Altro aggiunse, narrando, il
savio che aveva tra mani il simbolico fiore del loto. Parlò della incarnazione
di Visnù, che già era l'ottava, dopo la creazione del mondo. Egli era venuto
(diceva), egli era venuto, il divino Paramatma, ossia l'anima dell'universo,
nella prima ora del Cali yuga, che era la quarta età del mondo; egli era
venuto, più dolce del miele e dell'amrita celeste, più puro dell'agnello senza
macchia e del labbro d'una vergine; egli era uscito dal grembo della Devanaguy,
ed aveva riconciliato Brama con la sua creatura. Un fremito sovrannaturale
aveva invaso l'aere ed il suolo; voci misteriose avevano dato l'annunzio ai
santi eremiti nei boschi; i Gandarvi avevano fatto suonar l'etra di loro
celestiali armonie; le acque del mare avevano esultato dai gorghi profondi; i
venti si erano infusi di elette fragranze; al primo vagito di Crisna la natura
aveva riconosciuto il suo alto signore.
Così aveva proseguito il savio
dal fiore di loto, e i due venerandi compagni avevano chiarito quanto ci fosse
nelle sue parole di conforme alle loro istesse dottrine. Avevano inoltre notato
come que' santi veri fossero antichi di antichità sterminata, e come
quell'ultima teogonia risalisse a mille e più anni addietro, fin oltre la
medesima età che assegnavano alla lor torre delle lingue i sacerdoti degli
Accad. Invero, quei superbi figli di Cus, venuti per mezzo alle arene del
deserto sulla terra di Sennaar, poveri di storia, o dimentichi del loro
passato, non avevano fatto altro che accogliere le sparse leggende e i primi
racconti degli Aria, confusi insieme con le sparse memorie dei nomadi figliuoli
di Sem, per gustarne il senso arcano e far dell'impuro miscuglio un fondamento
alla loro mostruosa idolatria. Ben più antica soggiungevano i tre savi velati
essere la stirpe umana, che non la facessero i Casdim; la luce del vero esser
dono d'Oriente, siccome la stessa luce del sole.
Dicevano; ma il giovine Ara, o
non udiva già più i loro profondi ragionari, o molto confusamente li udiva, e
senza coglierne il senso. In quella guisa che per vapori esalati sul far della
sera dalla superficie d'un lago, s'ingombra di fitta caligine la silenziosa
convalle, così a grado a grado, lentamente, erasi offuscato l'intelletto del
giovine. Ammirato da prima, colto al fascino di quella grave parola, aveva
seguito con avida cura il discorso del savio, siccome avrebbe ascoltato, là
nella sua reggia d'Armavir, la canzone d'un poeta, o il racconto d'un ospite
pellegrino, o un passo delle prime istorie della sua stirpe dal labbro d'uno
scriba ossequente. Ma a poco a poco un'insolita stanchezza, un torpore, quasi
un senso grave d'ebbrietà, gli eran venuti serpeggiando nelle fibre, gli
avevano intorbidita la mente e prostrate le forze. Di tratto in tratto tentava
riscuotersi; qua e là afferrava una frase, un concetto, ma senza poter
altrimenti seguire nel suo corso il ragionamento dei tre venerandi. E quelle
frasi, quei concetti slegati erano come faville, che guizzano e si disperdono
nel buio; passavano davanti agli occhi della sua mente e fuggivano.
Si avvidero i tre dello stato in
cui era il re d'Armenia, e ad un lor cenno si fece innanzi il coppiere,
profferendogli la tazza ospitale, colma d'un liquore verdognolo. Bevve egli
avidamente a ripetuti sorsi, e si sentì come rinascere. La bevanda aveva grato
sapore; dava senso di frescura alle fauci
riarse, e, destandogli le forze languenti, gli snebbiava altresì l'intelletto.
Così almeno a lui parve.
- Bevi; - gli diceva frattanto uno dei tre; -
tu hai d'uopo di rinfrancarti le membra e lo spirito. Le prove ti riuscirono
faticose e la parola del vero ti è tornata molesta....
- Non già! - si affrettò il re
d'Armenia a rispondere. - Cara mi è giunta, come mi fu sempre caro di udire gli
insegnamenti dei savii. Le vostre parole, o venerandi, neppur mi vengono nuove
del tutto; esse mi ricordano, sebbene alla lontana, cose già udite nella mia adolescenza,
dal labbro di santissimi uomini, tra' miei monti natali.
