per modo che, non bastando un più capace vaso a contenerlo più
oltre, Vaiwasvata fu costretto a recarlo in uno stagno vicino.
«Uomo virtuoso e benefico, disse il
pesce, che andava crescendo a dismisura, portami nel Gange.
«Come lo potrei io? chiese
Vaiwasvata. Io non ho forza da tanto.
«Fanne la prova! rispose il
natante. E Vaiwasvata, poi che l'ebbe preso tra le palme, lo sollevò agevolmente e lo portò nel gran fiume.
Ora il mostruoso pesce, non pure era leggero come un fuscellino di paglia, ma
spandeva intorno le più soavi fragranze. Donde il sant'uomo pensò che quello
era messaggio di Dio, e stette in attesa di mirabili eventi.
«Difatti, non andò molto che il pesce
gli chiese di essere trasportato all'Oceano. E contentato nel suo desiderio,
disse allora a Vaiwasvata: Odimi, o santo. Il mondo sta per esser sommerso nei
flutti e i suoi abitatori moriranno. Affrettati a costruire una nave e chiuditi
in essa coi tuoi. Togli teco i semi di tutte le piante e una coppia di tutte le
specie d'animali, tranne di quelli che nascono dai vapori e dalla putredine,
imperocché il loro principio vitale non emana dalla grand'anima dell'universo;
poscia attendi fiducioso le sorti.
«L'uomo giusto fece ogni cosa
secondo i comandamenti ricevuti, ed egli e la sua famiglia furono campati dalla
rovina delle acque, sulle estreme vette dell'Imalaya. Visnù vi ha salvi da
morte, disse il pesce che era stato guida alla nave; per sua intercessione,
Brama ha fatto grazia all'umanità; andate ora a compiere i voleri di Dio e
ripopolate la terra.
«Così fu, come aveva disposto
l'Eterno che fosse. E cent'anni dopo la rovina delle acque, visse il savio
Adgigarta, nipote di Vaiwasvata, uomo pio e temente il Signore.
«Egli abitava nella contrada di
Ganga, e quantunque volte sorgesse l'aurora, o cadessero i crepuscoli della
sera, Adgigarta si riduceva in luogo appartato, nel profondo delle selve, o
sulle rive dei sacri fiumi, per offerirvi olocausti al Signore. Colà, prostrato
dinanzi all'ara, dopo aver pronunziato sommessamente il mistico Aum, che è
l'invocazione all'Altissimo, egli scioglieva l'inno della Savitri.
«- Signore dei mondi e delle
creature, accogli l'umil preghiera del tuo servo, distogliti un tratto dalla
contemplazione di tua eterna possanza. Un solo dei tuoi sguardi purificherà
l'anima mia.
«- Vieni a me, così che io oda la
tua voce nello stormir delle foglie, nel mormorio delle correnti, nel crepito
della fiamma consacrata.
«- L'anima mia ha mestieri di
respirare il purissimo alito che emana dalla tua grand'anima. Ascolta la mia
invocazione, Signore dei mondi e delle creature.
«- La tua parola sarà più dolce
al mio spirito assetato, che non le lagrime della notte alle arene del deserto,
più soave che non la voce della madre al bambino.
«- Vieni a me, tu, la cui mercè
fiorisce la terra e maturan le biade; per cui si svolgono i germi e scintillano
i cieli; per cui le madri pongono alla luce i dolci nati e i savi conoscono le
virtù.
«- L'anima mia ha sete di
conoscerti e di liberarsi dalla sua spoglia mortale, per godere la beatitudine
celeste, per essere rapita nella tua luce. -
«Indi, rivoltosi al sole, che
sorgeva glorioso sulla via del firmamento, così cantava il savio Adgigarta:
«- O radiante e splendido sole,
accogli quest'inno che io sciolgo alla tua virtù senza pari. - Accogli, te ne
prego, la mia invocazione; scendano i tuoi raggi a visitare il mio spirito
desioso, come un garzone innamorato che vola ai primi baci della donna diletta.
«- O sole, o tu che illumini la
terra, e la cui luce feconda ogni cosa, proteggimi.
«- Meditiamo il tuo mirabile
splendore, o purissimo sole; rischiari esso e volga alla sua meta il nostro
intelletto.
«- I sacerdoti, con olocausti e
cantici, t'onorano, o purissimo sole; imperocché la mente loro scorge in te la
più bella fra le opere di Dio.
«- Avido di nutrimento celeste,
io imploro con umili preghiere i tuoi doni preziosi, o sublime e fulgido sole!
-
«Così pregava Adgigarta, uomo pio
e caro al Signore. E Pavàca, il suo sapiente maestro, gli disse un giorno,
nell'atto di dargli in presente una giovenca senza macchia e inghirlandata di
fiori: - Ecco il dono che Brama ci raccomanda di fare a coloro i quali hanno
posto fine allo studio dei Veda. Tu non hai più mestieri de' miei insegnamenti,
o Adgigarta; pensa ora ad ottenere un figlio, il quale possa compiere sulla tua
sepoltura le cerimonie, che ti schiuderanno la dimora dei cieli.
«Padre mio, rispose Adgigarta, e
come lo potrei io, il quale non conosco donna veruna? Il mio cuore ha sete di
affetto, ma non sa a cui rivolgere la sua prece.
«Io ti ho data la vita
dell'intelletto, disse a lui di rimando il maestro; ecco, io ti darò quella
eziandio della felicità e dello amore. Mia figlia Parvàdi risplende fra tutte
le vergini per saviezza e beltà. Dal dì che nacque, io te l'ho destinata in
moglie; i suoi sguardi non si sono ancora soffermati sopra alcun uomo, e
nessuno ha veduto mai il suo volto leggiadro.
