Era alta la notte, e migliaia di
fuochi, contendendo lo splendore agli astri del firmamento azzurro, brillavano
sulle colline di Aiotzor, ultimi contrafforti dei monti d'Armenia. Colà, presso
le sorgenti dell'Eufrate, vigilava l'esercito d'Ara, a custodia, delle sue
terre natali. Colà, diffatti, era a temersi l'assalto: per quelle strette erano
sempre venuti, risalendo il corso d'un gran fiume, i nemici della indipendenza
d'Armenia; su quelle rupi s'erano sempre inerpicati i guerrieri della pianura,
a molestare il nido dell'aquile aicane.
Il grande altipiano che si
innalza ad un tratto dalla contrada di Nahiri e da maestro vien digradando con
dolce declivio fino alle pianure che lo separano dalle catene del Caucaso, ecco
l'Armenia, detta negli antichissimi tempi Aiasdan, o vero sia il paese di
Aìco. Imperocché questo fu il progenitore della nobilissima schiatta, e da lui
doveva essa aver nome ed auspicii.
L'altipiano è intersecato da
catene parallele di alte montagne, e da più umili colli di dolce pendio. Le
valli interchiuse sono in parte strette e solitarie vallicelle, in parte larghe
e fertili pianure, come quella, ad esempio, cui bagna col suo rapido corso
l'Arasse. Una cosiffatta configurazione di terreno mal consentiva lo
stabilimento di un forte governo centrale, che signoreggiasse l'intiera
contrada, e più s'acconciava alla libera vita di indipendenti tribù, forti a
guerreggiarsi tra loro, deboli al cospetto di un possente vicino che le
assalisse alla spartita.
E i dominatori della pianura
avevano sempre avuto una ragione particolare a tentar simili assalti, essendo
che i corsi superiori dell'Eufrate e del Tigri giacevano entro le montagne
d'Armenia. Le quali, per contro, correndo da oriente a occidente, presentano il
loro più rapido pendio dalla parte di mezzogiorno, contrariamente alle catene
dello Zagro, le quali, rivolte a levante, declinano dolcemente verso la valle
del Tigri. Donde avviene che mentre lo Zagro invita gli abitanti della pianura
a tentare i suoi alpestri recessi, facili da principio, indi di mano in mano
più orridi e malagevoli, i monti dell'Armenia li respingono, con presentar
subito le maggiori difficoltà e ad un tempo il più squallido aspetto, e coi
fianchi rocciosi e le cime nevose appaiono insuperabile ostacolo ad un esercito
invasore. Per altro, e appunto perché chiudevano nei fianchi loro le sorgenti
dei due grandi fiumi del Sennaar, i monti occidentali offerivano la via più
accettevole agli assalitori del piano.
Per colà, dunque, avevano ad
inoltrarsi le schiere degli Accad. A quelle strette accennava chiaramente
l'esser eglino venuti ad oste in Assur, nella contrada di Nahiri. Già parecchi
giorni eran corsi dalla intimazione di guerra; già si era al principio del mese
di Garmapada, che i Babilonesi chiamano Tana, o mese del fuoco, e l'esercito
aicano, già preparato agli eventi, era venuto a chiudere i passi dell'alto
Eufrate, lunghesso i poggi e le gole di Aiotzor.
Centomila uomini avevano risposto
alla chiamata del re. Nessuno dei validi guerrieri era rimasto negli ozii
imbelli delle pareti domestiche. Le tribù tutte quante aveano mandato il fiore
dei loro combattenti. La regale Armavir e la sacra Peznuni, Tarbazu marinara e
Masciag educatrice di cavalli, le tre grandi provincie del paese, cioè a dire
la montuosa Urarti, la fluviale Adduri e la lacustre Mildis, con nobil gara
aveano dato di piglio all'armi. E sugli ultimi lembi della catena dell'Amano e
di quella dell'Arzanìa, che si raccostano da occidente e da oriente intorno
alle non lontane sorgenti dell'Eufrate e del Tigri, erano venuti a metter
campo i guerrieri. Sukkia, Laiuknu, Cartar, Izirtu, piccole città più vicine
alla stretta dove occorrean le difese, erano dense d'armati. Sarda e Zikartu,
provincie che guardano il mare del sole oriente, avevano dato i più destri
arcadori; dalle ampie valli dell'Arasse, generoso largitore di messi, eran
giunti a torme i più baldi cavalieri; i cittadini d'Armavir, portatori di
gravi loriche e di mazze ferrate, i montanari di Urarti, vestiti dal capo alle
piante di vellose pelli, e sicuri lanciatori di giavellotti, i valligiani
dell'Oronte, fiondatori valenti, erano accorsi ad ingrossare le file, tutti
frementi amor di patria, ed ira gagliarda contro gli audaci invasori.
