Il mattino era sorto, restituendo
i colori smarriti alle cose. La vôlta celeste, con soavi trapassi, di
cenerognola che l'aveva mostrata il primo barlume del giorno, erasi venuta schiarando
in un bianco perlato, che verso oriente volgeva allo smeraldo, per mutarsi più
oltre in colore di fiamma, su quell'ultimo confine donde aveva a sorgere il
sole. Commosse al lene soffio della brezza mattutina, ondeggiavano le biade per
l'immenso piano; e qua e là, da un mare di lieta verdura, spuntavano le
castella lontane, i villaggi, i casolari, sparsi a guisa d'armenti sui pascoli.
Intanto, una lunga cavalcata,
uscita pur dianzi dal sobborgo settentrionale di Babilonia, risaliva di buon
trotto la strada maestra, lunghesso la riva destra del fiume. Già biancheggiava
davanti alla torma il villaggio di Lahirù; e l'astro del giorno, apparso in
quel mentre sull'orizzonte, mandava il suo primo saluto alle torri predilette
di Sippara.
Correvano frettolosi, volavano
via come il vento i cavalieri, coi grand'archi sull'òmero e le frecce
risuonanti nelle lucide faretre. Dinanzi a loro cavalcava un nobil garzone,
pallido, smunto le guance, accigliato e cupo il sembiante, pur tuttavia
bellissimo sempre a vedersi. Un'acerba cura, più assai che l'insonnia, segnava
di triste nota il suo volto, e lo faceva noncurante d'ogni cosa che il suo
pensiero non fosse. Difatti, mentre i seguaci suoi ad ogni tanto si volgevano
indietro sulle groppe dei cavalli, per rimirare ancora una volta la gigantesca
città, che si veniva illuminando alle loro spalle e sempre nuovi aspetti
assumeva ai crescenti raggi del sole, egli, il taciturno comandante, non dava
da quella parte neppure una fuggevole occhiata, e al premer convulso delle
ginocchia ne' fianchi del suo corsiero, al lentargli le redini sul collo,
pareva che avesse fretta di correre, di allontanarsi da un luogo odiato, o
temuto. Per contro, non badava ai compagni, se pronti d'ugual metro gli
tenessero dietro. Istintivamente faceva cammino, respirando a larghe ondate
l'aria frizzante del mattino, quasi a sneghittirsi le fibre; ma il pensiero
teneva sempre rivolto in sé stesso, e si faceva sempre più cupo, come chi, non
trovando la via per uscir di tristezza, si chiude disperato e si compiace nel
dolore che lo uccide.
Frattanto i mattinieri abitatori
de' campi, gli artefici borghigiani, in volta fra villaggi e castella, si
tiravano, essi e le cose loro, sui margini della strada; frotte di popolo
agreste si affacciavano dalle siepi fiorite; curiosi volti di donne apparivano
in sull'uscio dei casolari, per veder passare la cavalcata, di cui si udiva da
lontano lo scalpito.
- Chi sono costoro? - si diceva
qua e là, nella moltitudine degli astanti. - Ah, i baldi cavalieri d'Armenia, che
tornano ai loro monti natali. Giunti a mala pena ier l'altro! Breve dimora
hanno fatto essi nelle mura di Babilu! E il malka? Vedetelo; è quegli
che va innanzi a tutti loro, Ara il bello! Ara il prode! Viva in perpetuo il
leggiadro malka delle montagne! Invero egli è simile a Nebo, al malka della
vôlta azzurra. Ma come rannuvolato! che ha egli mai, che lo rende così triste?
Forse il dover partire dalla terra di Kiprat Arbat. Ma perché tornarsene così
presto? Le rose di Sennaarnon non avevano dunque fragranze per lui? Vedete;
egli neppure s'accorge della nostra presenza: non cura i saluti, non risponde
agli evviva. Orgoglioso è l'Armeno, come tutto il suo popolo. Pure, egli ha
dovuto scendere, portar tributo alla gloriosa regina degli Accad! -
Così dicevano gli abitatori dei
campi; e proseguiva Ara veloce, senza por mente alla turba curiosa, o dare
ascolto ai clamori, agli evviva.
Che era egli avvenuto? Come a
quell'ora già tanto lontano da Imgur Bel, colla sua gente raccolta e frettolosa
a seguirlo?
Ricuperati i sensi e riavutosi
dal suo smarrimento nel sotterraneo, il re d'Armenia aveva veduto daccanto a sé
il savio dal fiore di loto, non più velata
la faccia, che lo guardava con occhio amorevole e si studiava con paterna cura
di essergli utile.
- Santo vegliardo, - disse Ara,
crollando mestamente il capo, - la mia anima è triste fino alla morte.
