Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Anton Giulio Barrili
Semiramide

IntraText CT - Lettura del testo

  • 15. Il canto di Abgaro.
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

15. Il canto di Abgaro.

 

La voce dello avvicinarsi dei Babilonesi al passo di Lukdi si era sparsa rapidamente nel campo aicàno. Il bellicoso popolo aveva salutato l'annunzio con un grido di giubilo.

Il luogo che gli Armeni avevano scelto per aspettare il nemico, era acconcio che nulla più. Ne conoscevano ogni insenatura ed ogni declivio, ogni sentiero, ogni forra; sapevano da qual parte celarsi, da quale altra uscir fuori improvvisi; ove i guadi, ove i passi difficili. Quello era inoltre un luogo consacrato da gloriose memorie. Che più? I platani vocali di Peznuni avevan dato, pochi giorni addietro, un responso: «È in Ajotzor la tomba dei Babilonesi.» E dal labbro dei Sos, venerandi custodi del sacro recinto, s'era diffuso per ogni dove l'oracolo, argomento di speranza alle turbe, nuova esca all'amor patrio delle pugnaci tribù.

Gli Armeni, giusta il culto di tutti i popoli discesi dalle alture dell'Imalaya, adoravano il tempo sconfinato, sotto il nome di Zervane Acherene, donde era uscito Ahura, lo spirito divino ed eterno che penetra l'universo. E vedendolo essi in ogni cosa, erano venuti a grado a grado deificando le forze tutte della natura, siccome avean fatto i popoli affini di Javan, di Iran, e gli altri di Turan, più lontani consanguinei, sebbene più vicini per moleste incursioni. Ed anco ad essi parve di ravvisarli nel fuoco, acceso sui monti, la più pura essenza dello spirito eterno, anch'essi popolarono di deità minori lo spazio, le viscere della terra e i flutti del mare. Né meno aveano essi a sentire dalla vicinanza dei figli di Cus, pe' quali erano confuse in un culto le ingenite virtù della terra e le stelle del firmamento; però avevano anch'essi la loro Istar nel ciclo e la loro Militla Zarpanit sulla terra; e quella dicevano Asdlig, questa Anait, ambedue più severe e di più casti riti onorato in quella contrada di assidue nevi e di costumi più rigidi.

Altri riti aveano comuni le due genti vicine e tratto tratto nimiche. Né tanto era puro negli Armeni il nobil seme ariano, che non vi si scorgesse mescolato alcun che del sangue cussita, o camitico. Dicevasi che lo stesso Aìco, il loro gran padre, traesse l'origine dalla terra di Sennaar; forse non era egli che un figlio di Javan, od anco di Turan, disceso al piano dalle cime dell'Ararat, insieme coi campati dal diluvio, indi tornato alle sue prime sedi. Comunque fosse, in molte cose appariano conformi i due popoli; perfin nella lingua si notavano qua e i segni dell'influsso straniero; certo, poi, la scrittura degli antichi Armeni era ereditata dagli Accad. E lassù, come tra le genti della pianura, erano magici riti, sortilegi, augurii e superstizioni in buon dato; epperò i platani di Peznuni, reputati faticidi, circondati di venerazione profonda e ciecamente creduti dalle moltitudini. Non aveano essi parlato il vero, profetando sventura pel viaggio del re in Babilonia! Doveano esser creduti dal paro, quando, con dolce lusinga all'orgoglio nazionale, vaticinavano in Ajotzor la tomba dello schiere nemiche.

E il vaticinio stava finalmente per compiersi. I Babilonesi, dopo lunga sosta in Assur, certo necessaria ad ordinare così numerosa turba d'armati, avean levate le tende e s'inoltravano alla volta dei monti. Ancora un giorno, due al più, e sarebbero giunti all'assalto. Venissero pure, si perigliassero in quelle anguste convalli; le aquile aicàne erano pronte a riceverli.

Quel fu festa nel campo. S'incontravano i compagni d'arme, gli amici, e si scambiavano parole a vicenda aspettate. A domani! Ci siamo! Finalmente! Farà ognuno il debito suo. E lampeggiavano gli occhi, e una stretta di mano faceva sentire le pulsazioni gagliarde del sangue.