Saviamente distribuiti da Vasdag,
il principe di Tarbazu, esperto condottiero, già amico di Aràmo e suo compagno
nell'armi, vigilavano essi a difesa del confine. Il grosso dei cavalieri si
raccoglieva nelle città e borgate, pronto ad accorrere dove più bisognasse; il
nerbo dei fanti si addensava nelle gole e agli sbocchi delle vallate; numerosi
drappelli d'arcieri accampavano sui greppi e lungo le digradanti costiere;
fanti e cavalli vigilavano sui poggi avanzati e nelle forre; esploratori,
scelti tra i più animosi e sagaci, s'inoltravano per l'ombre notturne, fino ai
primi paeselli della sottostante pianura.
Di là, si è già detto, bisognava
ai nemici farsi strada alle alture. Era stato quello il cammino seguito
anticamente dalle schiere di Nemrod; quello doveva essere altresì il cammino
dell'armi di Semiramide. Per mezzo a quei monti scorreva l'Eufrate, ancora
povero d'acque, ma più impetuoso per contro, chiuso com'era in più modesti
confini. Più giù, a mezzogiorno, seguivano collinette e rialti, biancheggianti
al mite chiaror della luna, tra i quali si andava svolgendo in lunga e tortuosa
striscia luccicante il gran fiume, per confondersi più oltre coi lembi estremi
della pianura, involta in una nebbia sottile e d'incerto colore. Quella ròcca,
che si scorgeva lontan lontano sull'orizzonte, era Assur, forte castello
edificato dai figli di Sem, già padroni della terra di Sennaar, indi cacciati a
settentrione dai feroci conquistatori della progenie di Cus.
E laggiù, in mezzo ai popoli
signoreggiati, la cui alterezza doveva rifarsi più tardi degli oltraggi patiti,
e da Ninive cresciuta in possanza offuscare le cadenti fortune di Babilonia,
laggiù ingrossavano da parecchi giorni le schiere che gli ultimi Cussiti aveano
raccolte da tutte le più lontane provincie del loro vastissimo impero;
attendevano laggiù, numerose come le arene del mare, minacciando da presso i
liberi monti d'Armenia. Non si scorgevano i fuochi delle innumeri schiere; ma
non le sentivano men vicine per ciò gli arcadori di Zikartu, che stavano a
guardia dei contrafforti dell'Amano, sulla collina di Lukdi.
Ora, mentre essi stavano
vigilando, ultime scolte dell'esercito aicano, e specolando all'intorno la
biancheggiante pianura, diè loro negli occhi un uomo che uscito da una macchia
d'arbusti, a lenti passi procedeva per un sentieruolo alle falde del poggio.
Veniva egli guardingo, come chi sappia d'essere in luogo pieno d'agguati e tema
di abbattersi in qualche drappello d'esploratori; per altro, non aveva
seguitato a rasentare la macchia, la cui ombra ancora per lungo tratto di
strada avrebbe potuto nasconderlo.
Chi era egli? Troppo misurato
negli atti. non era certo un guerriero dei loro; né tanto guardingo, da parere
uno spione degli inimici. Avvicinandosi sempre più lo sconosciuto, videro
ancora com'egli fosse inerme, e si giovasse di un lungo bastone ricurvo, alla
guisa dei pellegrini, che correvano mendicando di paese in paese, per andare a
sciogliere il voto a qualche tempio celebrato e lontano. Diffatti, egli
indossava una tunica modesta che scendeva poco oltre il ginocchio; e certo a
chi l'avesse veduto più da vicino, sarebbe apparsa lacera e rattoppata di
brandelli d'ogni colore. L'arnese che gli biancheggiava sul capo, doveva esser
la fascia rigirata intorno alle tempie, portata dai nomadi pastori del deserto,
a custodir la cervice dai cocenti raggi del sole; quell'altro che gli faceva
ingombro sugli òmeri, anzi che un mantello, doveva esser una di quelle bisacce,
nelle quali i pellegrini sogliono portare lo scarso viatico accattato dalla
umanità dei borghigiani, che loro hanno profferto l'ospizio.
Sì, forse egli apparteneva a
quella classe d'innocui viandanti; ma non poteva esser egli un nemico, che, più
audace degli altri, s'inoltrasse nel campo loro, argomentandosi d'ingannarli,
con la umiltà delle spoglie? Arte degli esploratori era questa; ma nel caso
presente assai poco sagace, dappoiché nei dintorni non era tempio, o santuario,
che potesse ragionevolmente attirare i viandanti divoti. Tre giornate ancora
egli avrebbe dovuto far di cammino, prima di giungere al tempio di Anaiti, in
Urfa, che era il più vicino di quei luoghi; ma neppur quella, che il viandante
seguiva, era la strada, bensì ad occidente, e più verso i piani di Assur, che
non verso le alture di Lukdi.