- Il vero, - rispose quell'altro,
- è come il sole; esso spande un raggio della sua luce dovunque. Del resto sono
a noi congiunti di sangue gli Armeni, non già derivati dalle genti della pianura,
come favoleggiano i Casdim. Questi vanagloriosi credono di aver essi popolata
la terra, essi, gli ultimi venuti nel Sennaar, su questa foce del gran fiume
ariano, che inonderà, fecondandolo, il mondo. Vogliono esser diga; saranno
soverchiati e dispersi. Come Dio è uno e trino, così una e trina è la verità.
Iran, Javan, Mesraim, il Gange, l'Arasse ed il Nilo, si collegano per abbattere
la mostruosa possanza dei figli di Nemrod. La tua schiatta, o re, procede dal
nobile ceppo degli Aria. Il forte Aìco avrebbe egli dovuto pugnare contro
l'esercito di Nemrod, se gli eroi dei due campi fossero stati del medesimo
sangue? Disgiunti di famiglia e nemici allora, durano nemici pur sempre; e,
quel che è peggio, non sono più pari, come allora le forze. Troppo è divenuto
possente il popolo di Kiprat Arbat, e nella isperata felicità di sue sorti
vagheggia ambizioso la padronanza del mondo. Ogni terra, felice di popolo, di
naturali dovizie, e di utili industrie; Tiro e Sidone, coi loro drappi di
bisso, tinti nei vaghi colori della porpora; le isole del mar d'occidente, coi
loro candidi marmi e col più meraviglioso candore delle bellissime schiave;
Mesrairn, co' suoi nobili aromi e coi finissimi lini; Ofir, con l'oro e col
cedro; Bakdi, coi poderosi cammelli e colle gemme preziose; l'India lontana,
con le sue molli lane variopinte e co' tenui veli intessuti d'argento;
l'Armenia, co' suoi corsieri veloci come il soffio della tempesta: ecco le
invidie, i desiderii, le cupidigie di questi ladroni. Nuotano essi nelle delizie,
si sprofondano nelle voluttà, imperocché li affida il genio guerresco di
Semiramide, che rassodi le prime conquiste e ne faccia di nuove all'intorno,
vuoi con aperte guerre, vuoi con infinte alleanze ed amicizie.... le quali
pagan tributo.... -
Ara sentì il colpo e chinò gli
occhi a terra, senza risponder parola. Frattanto quell'altro proseguiva,
incalzando.
- Ah, facil maestra d'inganni è
costei! La sua bellezza, che, la mercè di arcani filtri, resiste alle ingiurie
del tempo e sfida gli struggimenti delle protratte vigilie, è pari all'albero
della morte, al cui meriggio posando, l'incauto pellegrino, s'addormenta in
eterno. Te pure, o generoso, ella ha colto ne' suoi lacci, come altri prima di
te. Ma costoro negl'incantesimi suoi perdettero solamente la vita: tu perdesti
la vita in pari tempo e l'onore della tua fortissima schiatta. -
Udì le dure parole il re
d'Armenia, e non ne prese sdegno, siccome qualche ora innanzi egli avrebbe pur
fatto. Ma il dubbio, atroce dubbio, gli lacerava il cuore; ma la fede in quei
tre uomini velati gli era cresciuta nell'anima. Infine, non dovevano costoro,
potenti sugli spiriti invisibili, dargli le chiare, le certe, le
incontrastabili prove di tutto ciò che asserivano? Queste prove attendeva, a
queste mirava, di null'altro gli importava in quel punto. E il capo gli ardeva;
il sangue ribolliva nelle vene, gli martellava concitato alle tempie.
- Lasciamo di me! - gridò egli,
che temeva, desiderava, e ad ogni modo, per quelle dirette allusioni del suo
interlocutore, sentiva vicina la catastrofe. - Di lei, dell'amor suo, della
fine di Sandi, io vi chiedo; non per altro son io disceso quaggiù. Perdonate, o
venerandi, alla mia impazienza, alla mia soverchia cura di cose terrene; ora io
non sono già più signore di me. Mi avete soffiato il dubbio nell'anima;
mostratemi il vero; esso sarà sempre meno acerbo del dubbio. M'ingannò quella
donna? E sia; svanirà il mio sogno, cadrà la mia corona nel sangue, morrà con
me la stirpe d'Aìco.... Ma che io n'abbia le prove! Che il vero, l'amarissirno
vero, mi si mostri in tutta la sua dolorosa pienezza!