- Suvvia, - gli rispose Sumàti, -
non ti perder d'animo, o re. L'uomo antico è morto quaggiù; tu rinasci da' tuoi
errori, più giovane, più ardito e più forte. La terra di Sennaar non ti sarà
più oltre fatale. Il destino è scongiurato, e qui, alle sacre fonti del vero,
tu hai attinta la vita.
- Ah! - esclamò il giovane,
sospirando. - E per che farne, ormai?
- Fanciullo! - disse il savio,
con piglio affettuoso, che temperava il rigore della parola. - E credi tu che
nulla più ci rimanga a sperare sulla terra, perché abbiam conosciuto menzognero
un affetto? Ma a che splende il sole nel firmamento? A che accese in noi il
creatore la fiamma immortale dell'intelletto, parte dell'anima sua? Sorgi e
cammina, o prediletta creatura di Brama! Non sei tu di quella casta d'uomini
ch'egli trasse dal suo medesimo braccio, perché avessero ad impugnare lo
scettro, per comandare alle genti, e farle gloriose e felici? Non ami tu il tuo
popolo? Non ricordi la tua reggia d'Armavir e i noti volti che ti sorrideranno
ossequenti al ritorno?
- Sì; - rispose Ara commosso; -
un Dio parla per le tue labbra, o venerando. Noi non nascemmo per noi. -
Così dicendo, aveva tentato di
sollevarsi da terra; ma non poté reggersi sulle ginocchia, barcollò e cadde tra
le braccia del savio, che fu sollecito a trattenerlo.
- Bevi; questo ti rinfrancherà; -
disse Sumàti, stillandogli sulle labbra alcune gocce da una fiala che aveva
tolta dalla cintura. - Ed ora, figliuol mio, adagiati su questa lettiga; mentre
tu ristorerai le membra affaticate nel sonno, i nostri uomini ti ricondurranno
fuori di qua.
- Dove? - chiese Ara, con atto di
ripugnanza, che non sfuggì all'occhio del savio.
- Oh, non già nelle tue stanze di
iersera. Gli spiriti invisibili che t'hanno dischiuso la via allo scampo, non
riaprirebbero certamente il cammino della tua perdizione. Quell'adito è chiuso
per sempre. Ti desterai in quella vece dove più ami vederti.... fra i tuoi.
- Fra i miei; - balbettò il re
d'Armenia, a cui già il sonno faceva gravi le ciglia: - fra i miei! Ma tu,
santo vegliardo, mi lasci?
- È necessario.
- Non ti vedrò io dunque più?
- In seno di Brama è il futuro; -
rispose solennemente il savio dal fiore di loto. - Dormi, o re d'Armenia, e
dimentica! -
Il vecchio era sparito; ed Ara,
poco stante, dormiva profondamente, in quella che i muti custodi del
sotterraneo, alzata la lettiga sugli òmeri, si disponevano a condurlo
all'aperto.
Allorquando il re d'Armenia si
risvegliò da quel sonno letargico, egli era disteso su d'un letto di piume, in
una camera adorna di sontuosi tappeti e morbide pelli di fiere. Pendevano sopra
il suo capo, raccolte a festoni, le ampie cortine di un padiglione di porpora;
lucerne di forbito rame spandevano per la camera un mite chiarore. Attonito,
volse gli occhi lungamente in giro, e riconobbe il suo posatoio della prima
sera, nell'edifizio fuori la cinta di Nivitti Bei, dove era smontato ad
alloggio co' suoi.
Ma, per qual via era egli giunto
colà? Come si trovava egli adagiato in quel letto? Aveva egli sognato dapprima,
o sognava in quel punto?
Mentre egli era in cosiffatte
incertezze, Bared gli si fece innanzi ossequioso. Il suo fidato Bared appariva
vestito di tutto punto, in arnese da viaggio, con la sua fascia di lana intorno
ai lombi e la spada pendente dal fianco.
- Tutto è pronto! - diss'egli.
Il re d'Armenia lo guardò
trasognato. Ma Bared non volgeva gli occhi su lui.
- Che cosa? - domandò allora il
re.
- Il corteo, mio dolce signore; -
rispose Bared, inchinandosi. - I cavalli sono in ordinanza sulla via, e i
cavalieri fermi in arcione. I cammelli, coi bagaglioni, son già da un'ora in
cammino.
- E.... - balbettò Ara,
stupefatto, - perché tutto ciò?
- Ma.... - soggiunse umilmente
quell'altro; - non sei tu sceso stanotte al mio capezzale, per comandarmelo?
- Io?