Così pensando, gli arcieri fecero
quello che ogni prudente soldato avrebbe fatto in tal caso. Due di loro si
dilungarono dal manipolo e si calarono per una insenatura del terreno da un
lato; altri due fecero il somigliante dalla parte opposta, e venendosi incontro
sulle falde del poggio, furono addosso al viandante con le spade sguainate.
Gli atti dello sconosciuto,
all'improvviso apparir dei soldati, mostrarono come non fosse mestieri di tanta
minaccia. Dato un passo indietro, più assai per prudenza che non per repentino
sgomento, egli alzò placidamente il capo e disse agli arcieri:
- Sia sempre con voi la vittoria.
Che volete da un povero pellegrino?
- Che chiedi tu piuttosto, in
quest'ora notturna, - dissero a lui di rimando gli arcieri, - inoltrandoti in
mezzo alle prime scòlte del campo aicano? Chi sei?
- Ve l'ho detto; un pellegrino.
- Ah sì! - esclamarono gli altri,
con piglio sarcastico. - E dinne; a qual santuario erano volti i tuoi passi?
- A quel di Peznuni, se non vi
spiace, - rispose lo sconosciuto; - ma non senza aver fatto da prima una sosta
alle tende di Aiotzor. -
Queste ultime parole soggiunse
egli sorridendo, con un fil d'ironia, che pareva una rivinta sui loro sarcasmi.
- E tu ardisci confessarlo! -
gridarono allora gli arcieri. - Ma sai tu che cosa si spetti ai pellegrini
della tua sorte?
- No, in verità, io non lo so; - diss'egli con
accento di candore.
- Odilo dunque; si cavano loro
gli occhi che hanno voluto veder troppo, si mozzano loro i piedi che hanno
tentato di farsi troppo oltre, e con le mani legate dietro le spalle a guisa di
vili malfattori, si lasciano sui campi, alla sferza del sole, in pascolo
agl'insetti, agli sciacalli, agli uccelli di rapina.
- Questa è giustizia per gli
spioni, - rispose lo sconosciuto, senza punto mostrarsi turbato; - ma io non
sono uno spione, e nemmeno, a dir vero, un pellegrino dei soliti... quantunque,
per giunger fin qua, io abbia dovuto mentirne le spoglie.
- La tua schiettezza si piglia
giuoco di noi! - gridarono stizziti gli arcieri. - Ma il tuo caso è grave; non
vieni tu dal campo di Assur?
- Per l'appunto.
- Sta bene, e noi ti condurremo
in vista delle tende di Aiotzor, dove egli ha da esser domani un mal giorno per
te.
- Sì, conducetemi pure laggiù; -
ripigliò il pellegrino. - Non vi ho io detto che quella era la meta del mio
viaggio? Ara il bello, che i santi Numi proteggono, sperderà i vostri negri
pronostici.
- Bada! - notarono gli arcieri,
in quella che, postolo in mezzo, lo conducevano per l'erta. - Non vede il re
chi vuole.
- E che? Non vive egli in mezzo
a' suoi guerrieri? Non partecipa egli ai disagi del campo?
- Sì, così vive Ara il bello; ma
gli stranieri non hanno a vederlo che per mezzo allo sfolgorar delle spade. E se
tu hai messaggi pel re, come di certo inventerai, per destreggiarti e causare
la croce, esci di inganno, tu non giungerai fino al re. Le gravi cose che ti
girano per la fantasia, le dirai a più umile orecchio, al capitano degli
arcieri di Zikartu.
- Ah, nulla a lui; tutto al re! -
disse lo sconosciuto, con accento tranquillo. - Ma via; troppo abbiam ragionato
di ciò; vediamo ora il vostro capitano, che certo sarà più umano di voi.-
La placida serenità del
pellegrino cominciava ad impacciare i soldati. Essi perciò non risposero verbo;
e borbottando, quasi a scarico di coscienza, confuse minacce tra' denti, si
avviarono con lui alla tenda del capitano.
Il mite raggio di Sin gli
illuminava in quel mezzo la fronte e la persona vestita di umili lane. Per
fermo egli era innanzi cogli anni, ma nol facevano parere tant'oltre il
portamento eretto e la carnagione olivigna, che conferiva alle fattezze sue
regolari e robuste alcun che della lucida rigidezza del bronzo. Lunghi, ma
radi, i peli del mento; povero l'arco delle soppracciglia; donde avevano più
lume i grandi occhi neri di smalto, dei quali ei si studiava dissimular la
vivezza, tenendo, quanto più gli veniva fatto, socchiuse le palpebre. Non era
un pellegrino mendico, lo aveva confessato egli stesso pur dianzi; ma certo
molte altre cose egli celava di sé.