- Tu lo vuoi, e sia! - disse il
savio dal fiore di loto. - Virtù dormenti della natura, idee madri di ciò che
è, incancellabili parvenze di ciò che fu, ripigliate forma visibile davanti
agli occhi del re. Gli sia mostrato da voi quanto egli ebbe di più caro sulla
terra; e così vivamente, che i sensi di lui, offuscati finora dal dubbio, non
ricusino più oltre la testimonianza del vero. Schiuditi, adunque, misteriosa
cortina, che ci nascondi il passato! -
Una mano invisibile fe' scorrere,
a quel comando, gli anelli della negra cortina, che partita in due si ritrasse
sui lati, lasciando scoperto un largo spazio nel mezzo. Nulla vide il re
d'Armenia là dentro; nulla più vide intorno a sé, il lume delle lampade
essendosi spento ad un tratto.
- Noi ti lasciamo; - disse la
voce del savio, allontanandosi da lui. - Volgi in quel nero spazio tutta la
possanza del tuo desiderio; aguzza lo sguardo, e prega Iddio che t'illumini. -
Il giovine Ara si sentì solo
un'altra volta. Tese l'occhio obbediente, rimase a lungo aspettando, e
finalmente gli parve che il buio si rischiarasse di mano in mano. Era dinanzi a
lui come una superfìcie piana, levigata, ma trasparente in pari tempo e
profonda, entro la quale si veniva disegnando lentamente alcun che d'incerto e
di mutevole, incognito indistinto di ombre e di barlumi, di di forme e di
colori nascenti. Che voleva dir ciò? E come chiarire a sé stesso l'arcano di
quel doppio aspetto del piano e del profondo, del diritto e del concavo? Avea
trasparenza d'acqua tranquilla, ciò che egli vedeva; ma come poteva l'acqua
rimanersi in tal modo sospesa nell'aria, a somiglianza di velo? No, acqua non
era quella, per fermo; imperocché, come avrebbero potuto prodursi nel suo
grembo opaco quelle forme svariate, e crescere, illuminarsi, assumer contorni e
colori? Ecco, di fatti; alla sua destra si protendeva una massa scura, si
allungava il ciglione, si partiva in creste e sporgenze, indorate dal sole. Più
indietro erano colline digradanti, quali tinte d'azzurro, perché più lontane,
quali di violetto e di verde, seminate di punti bianchi e lucidi, che si
facevano più frequenti nel basso, verso la sponda d'un lago, la cui superficie
si vedeva increspata dalle lievi brezze del nascente mattino.
- Peznuni! - gridò il giovane,
compreso di maraviglia.
E tutto intento, ansioso,
palpitante per memore affetto, si stette egli rimirando quella magica scena,
che prendeva sembianza di vero davanti al cupido sguardo, e cercando con
assidua cura e ritrovando di mano in mano i cari luoghi, le balze sporgenti, le
insenature, i margini del lago, gli edifizii, e via via tutte le cose più
riposte, di cui gli tornavano in mente le immagini. Di pari passo con le sue
ricordanze, quasi rispondendo ai suoi desiderii, uscivano lucide forme dalla
vaporosa penombra, e il quadro si faceva sempre più vivo. Sì, erano quelli i
suoi monti; quella era la rocca di Van; quel colmo di case che biancheggiava là
in fondo, era Armavir, la sua diletta Armavir; quegli alberi verdeggianti eran
pure i sacri platani di Peznuni; quella candida striscia serpeggiante lunghesso
la sponda del lago, era il fiorito sentiero che egli adolescente aveva corso e
ricorso le tante volte in compagnia dell'amico.
E appunto allora, su quel noto
sentiero, vide egli affacciarsi da un ammasso di lieta verdura due giovinetti
che procedevano ilari e baldi, l'uno a fianco dell'altro. Vestivano entrambi ad
un modo e d'uno stesso colore; donde si sarebbe argomentato che fossero
fratelli. Senonché, l'un d'essi, alquanto più rilevato della persona e biondo
di capelli, alla dimestichezza con cui s'appoggiava sull'òmero del compagno,
appariva essere di più alto grado, e l'altro, notevole per le chiome corvine,
inanellate e lucenti, mostrava agli atti non essere dall'amicizia disgiunto
l'ossequio. Del resto, lieti ambidue di vivere insieme e tutti assorti nelle
tenerezze di un fraterno colloquio.