L'esercito aicàno si raccoglieva adunque in quel sereno riposo, che non è ozio, ma aspettazione; posava, ma meditando i colpi imminenti e le prede. Bella, ampia, ben chiusa sui lati ora la convalle, e, per ogni ciglione, o pendio, per ogni greppo su in alto, o sentiero nel fondo, brulicava di armati. Era egli possibile che, rimanendo in piedi anco un drappello d'Armeni, l'esercito babilonese potesse aprirsi un varco dentro?

L'ora delle quotidiane fatiche era scorsa e tutte le cure minute e varie del campo, cessate d'un tratto. Appesi entro le tende i grandi archi e le capaci faretre; a fasci raccolti i giavellotti, lunghesso i sentieri e di rincontro ad essi appoggiate le targhe di rame, e gli scudi lunghi di cuoio. Sciolti dallo pesanti bardature, pascevano liberamente i cavalli nei prati, o si diguazzavano nitrendo nel fiume. Qua e seduti a crocchi, o lentamente vaganti per le viottole campestri, si davano spasso i guerrieri.

Gran ressa, si notava alle falde del poggio, su cui sorgeva la tenda del re. Attirava la moltitudine in quel luogo una danza militare, passatempo così grato agli Armeni. Ai suoni dei cembali percossi in cadenza da parecchi tra gli astanti, le coppie dei danzatori fingevano assalti di spade, si minacciavano coi giavellotti, s'intrecciavano in molteplici giri, si scioglievano e si assalivano ancora, con impeto più grande e moti più celeri, fino a tanto il ballo non rendesse immagine di una mischia, accompagnata da grida feroci e terminata dagli applausi del popolo spettatore.

Dopo le danze, i canti. Si riposava facendo cerchio in mezzo alle tende, dov'era più libero il campo, e sedevano al centro i poeti, venuti a far gara di maestria gli uni cogli altri. Eglino, di solito, accompagnando il finir d'ogni strofa, con parecchi colpi di cembalo, cantavano antiche tradizioni della stirpe aicàna; ognuno, secondo l'umor suo e la feracità della fantasia, mutando alcuna cosa al racconto, e fiorendolo d'immagini proprie; del che pigliavano gran diletto gli uditori e faceano paragone tra i varii rapsòdi. La poesia, non la storia, si vantaggiava di questo continuo raffazzonamento, che venia di mano in mano trasformando le cronache paesane in finzioni mitologiche, e queste rinfrescava poi di nuovi colori e apparenze di storica vita.

- «Ancora, - cantava uno di essi, - ancora nella terra dei due fiumi non era edificata la torre, testimonio dell'umana tracotanza, né lo sdegno celeste avea corrotte e moltiplicate le lingue, allorquando erano principi della terra Zeruano, Titano e Jafeto.

«Appena si divisero essi l'impero del mondo, che Zeruano si levò padrone degli altri due. Titano e Jafeto si opposero alla sua tirannia e gli ruppero guerra. Imperocché Zeruano pensava a fare che i suoi figli su tutti regnassero.

«E già Titano aveva rapita una parte delle terre di Zerunno; ma Asdlig, loro sorella, frappose le candide braccia e quetò gli spiriti irati.

«Acconsentirono regnasse Zeruano, ma patteggiarono giurati di far morire tutti i maschi che di Zeruano nascessero, perché egli non regnasse su loro sempre ne' posteri suoi.

«Perciò posero alcuni Titani robusti, che vegliassero ai parti delle donne di Zeruano. E già due maschi sono uccisi, per ossequio al patto giurato, quando la pietosa Asdlig, secondata dalle piangenti donne, commuove i barbari cuori.

«Vivano i figli di Zeruano, e valide braccia ti portino in occidente, sulla vetta di un monte. E sia come un altro Ararat, donde la nostra stirpe discenda a popolare la terra

Tacque, ciò detto, il cantore, e un altro gli sottentrò non meno caro alle turbe.