Giunto alla tenda del capitano,
espose in breve ciò che già aveva detto agli arcieri; non esser egli ciò che il
suo aspetto mostrava, ma neppure un esploratore nemico; gravi cose recava, e
non poteva dirlo che al re, lo conducessero a questi, che, se mentitore, lo
avrebbe mandato a morte senz'altro.
La sicurezza dei suoi modi e l'accennar che faceva ad alti segreti, poterono
sull'animo del capitano più della naturale diffidenza. Laonde, comandato che
gli bendassero gli occhi lo fece montare a cavallo e con buona scorta de' suoi
uomini su per la via del fiume, condurre all'accampamento del re.
Già sorgeva l'aurora, tingendo di
ròsea luce le nevi eterne dei monti, allorquando l'infinito pellegrino giunse
guidato da' suoi custodi, in mezzo alle colline di Ajotzor. Era tutto intorno
un gaio spettacolo di tende d'ogni forma e colore, di cavalli condotti ad
abbeverarsi nel fiume, di guerrieri in moto, di bagaglioni o di servi intenti
alle cure del campo, di scudieri che forbivano armature, di trombettieri che
davano allegramente nelle lor trombe di rame.
La tenda del re, sormontata da
un'asta al cui sommo sventola una lunga e sottile striscia di porpora, era sul
poggio più eminente della convalle La cavalcata mosse a quella volta, e come fu
giunta alla meta, si calò d'arcione il pellegrino e gli fu tolta la benda dagli
occhi.
Parecchi ufficiali del re stavano
a crocchio davanti alla tenda. Uno di costoro, alla vista del nuovo venuto,
impallidì, torse lo sguardo e si allontanò chetamente. Era egli Bired, lo
scudiero, il fedel servo del re.
Il pellegrino non pose mente a
cotesto, abbagliato com'era da tutto quel tramestio d'armi e d'armati, e sovra
pensiero per l'imminente sua introduzione al cospetto di Ara. Diffatti, a mala
pena gli uomini della scorta, ebbero detta agli ufficiali la cagione della loro
venuta, uno di costoro entrò nella tenda, e tornò poco stante, annunziando al
pellegrino che il re consentiva a vederlo.
Ara il bello! ahi quanto mutato
da quel di prima! Il dolore aveva sfiorata la morbida guancia; l'interno
struggimento gli si leggeva nella fronte corrugata e nel torbido lume degli
occhi.
Vide egli il pellegrino o n'ebbe
un soprassalto al cuore. Tosto congedò Vasdag, il savio principe di Tarbazu,
che era presso di lui, e accostatosi al nuovo venuto, con voce sommessa ma con
accento concitato, gli disse:
- Santo vegliardo, tu qui?
- Io, sì; - rispose il
pellegrino; - ed ho posta a repentaglio la vita, per giungere fino a te,
recarti una nuova e darti un consiglio.
- Parla! - disse a lui di rimando
il re.- Ciò che viene dallo tue labbra è triste, ma vero. E se gli è un altro
dolore che tu mi rechi, sii ringraziato del pari. -
Profferite queste parole, con
accento malinconico, ma con piglio veramente regale, Ara, additò al vecchio uno
sgabello vicino al suo, invitandolo a riposarsi. Il vecchio gli volse uno
sguardo lungo od intenso, donde trasparivano insieme affetto e tristezza,
fors'anche rimorso; indi, ubbidiente, s'assise.
- Necessario è talvolta recar
dolore altrui; - rispose egli poscia. - Non siamo noi sempre arbitri degli atti
nostri e delle nostre parole; gli Iddii ci guidano il braccio e c'inspirano il
labbro, quando a sanare, quando a ferire. Fu voler loro che per noi ti
apparisse la dolorosa verità; io stesso, umile strumento in mano dei santi
Numi, fui primo a sentirne rammarico. Odimi ora; ciò che m'era dato di fare per
utile tuo, la mia presenza tel dica. Lieta novella io ti porto. La superba
donna che ha posto le sue tende in Assur, pronta a rovesciare su te l'impeto
delle sue fortissime schiere, sta per vedere domato il suo orgoglio feroce.
- Che dici tu mai?
- Ier l'altro, - ripigliò
gravemente il vecchio, - ier l'altro, sesto giorno del mese di Tana, detto da
voi Garmapada, la rivolta è scoppiata in Babilonia. Oggi, forse, tutto il paese
di Sennaar ha già innalzato lo stendardo della ribellione, il trionfo delle
nazioni soggetto è vicino.
