Era già presso gli Armeni il
ventesimo quinto giorno di Adukanna, che i Babilonesi dicono Muna, o mese della
mano, perocché in esso si dà opera a raccogliere i frutti ond'è liberale la
terra.
Oltre un mese era dunque
trascorso dagli ultimi eventi narrati, e nelle ubertose convalli dell'Ararat
gli abitatori dei campi attendevano a mieter le spighe, pur dianzi maturate ai
cocenti raggi del sole. E tuttavia non erano lieti, come in simiglianti
occasioni suol essere il colono, che vede centuplicato il frutto delle sue
industri fatiche La gaia canzone dei mietitori non risuonava pei colli, nelle
ore del riposo tra gli affastellati covoni; le fronti apparivano pensose, le
braccia sollecite più dell'usato al lavoro. Così il villano, che sente
nell'aria grave la minaccia del nembo vicino, raduna il frumento battuto
sull'aia e lo ripone in fretta ne' capaci granai.
Ora, qual nube era apparsa
sull'orizzonte, che da Tarbazu a Nahiri e da Muhuzri a Milidda, per quanto è
vasta l'Armenia da settentrione a mezzogiorno e da oriente a occidente, faceva
così gravi i sembianti? E che s'aveva egli a pensare di quelle file di mandriani
che lunghesso i campestri sentieri guidavano a torme i cavalli verso le sponde
di Van? E que' fabbri intenti nelle officine a foggiar lame di spade e punte di
frecce perché tanto affrettavano essi i colpi dei pesanti martelli sul càlibe
infuocato?
Una voce era corsa, sommessa e
dubitosa da prima, indi a mano a mano più ricisa e più chiara, voce di guerra
possibile, di guerra imminente coi popoli della pianura. Gli Accad si
preparavano in silenzio alle offese, levavano gente dalle più lontane contrade,
ingrossavano verso settentrione, tra Sippara e Gutium, rimontando l'Eufrate.
Dove potevano essi volgere tanta piena d'armati, se non contro l'Armenia?
Inoltre, non erasi veduto, sugli
ultimi giorni del mese trascorso, ritornare a' suoi monti il giovane re, il dilettissimo
Ara, grave e severo come chi porti un triste presagio nell'animo? E non avea
bisbigliato una voce che egli fosse scampato a fatica, anziché liberamente
partito, dalle mura inospitali di Babilu?
Che era egli avvenuto al
pronipote d'Aìco, al più gentile dei re? Nulla di certo erasi risaputo
all'intorno. Giunto appena in Armavir, il principe si era chiuso nel silenzio
della sua reggia; né alcuno dei suoi sudditi, coi quali era, uso mostrarsi
affabile tanto e cortese, aveva potuto per giorni parecchi godere della sua
vista.
Da Bared, per altro, si era
avuto, sebben lieve, un barlume. Ai grandi del reame e ai governatori delle
città, congregati in Armavir, egli aveva parlato a un dipresso così: - Troppo
grave tributo chiede Babilonia agli Armeni, volendo rapire ad essi il più amato
tra i re. Già uno dei nostri, Sandi, il cantore, caro al popolo, caro al
monarca, fu vittima dei feroci amori di Semiramide. Ara il bello, il prode tra
i prodi, avrebbe corsa la medesima sorte. -
Così narrando, Bared aveva chiesto
ai congregati il silenzio. Ed essi l'avevano pure serbato, ma non tanto che non
ne trapelasse alcun che, subitamente raccolto dagli avidi orecchi del volgo,
sformato dal correre di labbro in labbro, e più facilmente creduto, quando si
buccinò di apparecchi guerreschi in Babilonia, o parve di scorgere in Armenia
che i governatori delle città intendessero a provvedimenti di efficace difesa.
Il presentimento di gravissimi
casi era dunque negli animi. E pareva cosa naturale ad ognuno. I venerandi Sos,
dedicati al sacro ministero nelle foreste dei platani d'Aramaniag, presso il
lago di Van, non avevano essi profetato, al tremolar delle foglie vocali, che
Babilonia avrebbe arrecato sventura al giovane re? Ed ecco si adempievano i
tristi presagi; la guerra non era indetta tra i due popoli, ma frattanto
s'indovinava, si sentiva imminente, come nell'afa estiva si sentono i segni
precursori della tempesta.
E frattanto, che diceva, che
lasciava intendere il re? Taciturno era giunto nella sua diletta Armavir; taciturno
era rimasto nella reggia, cupo, grave d'inesplorati pensieri. Senonché, alcuni
giorni dopo, egli era uscito dalla città, in volta per le provincie, e al campo
di Aiotzor lo avevano veduto star lungamente immobile, con le braccia conserte
sul petto, e gli occhi fisi sulla collina di Kerezinanc. Ora, sul campo di
Aiotzor, il suo grande progenitore aveva sconfitto l'esercito di Nemrod, e
sopra il poggio di Kerezmanc era caduto il gigante, trafitto dalla infallibil
freccia di Aìco. E da quella sosta pensosa, di cui nessuno aveva ardito
chiedere al re la cagione, tutti avevano cavato il pronostico delle sovrastanti
sciagure.