- Sì, mio signore. Invero, tu mi
parevi turbato oltremodo. «Suvvia, mi dicesti; svegliati, o Bared, e fa che
tosto si alzino i nostri uomini. Bisogna partire innanzi giorno; si torna in
Armavir; tra un'ora ci metteremo in cammino. «Furono queste le tue parole; non
le rammenti? Temendo di alcun triste caso che ti fosse intervenuto, ardii
chiederti il perché dell'improvvisa partenza. Non m'hai risposto; io mi sono
affrettato ad obbedirti; ed eccomi qua, pronto ai tuoi cenni. -
II re d'Armenia stette alquanto
sopra di sé, mentre Bared parlava, e richiamò alla mente smarrita tutte le
confuse memorie di quell'orrida notte. Furono allora argomenti di tristezza
ineffabile, paurose visioni, acutissime spine che gli si strinsero al cuore.
Così la cerva trafelata, poiché vanamente ha tentato di sottrarsi allo stuolo
de'cacciatori, s'arresta e vede d'ogni banda segugi in volta, cavalli
accorrenti, ed archi tesi, che le fanno piover sopra un nembo di strali.
- Io non ho parlato a Bared; -
pensava egli in cuor suo; - ma come potrebb'egli essersi ingannato a tal segno?
Ah, certo egli è Sandi, che gli ha recato il provvido avviso, il suo volere si
compia! -
E balzò prontamente dal letto;
indossò la tunica bigia, listata di rosso, che gli profferiva il suo fido;
cinse la spada; imprigionò i capegli nella mitra di nera pelliccia, ornata al
sommo da un mobil ciuffo di penne; si gittò il mantello sugli òmeri, e uscì e
si affrettò per le scale, fino all'ingresso, dov'era il suo cavallo bardato;
tutto ciò senza far moto, con rapidità fulminea, con atti convulsi. Indi a
pochi istanti era in arcioni e spingeva il generoso corsiero a galoppo; gli
altri tutti dietro di lui, in ordinanza serrata, verso la porta settentrionale
della città.
Così erano partiti; ed Ara,
spronando il cavallo di là dalla porta di bronzo, non avea pur vôlto indietro
lo sguardo a rimirar Babilonia, la maravigliosa città che egli abbandonava per
sempre. Un misto di odio e di raccapriccio, più ancora di rabbia e fastidio di
sé, gl'ingombrava lo spirito. Pur di sottrarsi a quella oppressura, avrebbe
amato uscir di senno, addormentarsi in perpetuo, non essere.
Povero cuore umano! Com'è egli
sempre schiavo delle sue medesime finzioni! Ma infine, e non son esse la parte
migliore della vita? E il cuore che fosse assoluto signore di sé, non
regnerebbe egli nel deserto? Invero, senza questa eterna cagione di pianti, che
sono gli affetti nostri, le fantasie, i rapimenti, gl'inganni, il cuore sarebbe
da paragonarsi ad una solitudine ignuda. Ahimè, così sia dunque; amare,
pensare, vivere, e sempre soffrire.
Un senso di sollievo, comunque
leggiero e tutto materiale, era pel giovane il correre, volar via, fendere la
brezza del mattino, in groppa al suo palafreno, docile agl'impulsi, saldo alla
fatica, siccome tutti i cavalli d'Armenia, celebrati allora per forza e
rapidità singolare nel mondo.
Bello è il corsiero, e veramente
degno dell'amore dell'uomo. Nobile e generoso, si acconcia di buon animo ai
voleri del suo signore; servo ossequente, non vile, ama e non lo dice, ma ne'
suoi grandi occhi umidi è un'eloquenza ineffabile. Delicato e sensibile, un
nulla lo turba, gli fa arricciar le nari, drizzar le orecchie e correre un
tremito per tutte le membra; ma una parola, un grido, un incitamento
lievissimo, gli fa vincere ogni tema, squassar la criniera e pigliare il
galoppo contro l'ignoto pericolo. Ha terrori femminei, ed impeti virili. Amico
dell'uomo, sia che ci porti a ritrovo d'amore, sia che ci tragga in battaglia,
o ci scampi da inseguenti nemici, intende le ansie, i palpiti, i moti tutti
dell'animo; partecipa ai nostri affetti, agli sdegni, ai dolori; non si lagna
della nostra crudeltà momentanea, poiché ci sente accorati; patisce ogni
disagio, poiché ci vede soffrire con lui; sfida animoso la morte, cade sfinito
di stanchezza, o coperto di ferite per noi; pago d'uno sguardo compassionevole,
lieto di un'ultima carezza su quel poderoso suo collo, madido di sudore e di
sangue.
Va, corri, Tiglat; divora la via,
generoso corsiero. Il tuo signore è triste, come notte d'inverno nelle gole
dell'Ararat; lontano, assai lontano da Babilonia, potranno aver le sue membra
un'ora di riposo, non il suo spirito un istante di tregua. Ben più sereno
dell'animo tu l'hai portato a volo sui combattuti campi di Masciag, contro le
schiere fuggenti dei predatori Turani. Va, corri, Tiglat; divora la via, perché
oggi ti converrà fare un doppio cammino. Dopo una breve sosta alle case di Is,
la cavalcata proseguirà veloce fino alle mura di Erech. E domani? Domani
toccherete ai confini della terra di Naraim, dove a nessun cavaliere che parta
da Babilonia sarà più dato raggiungervi.