«Giubilò nel suo cuore Adgigarta,
ed impalmò la bella Parvàdi. Scorsero gli anni senza che nulla venisse a
turbare la loro felicità. I loro armenti erano i più vistosi della contrada: le
loro messi benedette da Dio. Solo una cosa mancava ai loro voti; Parvàdi era
sterile. Invano ella era andata in pellegrinaggio all'onda sacra del Gange,
invano aveva ella pregato; e l'ottavo anno di sterilità si appressava, dopo
cui, giusta la legge, dovea ripudiarla come disutil compagna il marito.
«Triste nel profondo dell'anima,
Adgigarta tolse un giorno il più bello fra i capretti dell'armento, e andò in
luogo appartato, a farne olocausto al Signore. - Mio Dio, disse egli, non voler
separare ciò che tu stesso hai unito.... E null'altro poté aggiungere, poiché i
singhiozzi soffocavano le parole.
«Ma ecco, in quella ch'egli si
rimaneva colla faccia a terra, gemendo e invocando il Signore, una voce si udì
dalla nube: - Torna alle tue case, Adgigarta; imperocché Dio ha ascoltato la
tua preghiera ed ha compassione di te.
«Ora, tornando il savio alla sua
dimora, vide farglisi incontro Parvàdi, tutta sorridente e lieta, come da lunga
pezza non gli era più occorso vederla. E chiestole il perché di quel suo
mutamento, n'ebbe da lei in risposta: - Un uomo affranto dalla stanchezza è
venuto pur dianzi a posarsi sotto il nostro pergolato. Io gli ho proferto
l'acqua limpida, il riso e il latte che si offre ai viandanti. Ed egli mi ha
detto partendo: il tuo cuore è triste e i tuoi occhi sono rossi dalle lagrime;
ma statti di buon animo, imperocché di te nascerà un figlio, al quale tu
imporrai il nome di Viashàgana, ossia nato dalla elemosina; ed egli ti serberà
l'amore di tuo marito e sarà l'onore del vostro legnaggio.
«A sua volta Adgigarta raccontò
alla moglie ciò che gli era occorso nell'ora del sacrificio, ed ambedue si
consolarono pensando che le loro angoscie stavano per finire e che l'un d'essi
non sarebbe stato disgiunto dall'altro.
«Nacque il figlio aspettato, e fu
il solo del suo sesso, quantunque Parvàdi allegrasse ancora di numerosa prole
la casa benedetta. E come il fanciullo ebbe raggiunto il dodicesimo anno,
Adgigarta volle condurlo sulla montagna con sé, per render grazie al Signore e
sacrificargli un capretto, il più bello che fosse nell'armento.
«Ed ecco, mentre valicavano un
folto bosco, si abbatterono in una tenera colomba, caduta dal nido, che stava
per esser la preda di un serpe. Viashàgana si gettò allora sul rettile, lo
uccise d'un colpo col suo vincastro e ripose la colombella nel nido. La madre,
che aliava tutt'intorno riempiendo l'aria di strida, ringraziò con verso mutato
il pietoso fanciullo. Ed Adgigarta giubilò nel profondo del cuore, vedendo come
il figlio suo fosse prode e buono dell'animo.
«Poi che furono sulla vetta del
monte, si dettero ambidue a raccattare la stipa e i sarmenti per l'ara del sacrificio.
E in quel mezzo, il capretto, che avevano condotto per l'olocausto, ruppe il
suo vincolo e si appiattò tra i cespugli, cosicché non fu più dato rinvenirlo.
E allora Adgigarta disse al figliuolo: - Ecco la stipa pel sacrificio, ma
oramai ci manca la vittima. Vanne tu al nido della colomba che hai salvata
poc'anzi e portala a me, perché io l'offra al Signore, in luogo del capretto
fuggito.
«Viashàgana era già per obbedire
al cenno del padre, allorquando la voce sdegnata di Brama si udì. - Perché comandi
tu ciò al figlio tuo? Avreste campato la colomba dalle fauci del serpente, solo
per imitar questo nella sua malvagità? Colui che distrugge in tal modo i suoi
benefizi, non è degno di me. Tu hai peccato, Adgigarta; in penitenza del fallo,
immolerai il figlio tuo su quest'ara!
«Il che udendo Adgigarta, si
contristò grandemente. E caduto a terra, nell'impeto del dolore, gridò:
Parvàdi! o diletta mia! Che dirai tu, quando io tornerò solo alla soglia
domestica? che potrò io risponderti, quando tu mi chiederai del nostro amato
figliuolo?
«E in tal guisa si dolse fino a
sera, non potendo risolversi a compiere il funesto sacrifizio, né osando
disobbedire all'Eterno; mentre Viashàgana, d'animo saldo oltre l'età, veniva
pregando il padre che volesse immolarlo, giusta il comando divino. A ciò
finalmente si dispose Adgigarta; con mano tremebonda legò il fanciullo
all'altare, e già, brandito il coltello di pietra, stava per ferirlo alla gola,
allorquando Visnù, sotto la forma di una colomba, venne a posarsi sul capo
innocente. - O Adgigarta, diss'egli, rompi i legami della vittima e disperdi la
stipa raunata. Iddio è contento della tua obbedienza; e tuo figlio, per la
fortezza dell'animo, ha trovato grazia appo lui. Viva egli lunghi anni e
felici, imperocché dalla sua discendenza nascerà l'aspettata Devanaguy, nel cui
seno io ripiglierò forma mortale, per la salvezza degli uomini.»
|