- Ma come?- dimandò il re
d'Armonia, che quell'annunzio inaspettato riempiva di stupore.
- A Babilonia, - rispose il
vecchio, - spiacque l'intimazione d'una guerra, che tutti sapevano cagionata da
un corruccio di donna; d'una guerra che gli antichi esempi fanno temer
disastrosa. La sconfitta o la morte di Nemrod erano presenti all'animo di tutti;
né si dimenticava che, or fanno pochi anni, lo stesso Nino, il marito o re di
costei, sebbene covasse in cuor suo la vendetta e meditasse di sterminare fino
all'ultimo rampollo la progenie d'Aìco, avea dovuto divorar la sua rabbia,
dissimulare l'impotenza sua con amorevoli messaggi e liberali concessioni ad
Aràmo, al tuo gran genitore. Conservi Aràmo la sua potenza tranquillo, dicevano
i messaggi; abbia egli diritto di portare la benda di perle e sia secondo dopo
di noi. Così, sebbene potentissimo, temeva Nino di cimentarsi all'impresa. E,
lui morto, ardisce la vedova sua romper guerra agli Armeni? Nemica del suo
popolo è costei, non madre, se, per far vendetta sopra un amato garzone, non
dubita, di immolare le più nobili vite di una contrada, cui ella, al postutto,
è straniera. Così il popolo di Babilonia, poiché ella fu uscita dalle porte;
così ingrossarono l'ire, così crebbero facilmente a tempesta. Indegna del trono
fu dichiarata costei dai maggiori della città; indegna la gridarono i sacerdoti
di Belo, dal sommo della gran torre di Barsipa. E là, nel tempio del Dio,
plaudente il popolo ed auspice il presidio, Ninia fu consacrato re su tutta la
gente degli Accad.
- E in qual guisa t'è noto? -
gridò Ara confuso.
- Come può l'annunzio aver fatto
in così breve tempo dodici giornate di cammino?
- Tutto è noto ai veggenti; -
sentenziò il vecchio con accento solenne; - e sei tu che lo ignori? Ma via; -
soggiunse tosto, notando il rispettoso acquetarsi del re; - qui non è niente di
sovrumano. Tutto era già concertato tra i grandi, e, a mala pena la rivolta
scoppiò, un lungo ordine di fuochi accesi di colle in colle ne ha mandalo il
rapido annunzio fino alla rocca di Assur.
- Ingegno profondo! - esclamò Ara
ammirato. - Ed ella ignora tuttavia?...
- Sì, tutto ignora; - rispose il
vecchio. - Fuochi d'allegrezza le parvero, o di sacrifizio offerto sulle alte
vette ai celesti; ed erano in quella vece gli annunzi della sua imminente
rovina. Il triste evento non le sarà noto che tra dodici giorni.... quanti
bastano a rafforzare le nascenti fortune di Ninia. Per lui è il popolo delle
quattro favelle; per lui i sacerdoti degli astri deificati, che si adorano
nella terra di Sennaar; per lui i governatori delle provincie.
- Ma, dimentichi tu il possente
esercito che ella ha raccolto in Assur? - chiese il re crollando
malinconicamente il capo.- I miei esploratori, tornati ieri da diversi punti
dalla vasta pianura, hanno potuto noverare cinquanta miriadi d'armati.
- Forse; - soggiunse prontamente
il vecchio; - ma di gente raccogliticcia o la più parte mal fida. Credi tu che
s'abbia a fare grande assegnamento su popoli, ieri nemici, oggi domati
coll'armi? Credi tu, ad esempio, che i Medi, i nobili Medi, combatteranno
volentieri per lei? Bakdi già tanto felice, Bakdi con l'alta bandiera, come i
suoi sacri cantori la van celebrando, centro e guida a tutti i figli dell'Iran,
morde sdegnosa il freno della servitù....
- Ma Zerduste, il suo principe,
non è egli ospite in Babilonia? Non è egli tra i grandi del reame, maestro e
custode di Ninia? La regina non lo pregia o nol venera, siccome è fama, tra
tutti i consiglieri del trono?
- Troppo lo venera; - notò
sarcasticamente il vecchio; - o meglio sarebbe stato per lei averlo ricambiato
d'amore.
- Ah! - gridò il re, a cui quelle
parole erano spina acutissima. - Ed egli pure, il principe di Bakdi, amò la
regina?
- La maliarda è divinamente
bella, e molti son caduti a' suoi piedi. Egli, per altro, men fortunato di
tanti; né ciò avrà giovato a rendere i Medi più amanti del giogo.