E via, frattanto; volavano via i
cavalli sonanti tra nembi di polvere, allontanandosi sempre più dalla vista di
Babilonia. Era bella, l'immensa città, splendida ai raggi del sole nascente,
vero giardino di delizie, innalzato sovr'archi giganteschi alla gloria di Belo.
Bella era e splendida, piena di
delizie per tutti i popoli che accorrevano alle sue mura; ma non più doveva
esser tale per la sua gloriosa regina! Quel dì, giusta il costume, la celeste
Semiram erasi alzata per tempo dai molli riposi. Il corpo aveva di donna, ma
virile la tempra, e sapeva mandare di pari passo le morbidezze del vivere
femminile, con le aspre fatiche del campo e le gravi cure del consiglio.
Asterse le membra nei limpidi lavacri, raccolte in lucide anella le chiome,
radiante di fresca bellezza e di senno maturo, aveva chiamati alla sua presenza
i ministri, deliberato sulle faccende più rilevanti della città, udito le
novelle dei corrieri, giunti nella notte dalle più lontane contrade.
Senonché, quel giorno, una nuova
cura, e più dolce, la faceva impaziente. Udì a mala pena gli avventurosi
messaggi; impartì brevi comandi e facili perdoni; né prestò lungamente orecchie
alle lodi, che lo scriba le riferiva essere state incise su nuovi marmi,
dall'ossequio dei governatori delle provincie.
Sola alfine, chiusa negl'intimi
recessi del suo appartamento, ritornò ai geniali apparecchi della conscia
bellezza. Cosa agevole ad intendersi nello stato dell'anima sua, ella era così
sicura di sé, come in passato; bene lo specchio le veniva ripetendo, con la sua
muta eloquenza: «sei bella» ma la regal donna non pareva contentarsi a quelle
testimonianze cortesi. Il pensiero correva malinconico alla sua giovinezza
perduta e le faceva temere vicini, presenti quasi, i futuri oltraggi del tempo.
Eppure ella vedevasi allora nel pieno rigoglio delle sue irresistibili grazie,
l'invidiata rosa di Sennaar; in quella stagione che la donna apparisce più
bella, siccome il fiore più smagliante sul ramo; in quello che può dirsi il
riposo nella maturità, così lieto di vivaci colori, così liberale di soavissimi
effluvi; più bella, insomma, più giovane che non fosse da prima, imperocché
l'amore, come occhio di sole, la illuminava, penetrandola, ringagliardiva in
lei le fonti della vita; donde lo scorrer veloce del sangue nelle tumide vene,
il perlato splendor delle carni, il vermiglio sulle umide labbra, il baleno
negli sguardi profondi.
Salambo, la prediletta fra le
ancelle, bruna figlia del paese di Martu, le si accostò, le cinse il collo d'un
monile di perle, e sorridendo alla immagine della regina, riflessa di contro a
lei nel lucido disco d'acciaio, le disse:
- Mia dolce signora, nessuna
donna al mondo è più bella di te. -
Piacque la lode a Semiram, che la
ravvisava sincera. Indi, crollando il capo e sospirando con un suo garbo tra
malinconico ed umile, rispose:
- Ah, gli anni, Salambo volano essi, calano
implacati su noi, e ci rapiscono questi labili vanti!
- Che dici tu, regina delle terre
e dei cuori? Essi volano intorno a te, come spiriti benefici, e ognuno di loro
ti reca una grazia di più. Forse non vedi come sei desiderata da tutti,
accompagnata dagli avidi sguardi del popolo, da un mormorìo d'ammirazione
ovunque tu passi? Dall'ossequio dei grandi che ogni giorno s'inchinano a te,
non vedi tu trasparire la vampa degli amori che accendi? -
A quelle parole dell'ornatrice,
Semiramide si fece rossa in volto, siccome il frutto del melagrano.
- Oh, parer belle agli occhi di
tutti! - esclamò ella con accento d'allegrezza profonda. - Sì, gli è ciò che
piace a noi donne. Ma uno, uno solo, regni su noi. Schiavi tutti gli altri e
non degnati pur d'uno sguardo; egli signore nostro per tutta la vita!
- Tu ami, regina?
- Amo, sì, e sono riamata, non
pel mio serto regale, per me! -
II pensiero dell'ancella era
corso al tempio di Militta e all'incontro di Semiramide col bellissimo
straniero, nel quale Salambo, compagna alla regina nella sua notturna visita al
sacro recinto, aveva poscia riconosciuto l'ospite regale d'Armenia.