- «Dopo la navigazione di Chisutro alle terre alte e il suo approdo alle ultime vette dell'Ararat, uno dei suoi figli, per nome Sim, va verso tramontana e ponente. Tratto da vaghezza di conoscere i luoghi, s'inoltra egli a tramontana e ponente.

«Qua giunge, e mette sua stanza a' piedi d'un monte dalle lunghe falde, solcate dai fiumi che scendono nello terre degli Accad. Mette qui sua stanza per due lune e chiama il monte Sim dal suo nome; indi fa ritorno verso mezzogiorno e oriente, verso le contrade dond'era venuto.

 «Ma uno de' suoi figli, Darpan, co' suoi trenta nati e quindici figliuole, coi loro mariti, separandosi dal vecchio padre, si formano a dimora tra noi. E Sim, dal nome del figlio, chiama il luogo Daron, e la regione ov'egli stesso aveva abitato, chiama Tzeronk, che significa dispersione.

«Imperocché ivi si separò il suo figlio da lui, e un altro del pari, che va a metter dimora presso i confini della regione di Bakdi. E quest'altro luogo serba tuttavia il nome di Zaruant.

«Questo è il poco della stirpe di Sim, che rimase nelle terre d'Aiasdan, innanzi che il forte Aìco venisse a rallegrarle di sua dolce presenza. Ora, non sì tosto egli apparve, che tutti, discendenti di Sim, tribù bellicose di Javan, e domati figli di Turan, accolsero volonterosi la sua paterna autorità, si confusero in una sola gente, in un solo volere, sotto lo scettro del gigante dagli occhi azzurri.

«Ricordate la vostra storia, o genti aicàne; queste le prime e care memorie domestiche; così fu popolato il suolo che tutti ad una dobbiamo difendere, contro le voglie rapaci dei figliuoli di Nemrod

Unanimi applausi e grida fragorose salutarono il bardo; e agli applausi, alle grida del popolo, si aggiunsero amorevoli parole del re. Ara, il bello era uscito pur dianzi fuor della tenda e si era seduto all'aperto, sul poggio, in mezzo a' suoi capitani.

- Nobile è il canto di Sempad; - aggiunse il vecchio Vasdag, principe di Tarbazu; - ma nessuno di voi, o poeti, per le cui labbra parlano i Numi, canterà le gloriose gesta d'Aìco? Oscuro è tutto ciò che avvenne prima di lui; sebbene, è da lodarsi la cura che voi ponete a serbare ogni più lieve frammento delle lontane memorie. Ma coll'eroe dai riccioluti capegli ha finalmente nome e vita la patria nostra; da lui comincia la storia; da lui la fama d'Aiasdan. Cantateci Aìco, o bardi, e nelle sue lodi prenderemo gli auspicii delle pugne vicine. -

Gran plauso ottenne il dire di Vasdag; del quale per altro era nota la saviezza. Di lui correva questa sentenza in Armenia, non potere l'antico guerriero dir cosa che non fosse vera e sennata.

- Sì; - gridarono molti facendo eco alle parole del vecchio principe di Turbazu e incoronatore dei re; - chi canterà le gloriose gesta d'Aìco? -

Esitarono i bardi, guardandosi in viso l'un l'altro.

- Cantare d'Aìco! - sclamò alla perfine uno di essi. - Chi lo ardirebbe, se è qui presente Abgàro?

- Egli il vate divino; - aggiunse un altro; - egli il signore degli inni! L'eroe dal braccio gagliardo non ebbe mai, né avrà certo negli anni futuri, un più degno poeta.

- Sciogliere un inno ad Aìco, mentre è il soave Abgàro nella corona degli uditori, sarebbe temerità maggioro di quella d'un astro notturno, il quale s'attentasse di splendere quando il sole è spuntato. -

Un vecchio sorrise a quelle parole, un vecchio cui in quel punto erano volti gli occhi di tutti. Era egli vestito di candida lana, alla guisa, dei sacerdoti di Van, ma al fianco gli pendeva la spada o all'òmero la capace faretra.