- Intendo; - disse Ara.- Ed era
Zerduste il savio dal fiore di amomo?
- No, - rispose quell'altro, con
accento breve, se non per avventura molto sicuro. - Bene è egli fautore della
rivolta, insieme col vecchio Sumàti, che ti sta innanzi, nato sull'Indo, alle
cui rive la superba s'attentò di spingere il suo cavallo di guerra. Noi l'anima
della congiura contro un potere che minaccia d'invader la terra, e di
assoggettarne ogni libero popolo; e tu ne sei il braccio gagliardo, o re
d'Armenia, a cui ella si sforza di togliere il regno e l'onore.
- Oh, mi toglierà la vita, -
interruppe Ara, - e sarà il meglio per me.
- No, tu dèi vivere e vincere.
Ora, tu vincerai, re d'Armenia, se avrai prudenza pari al valore.
- Ah sì, rammento che insieme con
un lieto annunzio tu mi rechi un consiglio. Udiamo il consiglio, - soggiunse
Ara, con voce impressa di profonda mestizia, - e se potrà tornar utile alla
gente aicàna, grazie a te dal profondo del cuore!
- Tu stesso giudicherai, - disse
Sumàti, - se il consiglio sia utile, com'io penso, al tuo popolo e a te. Esso
ti è porto in nome della lega giurata ai danni della stirpe di Nemrod; ma te lo
reca altresì un uomo, che, vedendoti prode, generoso e fedele alla santa
amicizia, ha preso ad amarti d'un amore paterno. Forse egli non opera sagacemente
in cotesto. I sapienti che si travagliano per vie segrete al trionfo del vero,
non dovrebbero soffermarsi mai sul fatale cammino, né dissipare la forza loro
in pietose cure ed affetti vani, siccome è lecito alla comune degli uomini. Ma
così avvenne di me; la mia tempra non è così forte, da cancellare nell'animo i
più teneri sensi. E t'amo come un figlio, ti venero come il più nobile, ti
ammiro come il più valoroso tra i re. Degli uffizi a ciascheduno assegnati, io
mi elessi quello d'invigilar Semiramide. Era il più umile e il più pericoloso;
quello degli altri ha più fortuna e più gloria. E lo elessi per farmi più
vicino a te, generoso Aicàno, per dimostrarti l'affetto mio, per salvar te in
questa grande rovina. Mi crederai tu veritiero?
- Ti credo! - rispose Ara,
mettendo le sue mani in quelle del vecchio.
- Accogli dunque ora il
consiglio. L'esercito di Semiramide è forte per numero. Dove lo attenderai tu?
- Qui, sulle colline di Ajotzor,
dove il gran progenitore della mia stirpe sgominò le forze di Nemrod.
- Troppo è vicino il luogo al
passo di Lukdi. E non temi che, mentre sarà impegnata la mischia, nuove schiere
possano giungere in breve ora dal piano?
- Vengano; alla spartita le
affronteremo. Oltre a quaranta migliaia di nemici non possono liberamente
muoversi in questa valle che noi difendiamo.
- Intendo; ma pensi tu ai danni
d'una prima o grossa battaglia perduta?
- In pugno di Zervane è il
destino.
- Sì, ma Zervane dà la vittoria
ai prudenti. Montuosa contrada è l'Armenia, e ad ogni piè sospinto t'è dato di
avere una nuova Ajotzor. Non potrai tu tirar dentro il nemico, costringerlo a
chiudersi, a frastagliarsi in queste convalli, temporeggiare, molestarlo dai
greppi, predare lo sue salmerie, riunirlo insomma, e attenderlo poscia,
stremato di forze, di là dal salso lago di Van, presso la tua munita Armavir? E
pensa che neppure ti bisognerebbe giungere a quest'ultima prova; imperocché tra
pochi giorni Semiramide udrà l'annunzio della rivolta scoppiata in Babilonia e
in pari tempo le verranno meno le vettovaglie bisognevoli a sfamare un così
numeroso esercito. Ella in paese nemico, e intorno a lei spopolato, col
malcontento e la costernazione tra' suoi, si vedrà costretta a rifar la sua
via. E tu allora a piombarle sopra improvviso, da qual parte ti piaccia, o far
pace onorevole.
- Buono è il consiglio; - disse
Ara, dopo alcuni istanti di pausa. - Ma pace io non spero, né fuggire saprei.
Il tuo disegno fu già nella mente di Vasdag, il savio principe di Tarbazu, che
è il primo de' miei consiglieri; ma egli stesso ne ha abbandonato il pensiero.
- Egli non poteva sapere della
rivolta di Babilonia; - entrò sollecito a dire Sumàti;- e questo evento....