- Invero, - diss'ella, - se un
uomo era degno dell'amor tuo, per fermo gli è questi il leggiadro malka delle
montagne.
- Ah! - sclamò Semiramide, con atto
di stupore, che non aveva nulla d'ingrato.-E tu sai?...
- Perdonami, dolce signora!... -
balbettò confusa l'ancella. - I miei occhi....
- Hanno veduto; - interruppe la
regina, con un sorriso amorevole, che valse a rasserenare la turbata ornatrice;
- hanno veduto, e non è colpa il vedere. Infine, se io ho potuto amarlo la
prima volta che lo vidi, mi dorrò che Salambo lo abbia creduto degno dell'amor
mio?
- O mia regina, non t'ha
ingannato il tuo cuore; - soggiunse la bruna figlia di Tiro, inginocchiandosi e
baciando il lembo della veste di Semiramide. - Egli ha la soave bellezza, di
Sin, il benefico Iddio rischiaratore delle notti; né può dall'aspetto esser
diversa l'anima sua. Gloriosa signora, vivi felice in perpetuo! A te fu
propizia Militta Zarpanit, di cui tu sei la vivente immagine in terra.
- Va, mia buona Salambo, e gli
Dei ascoltino l'augurio. Va, ed Hurki, il capo degli eunuchi, annunzi al malka
d'Armenia che la regina lo attende. -
Sola, nel suo geniale ritiro, che
era bello a vedersi per marmi di svariati colori e tavole d'alabastro
nobilmente istoriate, lieto di acque zampillanti e della grata ombria delle
latanie e dei salici, che protendevano le foglie tinte di vivo smeraldo tra le
colonne dell'aperto loggiato, Semiramide attendeva il leggiadro suo ospite. E
seduta su d'un trono d'ebano, incrostato di pietre preziose, rattenuta la
bellissima guancia tra l'indice e il medio della candida mano arrovesciata a
sostegno del capo, ella stavasi meditando, godeva tacitamente in cuor suo,
pregustava l'allegrezza ineffabile del vedere l'amato, e scorgere su quel viso
i segni dell'interno tumulto, nell'atto di comparirle dinanzi. E così
procedendo di pensiero in pensiero, s'inoltrava nei vaporosi regni del futuro,
sognava gaudii infiniti, intravvedeva giorni di felicità senza pari.
V'ha una pianta nelle contrade
predilette dal sole, una pianta singolare tra tutte, la quale, nata in arida
terra, stenta anni ed anni il nutrimento, onde il suolo e l'aria le si mostrano
avari. Lentamente cresciuta, fa tesoro di elettissimi succhi; di poco
s'innalza, ma stende intorno e gonfia a dismisura le larghe foglie carnose, si
fa ricca di umori vitali, mentre tant'altri germi di più facile contentatura
sotto il medesimo cielo intristiscono. Ella ha un intento, la nobilissima
pianta; accumula, per prodigare; e infatti, dopo tant'anni di vita modestamente
operosa, germoglia e cresce dal suo grembo uno stelo, la cui cima rapidamente
sboccia e s'allarga in grappolo di fiori, onor dei deserti, allegrezza del
viandante che lo scorge da lontano, eretto a guisa di faro amico, sul faticoso
sentiero. Lieta fioritura, tanto più splendida, quanto fu più sudata! Che
importa, se, nascendo, ella prosciuga ed uccide il cespo materno?
Così la pianta umana; cresce, si
nutre, si rafforza per produrre il fior dell'amore. Ed è bello, è maraviglioso
il portato, quando tutto alla pianta umana sorride. Grandezza, onore, possanza,
umori vitali di cui la terra non è facile dispensiera per tutti, aiutano a
rendere il fiore più splendido, a far più solenne l'amoroso mistero.
Ed era lieta Semiram. Militta
Zarpanit l'aveva fatta felice oltre i suoi medesimi voti. Bellissimo era tra
tutti i viventi, generoso e prode, il destinato al cuor suo. Fervido,
nell'amicizia, insino alla follia, che non sarebbe egli stato nell'amore?
Qui, per altro, tornava alla
mente della regina l'ingrato ricordo di Sandi, la cui misera fine era stata a
lei rimproverata dall'ignaro garzone con temerarie parole. Ma non di lui si
doleva, bensì della malvagità profonda del volgo umano, inchinevole a credere
il peggio dei grandi, a rigettar su loro ogni vizio, a farli neri d'ogni
delitto. Ed esser tuttavia innocente, nonché della morte di Sandi, d'un solo
pensiero, di una parola, d'uno sguardo per lui! Invero, ella non aveva avuto altra
colpa in faccia all'estinto, fuor quella di che tanti e tanti potevano
accusarla ad un modo, d'esser bella, possente, e desiderata da troppi, vuoi per
dissennato amor giovanile, vuoi per proposito di sconfinata ambizione.