Sorriso egli, e, stesa la destra in atto cortese, parlò:

- Bella è, o giovani, la lode data ai canuti, anco se paia soverchia. Chi onora i vecchi, lode agli Dei; imperocché nei vecchi si esalti il senno maturo, grazia impartita dal cielo, ad ammaestramento e guida delle nuove generazioni. A voi rende grazie, o giovani, il cantore d'Aìco, che, scarso d'ingegno, ha ravvivati coll'affetto i suoi carmi. Beati voi, che, cresciuti a vostra volta in età, come già siete d'arte doviziosi o di sapere, darete più alti insegnamenti al popolo aicàno, tramandando ai nepoti le imprese e lo vittorie di Ara il bello, del generoso figlio d'Aràmo.

- Vivrai tu per cantarle, o maestro; - risposero gli aèdi.

- In pugno di Zervane è la sorte; - disse Abgàro con accento solenne. - II guerriero non può dire: «domani», ed oggi, per la difesa del patrio suolo, tutti gli Aicàni saranno guerrieri, né i vecchi si mostreranno da meno dei giovani. Ma via, smettiamo gli inutili vanti, che all'opere, non già alle parole, dee misurarsi il potere dell'uomo. Chiedevate il cantico d'Ajatsor? Il vecchio poeta, innanzi di tacere per sempre, vuol farvi oggi contenti. -

Un grido di giubilo manifestò al vecchio il grato animo della guerresca assemblea, e il silenzio che tosto si fece d'ogni parte gli disse altresì con qual religiosa attenzione egli sarebbe ascoltato. A tutti era noto il carme, com'era nota la materia intorno a cui s'aggirava. Senonché, era consuetudine degli aèdi mutar forme, accrescer poetici fregi all'opera loro, e appunto in questo la valentia d'Abgàro era somma.

Tolto di mano al più vicino de' suoi compagni il cembalo festivo, lo percosse egli con tese palme più volte, quasi ad eccitar gli estri dormenti; volse gli occhi inspirati all'intorno, e così prese, con voce piena e armoniosa, a cantare:

«Abbia da' sommi Dei princìpio il canto. Terribili per maestà erano dessi, largitori de' massimi beni al mondo, alta cagione d'ogni cosa creata e della moltiplicazione degli uomini. Da loro si separò la schiatta dei giganti, mostruosi di forze, invincibili, di statura colossi, che nel loro orgoglio concepirono il disegno di edificar la torre. Già erano all'opera; un vento terribile e divino, soffiato dall'ira dei celesti, l'edifizio disperse. Gli Dei, dato ad ogni uomo un linguaggio dagli altri non inteso, misero tra loro confusione e scompiglio.

«O il più chiaro tra questi, figliuolo di Thogarma, del seme di Jafet, o Aìco, o principe valoroso, possente ed abile arciero, chi esalterà degnamente il tuo nome? Famoso per bellezza e nerbo di membra, riccioluto i capegli, azzurro gli occhi al pari d'un Dio, gagliardo il braccio e pugnace, ma pietoso dell'animo e amante del giusto, ti opponesti tu a quanti alzavano la mano dominatrice sopra i giganti e gli eroi. Infiammato da nobile ardire, armasti il tuo braccio contro la tirannia di Nemrod, allorquando il genere umano su tutta la terra si sparse. Era in mezzo a questo un popolo di giganti, fuor di misura robusti e di lor forza superbi; il perché ciascuno, come da una furia sospinto, immerse la spada nel fianco del compagno; tutti sforzandosi dominare sugli altri.

«Ma la fortuna aiutò Nemrod ad usurpare la terra tutta; Nemrod, figliuolo di Mesdrim, a cui fu padre Cus, della progenie di Titano. E ricusa Aìco obbedirgli; e glorioso come la stella del suo nome, vagante pe' cieli3 si allontana verso settentrione, menando seco, astri minori, i figli, le figliuole, i nepoti, uomini vigorosi, in numero di forse trecento. Vassene co' figli de' suoi servi, cogli estranei a lui ossequenti e con tutto il suo avere; vassene alle terre alte dell'Ararat. e si pone a piè d'un monte, ove alcuni degli uomini, per lo innanzi dispersi, già avevano messo dimora.