- Sì, intendo ciò che vuoi dirmi;
- interruppe il re; - ma questo luogo è fatale. I sacri platani di Peznuni
hanno dato il responso, « È in Ajotzor la tomba dei Babilonesi. »
- Ambigui troppo, gli oracoli! -
notò brevemente Sumàti.
- Non credi tu che in essi
parlino i Numi? - chiese Ara con accento di sicurezza.
Sumàti chinò la fronte, pensoso.
- Io credo, - rispose, - che
nella mente del savio sia il più venerabil tempio e il più certo oracolo di
Dio.
- Chi può dire: io sono il savio
tra tutti? - ripigliò Ara, crollando mestamente il capo. - Comunque sia,
grazie a te dell'amorevole consiglio; ma vedi, oramai la sorte è gittata. Non è
egli forse già troppo aver condotto l'Armenia a questo cimento per me? Il
meglio è di finirla in un giorno. Qui pugneremo da valorosi; qui morremo,
quando non sia possibile il vincere. Vivo ella non m'avrà in sua balìa;
m'intendi tu? - proseguì il giovine con accento di sicurezza profonda. - Io
l'ho giurato all'ombra amata di Sandi, del dolce amico di cui m'è viva qui la
presenza in ogni cosa che io miro, più ancora che non mi fosse chiaro l'aspetto
in quella notte orribile, donde hanno principio i miei mali. Ben poco invero io
darò in preda alla morte! Non m'ha già ella ucciso, spegnendo nel mio cuore la
fede? O padre! la mia, vita è un tormento, un'atroce agonia dello spirito. Mi
ami, hai detto? Orbene, così m'avresti tu amato del pari, nelle tenebre paurose
del sotterraneo, ché m'avresti usato misericordia laggiù, dandomi d'un pugnale
nel cuore, innanzi ch'io varcassi la soglia di bronzo! -
Sumàti reclinò la testa sul petto
e stette a lungo sopra di sé, corrugate le ciglia e gli sguardi atterrati.
Quello che gli facea così grave la fronte era un acerbo rimorso. Tutta egli
avea misurata, in quello sfogo dell'ambascia di Ara, la profondità della ferita
che egli aveva aiutato ad aprire. Egli, cuor di macigno, s'era intenerito alla
vista di quel candido garzone, di quell'animo incauto, così facile, per
l'indole sua generosa e fidente, a cader negl'inganni degli ambiziosi e dei
tristi. Commosso da quella grazia e da quella prodezza giovanile, s'era
adoperato a salvargli almeno la vita, e di ciò appunto, senza saperlo, gli
faceva, rimprovero quel misero cuore straziato. Lo amava, oramai; si doleva
amaramente di averlo condotto a quel punto, vittima innocente di ambiziosi
disegni, strumento inconsapevole di alte vendette. Iddio ha seminato il rimorso
nell'anima del malvagio, come il filo d'erba nel deserto, come l'amore nella
immensa miseria del mondo. Egli è forse per ciò che non siam tristi, o codardi,
del tutto. E tale era Sumàti, che, nella schiettezza del suo rammarico, avrebbe voluto alzar quella
fronte umiliata e parlare al re d'Armenia in tal guisa:
- Tutto ciò che hai udito, tutto
ciò che hai veduto, è menzogna. Nulla è vero di Sandi, e tu, inebbriato da
magici filtri, hai creduto di scorgere le sembianze dell'estinto in quel
bugiardo aspetto che la nostra arte perversa ti ha mostro. Come sapessimo noi
così minutamente del tuo passato, t'è oscuro? Ma torna indietro coll'animo, e
rammentati. Non hai tu troppo fatto a fidanza coi silenzi notturni, là, nel
sacro bosco di Militta, allorquando, curuccioso di doverti presentare al temuto
cospetto di Semiramide, giuravi fede e rapivi la pace del cuore ad Atossa? E
ben altro sapemmo, ben altro. Non metter tua fede intera negli uomini, o re! I
sensi loro, i desiderii, le ambizioni, i rancori, oggi a te ligii o tacenti per
te, si gioveranno della tua fede, si armeranno del tuo segreto contro di te,
solo che un astuto malveggente ti possa infiammare a tuo danno. Bared, il tuo
fedelissimo Bared, fu colto ai lacci d'una tentatrice leggiadra; tutto egli
disse, ciò che a noi mettea conto sapere, per colorirne la fantastica scena che
t'è parsa sì vera; e il suo silenzio, la sua complicità, furono compri dalla
paura di aver troppo parlato, assicurati alla lega coll'oro, o più assai con minaccie
di morte. Egli ha taciuto finora, temendo di avere assiduo al suo fianco il
punitore; tacerà, più pauroso ancora, poi che avrà veduto me nel tuo campo. Io
solo, dei tre congiurati, mi mostrai a viso scoperto; io solo, il men noto, ti
condussi al tuo alloggiamento fuori il baluardo di Nivitti Bel. Tu sei vittima,
o re, dell'odio di Zerduste, del più possente tra noi, contro il quale
intendevano le mie parole a metterti in sull'avviso poc'anzi. Egli,
contrariamente all'utile della causa comune, e non ascoltando che la sua rabbia
gelosa, voleva la tua morte; io a fatica ho rattenuta la sentenza fatale, t'ho
salvata la vita. Non basta ancora; io debbo far posare la guerra, ridarti la
pace del cuore. Quella donna è calunniata; ella e tu, siete involti in una rete
d'inganni. Uccidimi, o re; dammi ai più fieri tormenti; ma questa è la voce del
vero. -
In tal guisa avrebbe voluto
parlare Sumàti La schietta confessione gli turbinava nell'animo, gli faceva
impeto alle labbra. Ma quale vergogna non sarebbe ella, stata per lui! Apparire
al cospetto di Ara un vil mentitore, un artefice di biechi inganni, egli,
Sumàti, il discepolo di Manù, l'interprete dei santissimi Veda! E non c'era
egli altro modo di tornar utile al re, senza tanto disdoro? Egli ben lo
cercava, ma in quel suo turbamento non gli venia fatto trovarlo.