Difatti, qual era stato il caso di
Sandi? Tratto da desiderio di gloria, il giovine cantore di Peznuni era venuto
alle mura dì Babilu, era stato accolto nella reggia ed aveva cantate le glorie
della stirpe di Nemrud; ma più ancora quelle della leggiadra figlia di Derceto,
venuta d'Ascalona, nel paese di Martu, fino alla terra di Sennaar, per
assidersi, moglie di Nino, sullo splendido trono di Nemrod. Ben s'era ella
avveduta come il giovine Armeno avesse ardito innalzare fino a lei il cupido
sguardo e l'ambizioso desiderio; ma ciò, in quella guisa che non giungeva
nuovo, non doveva parere altrimenti strano alla donna; però, con quel giusto
riserbo che le inspirava il suo stato di donna e di regina, aveva mostrato nei
diportamenti suoi non addarsi di nulla.
Che pensasse egli di ciò, che
sperasse dai suoi inni fiammanti, ignorava Semiramide. Né altro le fu dato
saperne di poi, imperocché, uscito egli una sera dal suo cospetto, non
ricomparve più mai. La voce si sparse della sua morte improvvisa; alcuni
pescatori del quartiere di Suanna avevano trovato il cadavere impigliato tra i
giunchi, in una insenatura dell'Eufrate; ciò erale stato riferito più tardi, e
non è a dire con quanto rammarico per l'animo suo compassionevole. Qual era la
cagione della miseranda catastrofe? Aveasi a vedere nel fatto una vendetta di
donna offesa, o d'uomo fieramente
geloso? Malagevole scoprire l'arcano; ed ella non volle pure indagarlo,
giustamente temendo non paresse altrui che ella troppo si curasse dell'amoroso
cantore. Ed ecco, ciò che ella aveva fatto per onesto riguardo, volgevasi
biecamente contro di lei! Inaudita perfidia! Ma il re d'Armenia, amato da lei
coll'impeto di un cuore che per la prima volta e liberamente si concede, non
era egli persuaso oramai della sua innocenza? Non aveva ella giurato, pei sommi
Dei, per la maestà del suo regno, per la testa dell'adolescente suo figlio,
cioè a dire per quanto una donna ha di più sacro al mondo, e meno volentieri in
simili casi ricorda? E dopo un tal giuramento, non doveva egli credere alle
parole dell'amata? Non aveva egli anzi mostrato di credere?
E tuttavia, quel ricordo, in
quell'ora, le tornava molesto, uggioso, come un presentimento di sventura. Lo
cacciò lungi da sé; volse l'animo a più liete immagini; si fece in cuor suo a
noverare i passi di Ara, che certo era in cammino per giungere a lei. Capriccio
infantile, che bene intenderà chi ha un giorno atteso l'arrivo di persona
amata; non altri.
In quel mentre, Hurki (il
guardiano, nella lingua degli Accad) comparve sulla soglia. Egli aveva la cera
sconvolta, appariva turbato e perplesso, come chi sa di recare un ingrato
messaggio. Quella era di fatti la prima volta che Hurki si presentava alla
regina, senza poterle dire: «il tuo comando è eseguito.»
Vide Semiramide il mutato
sembiante, e n'ebbe una stretta dolorosa al cuore.
- Orbene, che c'è? - dimandò ella
impaziente. - Il re d'Armenia?...
- Vivi in perpetuo, o regina! -
disse Hurki, prostrandosi a terra. - Il re d'Armenia non era nelle sue stanze.
- Ah! uscito forse a diporto fuor
della reggia.... - ripigliò Semiramide, con accento sospeso tra la dimanda e la
spiegazione.
- Gli eunuchi che vegliavano
nell'anticamera non lo hanno veduto uscire; - rispose Hurki, in atto di
rispettoso diniego.
- Che narri tu ora? - domandò la
regina.- E come non sarebbe egli più nelle sue stanze?
- Così è, mia clemente signora,
sebbene io non giunga ad intenderlo; gli eunuchi giurano....
- Vengano essi! - interruppe la
regina, che già più non sapeva contenersi.
Hurki si ritirò, inchinandosi,
mentr'ella, balzata dal trono, misurava a passi concitati il pavimento
intarsiato della sua camera.
Poco stante, i quattro eunuchi,
che erano rimasti a guardia dell'appartamento dell'ospite nelle due vigilie
della notte, e gli altri due che avevano dato ad essi la muta nelle prime ore
del mattino, comparvero al cospetto di Semiramide e si buttarono tremanti a'
suoi piedi.
- Il re d'Armenia? - chiese ella
con voce asciutta e piglio imperioso.