Poco stante si fermarono, ed Ara
rimase estatico a contemplarli. Vide allora l'un di essi recarsi tra mani un
cavo strumento di legno, che portava ad armacollo, e dalle corde, tese
sovr'esso, trar suoni con le agili dita. Era egli inganno dei sensi, o verità?
I suoni della cetra giunsero distintamente all'orecchio di Ara.
- Sandi! oh, Sandi! - gridò egli
commosso. E gli parve allora di non essere più al suo luogo, spettatore lontano
di quella scena del suo dolce passato. Si sentì, in quella vece, si vide vicino
all'amico, e immedesimato con quel biondo adolescente che sedeva sulle molli
erbe del prato, al fianco di Sandi, in atto di pendere dal suo labbro e dal
fremito delle corde canore.
- Prosegui! - diceva egli con
amorosa sollecitudine al compagno. - Grato m'è il suono della cetra, e più
grato il suono della tua voce. -
Ma Sandi aveva cessato; il suo strumento
giaceva a terra colle corde spezzate.
- No; - rispose egli all'amico. -
La mia cetra non ha più suoni; né più ha canzoni il mio labbro. Non vedi? Son
morto. -
E allora il re d'Armenia si fece
a contemplarlo, e un senso di raccapriccio gli corse per l'ossa. Sandi, il suo
Sandi, non era più il baldo, sorridente e roseo garzone, che egli aveva
conosciuto ed amato. La faccia aveva livida e gonfia; le membra, siccome
apparivano dalle lacere e lorde vesti, ammaccate e sanguinolenti. Nelle peste
occhiaie si sprofondavano le pupille smorte sotto le palpebre semichiuse; i
capegli, già sì neri e lucenti, si vedevano rappresi alle tempie, stillavano
acqua limacciosa lunghesso il tumido collo. Era il cadavere di un annegato, e,
orribile a vedersi, più orribile ad udirsi, il cadavere parlante!
- O Sandi! - gridò il re
d'Armenia atterrito; - Sandi, mio dolce amico, che è ciò?
- Ella mi ha ucciso; - rispose
Sandi, con voce cavernosa.
- Ella? chi?
- Atossa, la tua leggiadra ed
amatissima Atossa.
- Atossa! - balbettò Ara
tremante. - Io non t'intendo....
- Sì, - soggiunse il fantasma, -
non è egli forse questo il nome che la perfida donna assume, a nascondere i
suoi amori feroci? Vana cura del resto! Ella è ben nota in tutte le opere sue,
l'impudica. Ognuno la conosce in Babilonia, e la fugge. Si teme la regina e si
disprezza la donna. Però, non amore, ma ripugnanza per lei, per la notturna
cacciatrice degl'incauti stranieri!
- Ah! dici tu il vero? - gridò
Ara, ferito nel profondo dell'anima, e in quella parte più gelosa, che l'uomo
vorrebbe ascondere, non pure altrui, ma a sé stesso.
- Può il labbro d'un estinto
mentire? - gli chiese Sandi, con accento severo. - E, vivo ancora, hai tu mai
potuto notarlo di menzogna, l'amico della tua fanciullezza? -
E così dicendo, il fantasma si
veniva facendo più pallido nell'aspetto, più incerto ne' contorni, a guisa di
visione che si dilegui, o di sogno che abbandoni il capezzale d'un dormente.
- Ah no, Sandi, fermati, non mi
lasciare così! - proruppe Ara, tendendo le palme verso le amiche sembianze. -
Io non dubito già delle tue parole; dubito di me, della vita, di tutto, poiché
la mia fede in quella donna s'è scossa.
- Tanto ti aveva ella ammaliato!
- sclamò Sandi, tornando a lui e guardandolo con aria di profonda mestizia. - E
forse domani ancora....