Costoro ei sottomette alle sue leggi; mura edifizi su questa terra e la in retaggio a Cadmo, al figliuolo d'Armènago suo.

«Di trascorre, il savio gigante, progenitore dei nobili Aicàni; va col resto dei suoi tra settentrione ed occidente, e si ferma ad un piano, che oggi ha nome di Harc, ovvero dei padri. Lo rammenti con allegrezza ognuno di voi e lo insegni a' suoi figli; dinota quel nome che lassù abitarono i padri della casa di Thogarma, nel borgo Aicascèno, che suona costrutto da Aìco. A mezzogiorno del piano, vicino ad un monte di larghe falde, s'erano prima alcuni uomini stabiliti. E costoro, tratti da riverenza, spontanei giurarono fede all'eroe.

«Ma il titano Nemrod, raffermato il suo dominio sui leoni della pianura, guata con invidia all'aquile della montagna, si strugge della nascente potenza d'Aico. Tosto gli spedisce un fìgliuol suo con buona scorta d'uomini fedeli, e melate parole dissimulano l'imperiosa acerbità del messaggio.

«Tu abitasti finora tra i ghiacci e le brine. Riscalda e tempera il freddo gelido de' tuoi alteri costumi, e a me sottomesso ed amico, vivi tranquillo ove piace a te, sulla terra del mio soggiorno.

«Regni il Titano sulla terra sua; - rispose il figlio di Thogarma, corrugando le ciglia. - Aìco nulla gli invidia, nulla chiede da lui. Andate, e ditegli questa breve risposta: l'arco lungi saettante del cacciatore ha intorno a sé mestieri di spazio.

«All'udire l'altiero diniego, tutto si svela il mal animo di Nemrod. Irato cavalca il Titano alla montagna; cavalca con grande esercito e giunge alla contrada di Ararat, sotto alle case di Cadmo. Fugge questi a ricovero presso dell'avo, e manda avanti a sé veloci corrieri.

«Sappi (manda il figlio d'Armènago), sappi, o il più grande tra gli eroi, che Nemrod sta per rovesciarsi su te, co' suoi sempre gagliardi, co' suoi guerrieri colossi. Com'io il vidi avvicinarsi alle mie stanze, fuggii; eccomi, vengo io gran fretta; tu cura ciò che devi e l'accorto ingegno t'inspiri.

«Come l'impetuoso Arasse, sfondate le caverne delle montagne, corre le valli boscose, varca le anguste gole e gli stretti, e scende, precipita col terribil fragore nel piano, così venia romoreggiando il Titano, colle ardite e poderose schiere. Confidava egli nel valore e nel numero de' suoi soldati. Ma il cauto e savio gigante dai capegli riccioluti e dall'occhio vivace, raduna tosto i suoi figli e nipoti, guerrieri intrepidi e arcieri valenti, pochi di numero, ed altri alla sua legge ossequenti. Arriva, e notte correndo, alle salse acque di Van; e così parla il cauto e savio gigante alle schiere:

«Ad util segno soltanto si tende l'arco del cacciatore esperto, e sempre decisivo è il suo colpo. Nel riscontrare l'esercito di Nemrod, sforziamoci di giungere ov'egli sta, da molti suoi guerrieri circondato. O morremo, e le nostre salmerie cadranno in sua mano; o la destrezza del nostro braccio mostrando, disperderemo la sua gente e avremo frutto della vittoria.

«Tosto superato quell'intervallo di lunghissimo tratto, i guerrieri d'Aìco arrivano in una convalle tra erte montagne; poscia, a destra del fiume, si trincierano sopra una altura. E in quel mentre, alzati gli occhi, videro la confusa moltitudine dell'esercito di Nemrod, spinta qua e da audacia feroce e su tutto il terreno diffusa.