- Possente regina, vivi in
perpetuo! Abbiamo vigilato tutta la notte, nelle ore a ciascheduno assegnate;
né alcuno di noi vide uscire dalle sue stanze il regale tuo ospite. Per tutto
il mattino l'ingresso restò chiuso del pari, né ardimmo entrare non chiesti.
Al cenno di Hurki ci siamo inoltrati poc'anzi: ma il re d'Armenia non era nel
suo appartamento, e invano lo abbiamo cercato dovunque. Come ha egli potuto
uscire non visto, se la porta è chiusa e le pareti intiere? Per fermo, o egli è
esperto d'incantagioni, o Nisroc lo ha tratto a volo dal tetto sulle poderose
sue ali.
- Ben piuttosto con le sue lo
spirito negro del sonno vi ha chiuse le palpebre, servitori infedeli! E
l'ospite nostro, uscendo dalle sue stanze, vi avrà veduti giacenti a guisa di
ebbri sul terreno.
- Possente signora....
- Non una parola di più! Hurki, sian
posti sotto buona custodia i poco vigilanti tuoi uomini. S'indaghi il vero, e
se eglino hanno mentito, siano gittati nella fossa dei leoni. Così voglio;
andate! -
Esterrefatti, tremanti a verghe,
si alzarono i tapini e uscirono in silenzio dal cospetto della regina.
Ella stette alquanto sopra di sé,
mettendo lampi dagli occhi. Uscito! uscito, senza attendere un cenno di lei!
Imperocché, già non era da aggiustar fede alla favola degli eunuchi; né il re
d'Armenia aveva potuto sparire dalle sue stanze per virtù di magiche parole.
Uscito! e perché, così dimenticando l'invito della donna amata? Amata! Ma
poteva ella credersi tale tuttavia? L'uomo che doveva rimanere, ansioso,
impaziente, ma fermo, ad attendere la dolce chiamata, era uscito, in quella
vece, sparito ad un tratto, forse da più ore, senza curarsi di lei, né di ciò
che la sua assenza avrebbe dato argomento a pensare. Che dire de'suoi
diportamenti? Pazzo era, od ingrato?
E le ore scorrevano, e nessuna
nuova si aveva di lui.
Come leonessa ferita si raccoglie
a lambire le sue piaghe nel più profondo della macchia, ove forse morrà, e
tratto tratto con lunghi ruggiti accusa l'acerbità dello strazio, minacciando
aspre vendette a chi ardisse incauto avvicinarsi al suo covo, così la regina si
chiuse nelle sue stanze, per divorare non vista il suo dolore e la vergogna
dell'oltraggio patito. Lo scoppio dell'ira non doveva farsi aspettare più
molto.
Un'ora dopo, Ninia chiedeva di
vedere sua madre. Il regio adolescente soleva presentarsi al cospetto di lei
ogni giorno; ma soventi volte le cure del regno la distoglievano dal grato
uffizio di trattenersi in affettuosi colloquii col suo diletto figliuolo. Egli,
per altro, il giorno antecedente, non si era mostrato alla reggia, né forse
sarebbe andato così presto quel dì, se il savio maestro Zerduste, vedutolo di
ritorno dai palmeti di Gomer, e udito di ciò che gli era accaduto per via, non
gli avesse comandato di farlo.
Semiramide si ricompose
all'aspetto del figlio, e lo accolse con amorosa dolcezza.
- Che hai tu, madre mia? - gli
chiese egli, notando lo sforzo che ella faceva per mostrarglisi lieta.
- Nulla, mio Ninia; - gli rispose
la povera donna, prendendogli affettuosamente la mano.
- Oh. no; tu soffri! - disse a
lei di rimando l'adolescente. - Il tuo volto reca le tracce d'una cura
profonda; le tue mani ardono come per febbre....
- Non ti dar pensiero di ciò; -
interruppe la regina, ritraendo istintivamente le mani accusatrici; - io non ho
nulla, sai? non ho nulla. Le cure dell'impero sono molte, e la corona non è
sempre lieve peso alla fronte. Tu regnerai un giorno, mio diletto figliuolo, ed
allora.... Ma dimmi, piuttosto; donde vieni tu, ancora cosparso di polvere?
- Ah, mi perdoni la possente
regina! - gridò Ninia, arrossendo. - Son sceso or ora d'arcione, e impaziente
di vedere mia madre.... Sai? - soggiunse egli interrompendosi. - Ieri non ti
avevo abbracciata....
- E fu male; - ripigliò
Semiramide, baciandolo in fronte. - Troppo ti stai lontano dalla reggia, o mio
Ninia. Ieri, ad esempio, fu giorno solenne, e tu non eri al mio fianco, per
ricevere l'ospite tributario d'Armavir.
- Ah sì, l'ho veduto stamane! -
disse il giovinetto, con accento d'amarezza.
- E dove? - gridò la regina.