- Ah no, non temere! Io non vedrò
più quella donna; lo giuro pei sacri platani di Peznuni; pel sangue di Aìco, lo
giuro. Uccider te, mio Sandi! Te, il più caro, il più nobile, il più affettuoso
degli uomini! E potrei io più avvicinarmi a costei, senza sdegno, accogliere i
suoi baci senza ribrezzo? Ma dimmi, - proseguì Ara, con accento peritoso; -
condona a chi amò, e credette di esser riamato, la molesta dimanda. Come ti
avvenne di conoscere costei? Come fu ella cagione della tua morte? La fama che
corse del triste caso in Armenia, non era dunque mendace?
- Assai meno del vero recò
intorno la fama; - rispose Sandi all'amico. - Ascoltami, o re, e vedi in chi
avevi tu posto il cuor tuo. Tu lo sai, dolce amico, che io non vedrò più sulla
terra; egli fu nello scorso anno, e nel primo giorno del mese di Bagayadisc (i
Babilonesi lo chiamano Ziggar) che noi ci demmo l'addio della partenza. Te
chiamava debito di figlio e di principe, al fianco del fortissimo Aràmo, sui
confini del settentrione, per castigare coll'armi gli irrequieti scorridori
Turani. Me vaghezza di cose nuove, amore di gloria, follia, trassero in quella
vece alla pianura di Sennaar. Oh, avess'io seguito il tuo affettuoso consiglio,
che mi chiamava ai campi di Masciag, per celebrare cogl'inni alati la virtù dei
combattenti, i corsi pericoli, le vittorie, i trionfi! Ma il Dio delle sorti
m'aveva posto le mani poderose entro i capegli, mi voleva, mi trascinava
quaggiù. E venni, acceso il cuore di liete speranze, l'anima riboccante di
auree canzoni; venni, e nel bosco sacro a Militta....
- Ah, com'io, Sandi, com'io'....
- Sì, pur troppo; egli è in tal
guisa che il giovine straniero si perde, che l'aquila della montagna si lascia
cogliere al laccio. Così la vidi, udii il suono delle sue dolci parole,
m'inebbriai nella voluttà dei suoi baci. E non sapevo credere a me stesso; la
mia felicità mi pareva un sogno, da cui dovessi col mattino svegliarmi.
Imperocché, come poteva egli accadere che un ignoto straniero, un oscuro
artefice di canzoni, giunto nel medesimo giorno alle mura di Babilu,
s'incontrasse in un tale miracolo di bellezza, e questo miracolo non gli fosse
conteso da mille rivali? Tutti que' baldi garzoni, fiorenti di gioventù e di
leggiadria, che s'accalcavano nel sacro recinto, in traccia di liete venture,
erano essi usciti di senno? Ma forse ella non si cura di loro, pensai;
destinata all'amor mio dal provvido volere di Militta, costei ha negletti gli
omaggi di così vani amatori. Diffatti, amano essi veramente, i figli di Babilu?
Amano essi, come noi amiamo, una volta sola nella vita, e per sempre? Così
pensavo; né le sue parole suonarono disformi dal giudizio ch'io facevo di lei.
Cercava affetto, ma invano, gagliardo e sincero come il suo. Ognuno in lei
vedeva e desiderava la regina, nessuno aveva amata la donna. Ed era sola, si
sentiva sola nel suo vasto impero, come un'isola deserta sul mare!.. -
Il re d'Armenia mandò fuori dal
petto un sordo grido che parve ruggito di belva, a cui il giavellotto del
cacciatore siasi conficcato nel fianco. Invero, quelle erano parole di
Semiramide; l'ingannatrice aveva così parlato anche a lui!
- Prosegui! - disse egli
impaziente. - Prosegui!
- Io l'amai, - ripigliò con
accento disperato il fantasma, - l'amai con tutto l'impeto del cuor mio giovanile.