«Nemrod, tranquillo e fidente, con forte drappello si stava alla sinistra dell'acque, come alla vedetta, su quel poggio ch'io vedo. Aìco riconobbe il drappello dov'era il Titano innanzi alle sue torme, con iscelti e ben armati guerrieri. Ed era tra lui e l'esercito suo grande spazio di terra.

«Elmo di ferro cingeva il possente; elmo di ferro ampiamente crinito. Corazza di rame portava al dorso ed al petto; schinieri e bracciali gli chiudeano le membra. I fianchi accinti; al sinistro spada a due tagli; nella destra gran lancia; saldo scudo a sinistra; da un lato e dall'altro eragli il fiore de' suoi. 

«Aìco, vedendo il Titano così tutto lucente nell'armi, mette in ordinanza le schiere. Armènago ed altri due figli alla destra; Cadmo e due altri della sua prole a manca, perché erano esperti in trar d'arco e in maneggiare la spada. Egli, poi fattosi avanti, dispone dietro a sé in cuspide di lancia le sue genti e le fa ordinatamente procedere.

«Orrido scontro! Di qua, di , serratisi i giganti gli uni sopra degli altri, coll'urto scambievole facevano rimbombare la terra, e col furor degli assalti spargevano mutuo timore e spavento. Ivi, molti giganti robusti, quinci e quindi colpiti dalle frecce e dalle spade, stramazzavano al suolo; tuttavia il combattimento pendeva incerto dall'una parte e dall'altra.

«Bene si avvide allora il figlio di Misdraim di aver troppo confidato nella sua vecchia fortuna. Sbigottito dallo imminente pericolo, fece ritorno sul colle dond'era poc'anzi disceso; ché pensava in mezzo alle sue schiere affortificarsi vieppiù, fino a tanto che, giunto tutto l'esercito, potesse in larga fronte ridar la battaglia. E dietro a lui salivano l'erta i suoi guerrieri colossi, per fargli scudo e difesa, maledicendo alla gagliarda resistenza del nemico e invocando con rabbiose grida il soccorso de' cieli.

«Già erano al colmo e respirava finalmente il monarca. Ma in quel mezzo, Aìco, il forte arciere, cui erano noti i più ascosi sentieri, apparisce sovra un poggio, che lo mette a pari del fuggente nemico. Lo ravvisa Nemrod, alla prestante alterezza della persona, alla vellosa pelle che penda dagli òmeri del montanaro, alle penne d'aquila che gli fanno orrido cimiero sull'elmo di ferro lucente; lo ravvisa e trema forte in cuor suo, il possente cacciatore di popoli. Fremono, poi che l'hanno veduto a lor volta, i giganti, i sempre valorosi guerrieri di Nemrod; già stanno per muovere contro di lui, sperando vendicarsi sovr'esso dei danni patiti.

«Ma invano; già il figlio di Thogarma ha teso il grand'arco lungi saettante, e, tolta la mira coll'azzurro occhio infallibile, scocca poderosamente una freccia a tre ale, diritta al petto di Nemrod. Romba in aere la corda, vola sibilando lo strale, rompe la corazza come fosse di tenero cuoio e trapassando il petto riesce pel dorso. Cadde a terra il Titano; indarno tenta strapparsi l'acuto ferro dal seno, e fiotti di sangue e bestemmie gli gorgogliano dalle fauci; un tratto, indi un altro, cerca degli occhi il sole e rende lo spirito invitto.

«Un grido di gioia, grido possente, si eleva. È il grido di Aìco, che fa restarsi sospese e attonite le pugnaci coorti. Si addensano intorno al caduto i suoi prodi. Egli è spento. Che fare? Ecco, nuovi dardi fischiano per l'aria, seminano la morte intorno al riverso Titano. Terribile, implacato come il Dio della folgore, Aìco saetta. Fuggono allora, compresi d'alto spavento, fuggono i guerrieri colossi; invano schermendosi coi larghi scudi sonanti sugli òmeri, senza più volgersi indietro.