Oltre di che, il sembiante di Ara
vedevasi profondamente mutato. Certo, su quel nobile capo era stata gittata una
malìa. Popolo di maghi, il babilonese! Laggiù, comuni i sortilegi e gl'incanti,
e gli occhi, le labbra, i volti, le mani, esercitavano un influsso malefico.
E in questa occasione si erano
infiammati nel popolo l'amore e la devozione pel re, in quella guisa che una
leggiadra donna torna più cara ai riguardanti, se nube di tristezza le faccia
velo alla fronte. Ara il bello, così malinconico e grave, destava maggiormente
l'affetto dei cuori. E confusamente indovinando le cagioni della sua tristezza,
si malediceva a Semiram; in ciò prime le donne, che ognun sa più esperte e più
pronte degli uomini a scorgere la mano del loro sesso nei nostri mal celati
rammarichi. Un amore infelice diffonde una cert'aria sul nostro volto, che
elleno sole sanno intender che sia, poiché elleno sole hanno virtù di chiamarla
coi loro rigori, di scongiurarla coi loro sorrisi. Egli è forse per ciò che
l'uomo ferito d'amore, cioè a dire amato, o reso infelice da una, trova altre
in maggior numero, consolatrici volenterose, o rivali.
Così uomini e donne sentivano
pietà della mestizia di Ara; lo amavano sventurato, più assai che non lo
amassero felice da prima. E in tutti un tacito foggiarsi sul suo grande
contegno; un prepararsi istintivo agli eventi; un ansioso interrogar gli echi e
odorar l'aria infida della pianura.
Si era adunque sul finire del
mese di Adukanna, ed Ara viveva pensieroso nelle più solitarie stanze del suo
palazzo, donde si scorgevano le onde tranquille del lago di Van, allorquando un
drappello di Babilonesi giunse alle porte di Armavir e il suo capitano chiese
d'essere introdotto alla presenza del re.
- Venga! - disse Ara, a cui
l'annunzio repentino, quantunque da più giorni atteso, aveva cagionato un
turbamento indicibile, che non era già figlio di paura, sibbene di ripugnanza,
per un messaggio di quella donna così profondamente odiata e diletta.
Invero, egli amava quella donna
pur sempre. Creda ciò impossibile chi nulla sa dei fieri contrasti d'un affetto
gagliardo e delle arcane contraddizioni del cuore. Ei l'amava, esecrandola.
Impunemente non s'era egli accostato ai sacri misteri di Militta Zarpanit;
impunemente non aveva detto a quella bellissima tra le donne: «io t'adoro; la
dea ha assunte le tue forme, per farmi il più lieto o il più triste degli
uomini; qualunque cosa avvenga, sarò tuo, sempre tuo!» Bene erasi egli
allontanato dalla odiata regina, ma fieramente amando la donna; era fuggito, ma
recando lo strale confitto nella ferita. E voleva disprezzarla, e non poteva;
tanto olocausto non gli era dato di fare all'ombra amata di Sandi. L'amore è
possente come vin generoso, e più ancora che in altri, nel petto dei forti. Gli
Elleni, trovatori felici di profonde allegorie, dovevano adombrarlo nella veste
di Nesso, che s'apprende alle carni del semidio e si consuma nell'apprestato
rogo con lui.
Il re d'Armenia si circondò, per
ricevere il messaggiero babilonese, di tutti i grandi della sua corte,
guerrieri la più parte e cantori; quelli avvezzi a combattere, questi a
celebrare le gesta dei prodi.
- Venga il Babilonese! - dicevano
essi. - Reca egli messaggio di guerra?
- Forse; - rispose gravemente il
re.
- E tu, che gli risponderai,
nobile figlio di Aràmo?
- Quello che voi rispondereste, o
miei fedeli; pace a chi viene con amiche parole: guerra a chi cova sinistri
disegni.
- Guerra adunque vuol essere!
L'orgogliosa signora di Babilonia non può mandare cortesi messaggi agli Armeni.
- Ella ha costrette a tributo le
aquile della montagna! - dicevano i guerrieri. - Ha tentato di umiliare, nei
pronipoti loro, i domatori della superbia di Nemrod. Ella invidia le recenti
palme ai vincitori di Masciag, ai generosi custodi della pianura, contro le
irruzioni dei predatori Turrani!
- Ella odia la gente nostra; -
soggiungevano i cantori; - ella ha ucciso Sandi, il soave garzone, il signore
dei carmi, amico e fratello del re.