Amante della donna, non venni meno all'ossequio dovuto alla regina. No; io te
lo giuro per l'antica amicizia; la vanità, l'ambizione non fecero velo ai miei
occhi. In lei non vidi, non conobbi che Atossa. Fu ella che non si tenne paga
di ciò, che mi volle ospite suo nella reggia. La donna che ama (fino a tanto
questo incendio le duri nel sangue) non sa, non può, non vuole celare l'amor
suo alle genti; ella se ne adorna come di un prezioso monile, al cospetto del
mondo; ognuno ha da scorgerlo, da invidiarlo eziandio; che monta, se domani,
infastidita, ella getterà lungi da sé quell'ornamento di un giorno? Così
apparve nella reggia il tuo Sandi, così fu assunto alla superba allegrezza,
agli splendori del vivere cortigiano; così fu festeggiato, accarezzato e fatto
segno d'invidia profonda. Ma egli, non mutato dal regio favore, agli ossequi
della moltitudine rispondeva con riguardosa umiltà, alle lodi dei grandi con
grata riverenza, ai sorrisi delle vezzose ancelle e compagne della regina con
modesto riserbo. L'innamorato garzone non vedeva che lei. Ed ella, come rispose
all'amor suo? Due lune erano trascorse, e Semiram non lo amava già più. Era
giusto! Un vil cantore d'Armenia!... Ma allora, perché innalzarlo fino al piè
del suo trono? Perché giurargli un'eternità d'affetto?
Pregata, scongiurata, si
schermiva, adonestava il suo mutamento con le assidue cure del regno o cogli
urgenti apparecchi di una guerra, che ella stava per muovere ai popoli
dell'estremo Oriente. Intanto, le care notti vegliate tra i pensili orti, di
contro alla dormente città, sotto l'azzurra vòlta seminata di astri lucenti,
erano finite per Sandi, ed egli gemeva solingo e negletto nelle sue stanze
obliate. M'intendi tu! Solingo e negletto! Così teneva fede a' suoi giuramenti
costei!
- Finisci! - incalzò il re
d'Armenia, con voce soffocata dall'angoscia.
- Sì; la storia è breve, oramai.
Una sera, atroci sospetti mi morsero, mi lacerarono il cuore. Se fossi
tradito!... Volli correre a lei, sincerarmi co' miei occhi medesimi, udire la
mia sentenza dalle sue labbra. Palpitante d'amore e di rabbia, balzai fuori
dalle mie stanze; m'avviai per un andito segreto, che conduceva agli
appartamenti della regina. Da più giorni ella mi aveva vietato di rifare quel
noto cammino; ma io non badavo già più al suo divieto. Il mio sangue ardeva;
non ero più padrone di me. Corsi, dunque, ma invano; l'uscio era sbarrato ed io
mi ritrassi impossente. Un dubbio, come lampo nelle tenebre, mi guizzò nella
mente. Uscii dalla reggia. Ero noto ai custodi, e mi dischiusero il passo. Dove
correvo io, in tanta angoscia, per le sterminate vie di Babilonia? Tu lo
indovini, o re; al sacro bosco di Militta, dove il cuore mi diceva che le gravi
cure del regno, i pensieri della guerra imminente, avesser tratta costei. Presago
mio cuore! Ben mi parve di ravvisarla colà, tutta chiusa nel suo candido pallio
di bisso, dal cui lembo traspariva la lunga stola violacea, frangiata
d'argento! Fuggì, quando mi vide, e il mio ignoto rivale con lei; di guisa che,
per mezzo alla calca dei felici, non mi venne fatto raggiungerli, e
gl'intricati meandri del bosco mi fecero perder la traccia. Era dessa; oh, non
si poteva dubitarne; era ella Semiram Gli occhi suoi balenarono attraverso il
fitto velo che la copriva, ed io sentii quello sguardo penetrarmi, gelida
punta, nel cuore. Ah mi fosse bastato quel cenno! mi foss'io rattenuto a quel
punto! Ma tu lo sai, Ara; l'amore accieca. Errai lungamente, ignaro di me,
della via percorsa, di tutto. Il di vegnente, ella era chiusa a consiglio co'
suoi ministri e capitani d'esercito, né mi fu dato vederla. Solamente sul far
della sera ella fece chieder di me, come per lo passato, e il mio cuore si
riaperse alla speranza, nello scorgere il muto messaggiero de' suoi teneri
inviti. Patimenti durati, collere e pianti, tutto dimenticai in un punto. Nella
sùbita ebbrezza, giunsi perfino a negar fede a' miei occhi; mi persuasi di aver
traveduto, la notte addietro, nel bosco di Zarpanit; la fede, raggio di sole
dopo i rovesci della tempesta, mi racconsolava lo spirito, cancellava ogni
passata tristezza. Così è l'uomo che ama! E giunse finalmente l'ora aspettata.
Uscii commosso, palpitante, dalle mie stanze, m'avviai per l'andito segreto....