- Poco più oltre il villaggio di
Lahiru; - rispose egli allora, senza por mente alla subita commozione che
dipingeva di pallore il volto di sua madre. - La cavalcata volava via come il
vento. Generosi corsieri ha l'Armenia; ma superbi sono oltremodo i suoi re.
- Come? Perché parli tu in tal
guisa?
- Sì; - continuò l'adolescente; -
egli è passato davanti a me, e non si è pur degnato di volgermi lo sguardo,
sebbene le grida del popolo dovessero avergli fatto udire il mio nome. A che
tanto orgoglio in un principe tributario? Non sono io il figlio di Nino? Ma che
hai tu, madre mia? -
La domanda affettuosa di Ninia
non era fuori di luogo. Difatti, Semiramide si sentiva venir meno. Le forze che
ella aveva sollecitamento raccolte per resistere al colpo improvviso, si erano
consumate in quel momento supremo, ed ella ricadeva perduta sul trono, in preda
ad una commozione indicibile.
Così era egli partito? L'offesa
non poteva esser più grave. Nel cuor della notte, mentre gli eunuchi
nell'anticamera cedevano al sonno, egli era uscito dalle sue stanze, fuggito
dalla reggia, corso ai baluardi di Nivitti Bel per raunar la sua gente e
allontanarsi da Babilona, innanzi le prime luci del giorno. E come e quando
aveva egli potuto meditar quella fuga? Certo laggiù, nella sala del convito,
davanti a lei, mentre ella figgeva gli occhi amorosi nei suoi, per leggervi,
stolta, le promesse e i rapimenti d'un affetto profondo, immutabile.
E come sapeva egli infingersi! -
«A domani! gli aveva ella detto nel prendere commiato da lui. Debbo conferire
di gravi cose con te.» - Ed egli aveva ricambiato il dolcissimo invito con un
sospiro che pareva sprigionarsi dal cuore, e dirle tutto ciò che le sue labbra
non potevano in quel punto. - «Ed è la regina che mi parlerà domani?» aveva
chiesto. - «E te ne duole?» - «Oh no, soggiungeva egli tosto; ma le parole di
Atossa tornano più soavi al mio cuore.» - Così dicendo, l'aveva come involta in
uno sguardo d'amore infinito. E mentiva! Mentivano gli sguardi, mentivano le
parole, mentivano i sospiri!
Ma in chi ed in che cosa, creder
più oltre nel mondo? È egli dunque vero esser di tali uomini sulla terra, che
dotati d'un fascino pari a quello del serpente, tirano i cuori inesperti a
metter fede in esso loro, ne suggono avidamente il meglio e li gittano
avvizziti lungi da sé? Si mostrano e vincono; la resistenza è impossibile; che
anzi, è un desiderio, una voluttà, una beatitudine il cedere. Onnipotenza del
male! E i sommi Dei la consentono?
Ella, invero, non si sentiva
colpevole di arrendevolezza soverchia. In così solenne occasione s'era egli
offerto ai suoi occhi! Il tempio, il momento della preghiera a Militta, la
sovrumana bellezza di lui, il suo medesimo invaghirsi d'una donna velata, che
poté farle credere esaudito il suo voto, il regio sangue, la generosa foga
dell'animo, che pareva candido come la neve dei suoi monti natali, la soavità
dei modi, i sacri giuramenti, tutto aveva contribuito a soggiogarla. Quale
altra donna, cui fosse vuoto il cuore e desideroso d'affetto, non avrebbe
ceduto del pari? Ed ella erasi data in balia di quell'uomo, ella, Semiramide,
la fortissima donna, che in ogni altra occasione aveva saputo comandare a sé
medesima, tanto era avvezza all'impero!
E datasi appena, vedersi tradita!
Che più? Offesa nella profondità del suo nobile affetto, offesa nel suo pudore
di donna, offesa nella sua maestà di regina, nel cospetto della sua corte, agli
occhi del suo medesimo figlio! Di suo figlio anzitutto, che, inconsapevole,
veniva a recarle il colpo fatale! Ahi, povera donna, da quanta altezza le era
forza cadere!
- Nulla, nulla! - aveva ella
risposto a Ninia, nell'atto di aggrapparsi con le mani tremanti ai leoni alati
che servivano di sostegno ai fianchi del trono. - Non è che un lieve malore!...
Passerà; non temere!..
- Chiamo le tue ancelle? -
proseguì il giovinetto, con cura ansiosa.
Ma già Semiramide erasi riavuta e
balzava in piedi scuotendo alteramente il capo.
- No, figliuol mio. Per che fare
le ancelle? venga Hurki, e chiami egli i ministri dei miei voleri a consiglio.
Va, e statti di buon animo, o figlio di Nino, - proseguì ella, baciandolo in
fronte; - l'Armenia pagherà a caro prezzo la tracotanza degli stolti suoi re. -
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