E mentre così dubbiava tra
rimorso e vergogna, s'affacciò all'ingresso della tenda Vasdag, il principe di
Tarbazu, con aspetto che già di per sé annunziava rilevanti novelle.
L'occasione era fuggita. - É il
destino che lo vuole! - aveva detto Sumàti in cuor suo.
- Che rechi di nuovo? - dimandò
Ara al vecchio capitano.
- Un cavaliero, - risposo Vasdag,
- è giunto or ora da Lukdi...
E si arrestò, guardando Sumàti.
- Parla liberamente; - disse Ara;
- questo pellegrino non è di soverchio fra noi.
- E giunto da Lukdi, - ripigliò
allora Vasdag. - e porta novelle dell'esercito babilonese, che ha lasciato il
campo di Assur ed è tutto in
marcia verso di noi. Le sue ali si stendono all'orizzonte come i corni d'una luna
falcata, e lo schiere in moto appaiono numerose come un nembo di locuste, che
si rovescino a devastare i campi d'una intera contrada.
- Era tempo; - sclamò il re. - E
dove accenna il nemico?
- A sforzare col nerbo de' suoi
il passo dell'Eufrate, mentre forse una parte, che s'avanza diffatti sulla riva
sinistra del fiume, risalirà alle sorgenti del Tigri. Questa io l'ho per una
vana minaccia; del resto, laggiù son munite le strette e poca gente basterà a
trattenere gli audaci.
- Sia bene, - disse Ara. - E che
faremo noi ora, o Vasdag?
- Mio signore, - rispose il
principe di Tarbazu, - lo ha già detto il tuo senno. Li lasceremo penetrare in
questa valle, dove, coll'aiuto degli Dei, sarà la lor tomba.
- E t'ascoltino gli Dei; -
soggiunse il re. - Ma pensiamoci ancora; egli è accorto consiglio aspettarli
qui, o non piuttosto ritirarci più indietro, per modo che non possano così
facilmente rifornirsi di gente fresca, destreggiarci, insomma, rigirarci di
greppo in greppo, traccheggiare, stancar l'inimico o attendere una migliore
occasione? Sappi, o Vasdag; Babilonia si è ribellata o con essa tutta la
regione di Sennàar. Quest'uomo che vedi, e nel quale è da riporre gran fede, me
ne ha recata or ora la certa notizia. -
E si fece a narrargli
partitamente tutto ciò che sapeva, e ciò che aveva cercato di persuadergli
Sumàti.
Ma il principe di Tarbazu, o
fosse religione vera e profonda, o diffidenza dell'ignoto pellegrino, rispose:
- È tardi oramai. L'oracolo di
Peznuni ha parlato, e il tuo esercito, o re, vedrebbe di mal occhio un
mutamento di ordini, che oggi, all'approssimarsi del nemico, avrebbe sembianza
di fuga.
- Tu l'odi? - esclamò il re,
volgendosi, con piglio grave, a Sumàti.
- E sia! - disse questi
rassegnato. - Concedimi, o re, di rimanere al tuo fianco e di far mia la tua
sorte.
- Ma... - disse amorevole il re,
- se ti incogliesse sventura? E se troppo noto ai nemici....
- Che importa? - interruppe
Sumàti. - Non l'hai tu detto poc'anzi? In pugno di Zervane è il destino. -
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