Ah, maledizione! Avevo a mala pena oltrepassato l'uscio, non più chiuso tra me
e l'argomento miei desiderii, che il suolo mi mancò sotto i piedi. Brancolai,
tentando aggrapparmi da qualche lato, ma invano; io precipitavo nel vuoto,
trabalzato contro le liscie pareti d'un pozzo. La caduta era alta, quanto il
palazzo medesimo della regina, e fu tutta per me una lunga bestemmia, uno
spavento supremo, una feroce agonia. I ripetuti sbalzi, mi pestavano le membra,
mi fiaccavano l'ossa; lame corte e taglienti, infisse ne' muri, mi coglievano
al varco, mi spiccavano brandelli di carne. Finalmente ebbi tregua nella morte;
diedi un tonfo; larghe ondate mi schizzarono intorno, e i gorghi romorosi
dell'Eufrate si chiusero sopra di me. -
Le chiome si rizzarono per
raccapriccio sulla fronte di Ara, e un sudor freddo gli stillò per tutte le
membra.
- Orrore! - gridò egli, poiché il
doloroso fantasma ebbe finito il racconto. - Ma è una belva, costei?
- Ben dici, una belva. E tu pure
finiresti così, rimanendo.
- Ah, sarebbe il minor danno,
cotesto! Lontano da lei, non avrò io morte del pari? O Sandi, il mio cuore è
spezzato. Ma ella mi udrà.
- Non tentare la prova,
sconsigliato! Che potresti tu, solo ed inerme, contro la signora di cento
popoli? Che ardiresti tu, uomo e di nobil sentire, contro una donna? O ti
romperesti come una fragil canna nel pugno della offesa regina, o piegheresti,
come giunco, alle lusinghe della impura maliarda.
- Oh mai, te lo giuro! Ma dimmi,
consigliami, ombra diletta; che altro debbo io fare, che non dispiaccia alla
tua vigile amicizia?
- Fuggire; non già come pauroso cerbiatto
che teme lo strale del cacciatore, ma come leone che rompe le sbarre del
carcere e ripiglia la sua libertà. Va; mostrerai alla ingannatrice come a te le
sue male arti sian note. Rammenti l'oracolo di Peznuni, innanzi che tu
lasciassi Armavir?«La terra di Sennaar ti sarà fatale!» Torna alla tua reggia,
meno sontuosa, ma più ricca d'onore; lascia che costei si strugga nella sua
rabbia impossente, e farai, nelle tue, le vendette di Sandi. Ed ora, addio; ti
sovvenga di me!
- Già mi lasci?
- Sì: l'alba novella è vicina; il
dio delle ombre non mi concede più lunga dimora.
- O Sandi, mio diletto, non ti
vedrò io ancora una volta sulla terra?
- Forse! - rispose mestamente il
fantasma.
- E dimmi.... - aggiunse Ara
peritoso, come chi teme di chieder troppo; - non avrò io da te un pegno del
nostro colloquio?
- Dubiti ancora! - esclamò Sandi
con accento di rimprovero. - Orbene, eccoti il pegno. -
Così dicendo il fantasma si
appressò, pose le palme sugli òmeri di Ara ed accostò le labbra al suo volto.
Il re d'Armenia sentì, insieme
col bacio, l'impressione dell'acqua diacciata, che grondava dalle chiome del
morto; diè un grido di alto terrore e cadde esanime al suolo.
La visione era sparita; le
tenebre regnavano nel sotterraneo.
Poco stante uno scalpiccio, un
bisbiglio sommesso si udì; quindi apparve una face, portata da uno dei muti
custodi del luogo, e il suo chiarore illuminò i tre savi, tornati allora là
dentro. Il re d'Armenia appariva disteso a terra, colle membra prosciolte,
davanti alla negra cortina, che erasi richiusa da capo.
- Avrà egli creduto? - domandò il
savio che portava tra mani il ramoscello di amòmo.
- Non l'hai tu udito favellare
col fantasma? - disse a lui di rimando il compagno del fiore di loto. - Il
filtro ha fatto opera efficace su lui.
- Ma partirà egli? - chiese
ancora quell'altro.
- Ne dubiti? Io n'ho certezza.
Ardente e pieno di fede, come tutti i generosi, egli non vedrà più regina,
seguirà il nostro consiglio.
- Eppure....