In quella che così parlavano
essi, cercando d'indovinare il messaggio imminente, comparve il babilonese
nella sala del trono. Indossava il candi, tunica rossa, frangiata d'oro sui
lembi, che gli scendeva ben oltre il ginocchio, e sovr'essa il sàrapo,
camiciotto di lana bianca, dalle corte maniche, le quali lasciavano scorgere
le braccia ignude e i polsi cinti d'armille d'oro. Le gambe apparivano chiuse
ne' saraballi, o schinieri di cuoio, fin sulla noce del piede, dove, sul fondo
rosso della calza di lana, salivano i correggiuoli incrociati dei sandali, le
cui suola si raffermavano alla pianta, la mercè d'un anello rigirato sul
pollice. Costui era per fermo uno dei primarii uffiziali di Babilonia, e ben lo
dimostravano il balteo lucente, la guaina leggiadramente lavorata e la tiara
biancodorata, i cui lembi, chiusi a soggolo, scendevano a coprirgli le guance
ed il mento.
Due guerrieri, armati di tutto
punto, seguivano l'ambasciatore. Uno di essi recava tra le mani una spada senza
guaina; l'altro un giavellotto dalla punta aguzza e lucente.
Ara, poiché il messaggiero gli fu
venuto davanti, ravvisò tosto in lui quel medesimo uffìziale che con larga mano
di cavalieri babilonesi gli era uscito incontro, per servirgli di scorta alle
mura della capitale di Nemrod. Che voleva dir ciò? Era egli caso, o meditata
ironia?
Seduto sopra il suo trono, che
era tutto coperto di negre pelli foderate di porpora, vestito a bruno egli stesso,
senz'auro segno di regio fasto che la sua benda di perle intorno alle tempio,
grave nell'aspetto come si conveniva all'attesa d'un grave personaggio, stette
Ara guardando l'inviato di Semiramide.
Il babilonese s'inchinò
profondamente, raccogliendo le braccia sul petto, indi così prese a parlare:
- Re degli Armeni, vivi in
perpetuo!
- Grazie a te, messaggero! -
rispose Ara, con piglio cortese. - Chi ti manda alla reggia dei figli d'Aìco?
- La gran Semiramide, cui Nebo
protegge, a cui Belo ha concessa la vittoria della spada e l'impero dello
scettro sui potenti della terra.
- Che gli Dei le concedano lunghi
giorni di vita. E che chiede essa da noi?
- Ragione della tua fuga; - rispose lo inviato. -
Sceso in Babilonia a portarle tributo, accolto nella sua reggia con animo e
pompa veramente ospitali, perché sei tu uscito dalla città e dal reame,
celatamente, a guisa di ladrone, e senza pur render grazie alla regina delle
oneste accoglienze?
- Altero parli, - disse a lui di
rimando il re, trattenendosi a stento, - più assai che a me non si convenga di
udire.
- Così m'è stato ingiunto, - notò
il babilonese, inchinandosi. - Pel mio labbro ti parla Semiramide, non io,
oscuro soldato che la possente regina degli Accad ha scelto ad interpetre de'
suoi alti comandi.
- Sta bene; - soggiunse Ara
concentrato. - E a donna non risponderò io come la giusta ira consiglia. Né
tutto dirò io ciò che penso; bada bene, non tutto! Ciò dunque rispondi alla
signora degli Accad: il re d'Armenia non esser fuggito dalla sua presenza,
bensì liberamente partito, come principe che aveva compiuto il debito suo. Più
non aggiungo; né mi dorrà che sembri scortese atto a' suoi popoli, ciò ch'ella
intenderà, se ben guarda, essere stato umano consiglio nel suo ospite d'un
giorno. Ora, che altro mi dice ella per le tue labbra?
- Tu hai niegato il saluto al
figlio di lei, nel quale t'abbattesti per via, fuor delle case di Lahiru; hai
usato villania al principe Ninia, all'erede del trono di Nemrod, al futuro
signore di tutte le genti, dimenticando che la montagna, come la pianura, è
soggetta all'impero degli Accad.
- Ah, non sarà! - interruppe Ara,
dando un sobbalzo, a quelle parole dell'inviato. - Regnino costoro su monti e
piani, donde sorge e dove tramonta il sole; a me non si spetta di contenderlo.
Ben so che i gioghi dell'Ararat sono e dureranno vergini di loro conquista,
fino a tanto cingerà spada il figlio di Aràmo.
- Tu dunque nieghi ai re di
Babilonia il tributo? - chiese il messaggero. - E non lo avevi tu recato
pur dianzi?