- Eppure, t'intendo, tu vagheggi
sempre il disegno di ucciderlo.
- Sempre! Nemico ucciso non dà
più molestia.
- Nol nego; ma egli non è più
nemico.
- Nostro, concedo: ma mio, egli
non ha cessato di essere, per questo suo odierno corruccio contro di lei. Però
torno al mio primo consiglio; uccidiamolo. Badate, - soggiunse il savio dal
ramoscello d'amòmo, parendogli che gli altri due si rimanessero ancora
perplessi; - noi siamo uniti dal vincolo del vantaggio comune. Proseguiamo
tutti un medesimo fine; il mio non può non essere il vostro.
- Bada a te piuttosto, o Zerduste,
- rispose il savio dal fiore di loto. - Nella tua privata vendetta
naufragherebbe l'alto proposito che ci ha collegati. Rivale negletto di questo
giovane Armeno, a cui bastò mostrarsi per conquiderle il cuore, puoi tu fare
che ciò che è accaduto non sia? Tanto varrebbe comandare ai fiumi discorrere a
ritroso e rifarsi alle prime sorgenti. Dimmi: la tua maschia virtù, il tuo
antiveggente consiglio, ti avrebbero forse abbandonato di un tratto? Ameresti
tu sempre colei?
- No, t'inganni, o Sumàti.
Profondo, tenace, è l'odio mio, siccome fu un giorno l'amore. Così, non bevuto
a tempo, inasprisce il soave liquor dell'amòmo, e si converte in veleno. Ma io
temo ancora.... Lui vivo, potremmo viver sicuri?
- Lui morto, temiamone un altro;
- notò prontamente Sumàti. - Ella è donna, e, siccome avvien delle donne,
mutevole ha il cuore, sempre bisognoso d'affetto. Ma lascia che viva costui,
bellissimo fra gli uomini; lascia che, fuggiasco tra' suoi monti natali, si
manifesti a lei superbo spregiatore di sua facil conquista, e vedrai, vedrai
furore di donna, come alto divampa!
- Sì; - soggiunse il compagno che
aveva tra mani la foglia di papiro; - ben dice Sumàti. E spento da noi il re
d'Armenia, che altro avverrà, che giovi ai nostri disegni? Niente saprà la
regina del disprezzo di lui; sconsolata, lo piangerà, né certo si rimarrà dal
cercare gli autori della sua morte, per trarne aspra vendetta. Siam noi così
certi che i misteri della Triade non abbiano un giorno a scoprirsi, fors'anco
prima che l'opera nostra sia condotta a buon porto?
- Tu lo vedi; - ripigliò allora
Sumàti; - anche il savio Manète è contro di te. Cedi ai nostri consigli,
all'utile della causa comune. Infine, di che abbiam noi mestieri? Di che tu
stesso, o Zerduste, il quale gagliardamente ti adoperi per la liberazione della
tua Bakdi dal servaggio dei figli di Cus? Viva ed aiuti i nostri disegni il
pronipote di Aìco; egli è un nuovo e possente arnese di guerra contro i superbi
dominatori di Babilonia. Non lo dicevi tu stesso, ieri, mostrandoci la necessità
di questo rapido colpo su lui? Nemici avventurati di Babilonia furono un giorno
gli Armeni; sospettosi vicini durarono pur sempre; son tributarii oggi, ma
tementi di peggio, e preparati a resistere. La favilla che può destare
l'incendio sta in nostra mano, e noi la spegneremmo, dissennati, in quest'ora?
Lo sdegno di Semiram, la guerra all'Armenia; non è questa l'occasione fortunata
che attendono i tuoi, per ribellarsi al giogo? Ed in questo risveglio di popoli
soggetti, non è la nostra salvezza comune? Ai patti, Zerduste, ai patti, che tu
stesso hai giurati; e rammenta che il numero è legge. -
Così parlò risoluto il savio del
Gange, e Zerduste chinò il capo al voler dei compagni.
- E sia come a voi piace! -
diss'egli. - Così torni utile alla gran causa il vostro decreto, com'io mi
sommetto alla legge del numero. -
Ciò detto, si trasse in disparte.
E Sumàti frattanto, avvicinatosi al re d'Armenia, si chinò sopra di lui,
dandogli a respirar per le nari le acute fragranze d'una ampolla, che egli
aveva cavata pur dianzi dal seno.
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