- Libero presente fu quello, e
pegno di amicizia, tributo non già! - rispose Ara sollecito.- Rammenti tu le
mie parole, alle porte di Babilù? «Nemici da prima e più e più volte alle
prese, furono i padri nostri coi re della vasta pianura; amici noi, se tali ci
accolgono: vassalli non mai!»
- Non farò contesa di vane parole
con te: - disse freddamente il messaggero. - Sia pure libero presente, e pegno
d'amicizia, come giova all'orgoglio aicano di chiamarlo; ma proseguirai tu a
darlo in futuro?
- Il futuro è in grembo di Zervane
Acherene! - rispose il re, con accento di mal frenata impazienza. - Chi può
dire oggi ciò che domani avverrà?
- Esso non è dunque nella tua
mente? - incalzò il babilonese. - Non nella fede giurata?
- Giurata! Quando? e da chi? -
proruppe il re, con voce tonante. - Bada a te, messaggero; la menzogna è sul
tuo labbro, e chi t'ha detto avere gli Aicani giurato un patto di servitù, ha
mentito al cospetto dei cieli. Ma, poiché egli bisogna dir tutto, - proseguì
Ara, tornando, sebbene a fatica, in sé stesso, e piegando la voce ad accento di
sottile ironia, - dimmi ancora: se io pure ti rispondessi che l'Armenia
seguiterà a pagare, come voi lo chiamate, un tributo, basterebbe ciò alla
regina degli Accad?
- No, difatti.... - rispose
quell'altro, - non basterebbe.
- Ah, - esclamò Ara sorridendo
amaramente. - E che altro si vuole?
- Che tu abbia a tornare,
scortato da noi....
- In Babilonia?
- No; al campo della regina, che
è di presente in Assur, nel paese di Nahiri. Colà, al cospetto di tutti i
popoli che seguono in armi la possente regina, tu giurerai fedeltà al trono
degli Accad, e quindi, tu e i successori tuoi, sarete prosciolti da ogni
tributo. Semiramide è generosa, non avida di ricchezze pel tesoro di Babilu.
Spesso ella dona in un giorno, ciò che dieci provincie potrebbero darle in un
anno. Tu vedi, o re, da ciò che ella chiede, come non la muova cupidigia o mal
animo contro le genti d'Armenia.
- Grande è Semiramide! - notò con
piglio sarcastico il re. - Se ella mi avesse chiesto cosa che tornasse a danno
del mio popolo, avrei recisamente negato. Ella chiede in quella vece la mia
umiliazione. E a ciò forse potrò io inchinarmi; - aggiunse, dopo essere stato
alquanto sopra di sé. - Ma che ne pensano coloro che m'hanno riconosciuto pel
loro signore? coloro che da me s'aspettano diportamenti degni del nome aicano?
A voi, grandi del reame, e governatori delle città, il solenne giudizio!
Rispondete liberamente al messaggero, e come l'utile del popol nostro
consiglia. Debbo io andarne al campo di Assur?
- Pronipote di Aìco, - disse
gravemente Vasdag, principe di Tarbazu, che è sulle rive dell'Eusino, - tu non
puoi giungere a mezzogiorno più oltre del campo di Aiotzor e della valle
memorata di Kerezmane.
- Colà, - aggiunse un altro, e
tutti i presenti assentirono, - dee piantarsi il tuo stendardo di guerra.
- Tu li odi? - chiese Ara al
messaggero babilonese.
- Ho udito; - rispose quegli, con
atto di commiato. - Semiramide prevedeva una simigliante risposta, e dal campo
di Assur vi annunzia i suoi alti disegni. Ella stessa verrà ben più oltre di
Kerezrnanc; verrà in Armavir e in quante città novera il reame dei figli
d'Aìco.
- Come ospite? - chiese
nobilmente Ara, alzandosi in piedi, poiché la conferenza accennava al suo
termine.
- Come vincitrice! - disse quell'altro,
con accento di minaccia.
E trattosi indietro, tolse dalle
mani dei due guerrieri il giavellotto e la spada, che gittò poscia solennemente
ai piedi del trono.
- Conservate questi segni di
guerra; - soggiunse il messaggero babilonese. - Semiramide verrà col suo
esercito a raccoglierli nel sangue vostro; e li consacrerà alla memoria di Bel
Nemrod, su quella rocca di cui veggo sorgere i fianchi dirupati dalle acque
del lago.
- Se non li riporteremo noi prima
al campo di Assur! - disse Valdag, alzando la spada e il giavellotto da terra.
- O in Babilonia! - aggiunse un
altro, tra le grida dei consenzienti compagni.
- Tacete! - gridò il re. - Non
s'addice ai prodi essere vantatori. Va, messaggero, al campo di Assur, e reca
alla tua grande signora che i figli d'Aìco, fidenti nell'armi loro e nella
giustizia dei Numi, attenderanno di piè fermo l'assalto. -
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