«Gloria al tuo arco, o nobile Aìco! Posi esso eternamente sospeso alla sacra parete del tempio di Peznuni. Braccio mortale non varrebbe a tenderlo oggi; e il potesse anco, avrebbe forse compagno l'infallibile sguardo azzurro del fortissimo arciere?

«Sangue bagna la collina di Kerezmanc; sangue allaga tutta l'ampia convalle di Ajotzor; sangue scorre l'Eufrate, ancor povero d'acque. Odorano i corvi la preda, e calano in fitto stuolo alla pastura. Ma il forte è magnanimo e pio; sepolcro onorato ai cadaveri, e la collina ha il nome suo dalle tombe. Il gran corpo di Nemrod, plasmato entro e fuori di balsami e di sontuose vesti coperto, lo portano le vittrici aquile montanare in Harc, alle sante sedi de' padri. Colassù, alla vista della regal casa di Thogarma, dorme gli eterni sonni il nemico delle libere genti aicàne

Così cantò il vecchio Abgàro, tra l'ansia, il fremito e la commozione profonda delle migliaia che l'ascoltavano. E un grido di ammirazione, di gioia, di gratitudine immensa, si levò tutt'intorno, poi ch'egli ebbe finito.

Ardevano tutti i cuori, e bene a ragione, per quei gloriosi ricordi. Quello era appunto il luogo della memoranda pugna; quella pianura, che si stendeva dinanzi ai loro occhi, era Aiotzor; in vista del poggio di Kerezmanc era cantata la vittoria di Aìco.

- Mai così grande si palesò il vecchio Abgàro, - dicevano ne' loro crocchi i guerrieri.

- Il suo canto, - soggiungevano alcuni, - ha dissipati i tristi presagi.

- E quali?

- Nol rammentate, il responso dubbioso dell'oracolo di Peznuni? «È in Aiotzor la tomba dei Babilonesi. « Sicuramente, ella c'è; ma degli antichi seguaci di Nemrod.

- Orvia; troppo chiare parole si chiedono agli oracoli. I sommi Dei vonno lasciare alla fortezza del nostro braccio l'adempimento dei vaticinii felici.

- E in Harc, l'altra notte, non s’è egli udito un sordo rumore nelle viscere del monte, come d'armi percosse? Il feroce Titano s'è desto e si solleva sul cubito.

- Stolto consiglio sarebbe il suo. presso riposa colui che l'ha vinto ed ucciso. Se Nemrod si sveglia, non temete; anche Aìco non dorme. -

Intanto che questi ragionari si facevano nella moltitudine, Ara il bello erasi avvicinato ad Abgàro e nell'impeto della sua ammirazione lo aveva abbracciato. Il vecchio cantore, commosso, tenne lungamente stretta sul seno venerando la bionda testa del principe, tra gli applausi di tutti gli astanti. Grande è la maestà, come la potenza dei re; ma l'ingegno, raggio dell'anima, in sé racchiude alcun che di divino; donde un'arcana virtù che penetra i cuori e soggioga.

- Prode figlio di Aràmo, tu rinnoverai, - disse allora il poeta, - gli alti prodigi del valore d'Aico.

- Ah, non lo spero; - rispose il giovine re; - ma le tue parole mi staranno qui dentro, e farò d'imitarlo ne' generosi propositi.

- Già cominciasti, - entrò a dire Vasdag, - scegliendo il tuo campo. Qui pugneremo; di qui ci avventeremo sulle schiere elette della superba regina. O morremo, e le nostre salmerie, le nostre fortune tutte cadranno in sua mano; o la destrezza del nostro braccio mostrando, disperderemo il suo esercito e avrem frutto della vittoria.

- Verrà ella sulla prima fronte, audace al pari di Nemrod? - chiese, con piglio d'incredulo, uno tra gli ufficiali del re.

- Certo, ella verrà! - rispose Ara, fremendo. - Forte guerriera è costei. -

Né altro disse, che gli faceva ostacolo l'interno ribollir degli affetti.

- Forte sì, e superba, - soggiunse Abgàro, - come nelle vene le scorresse il sangue dei Titani. Ma non è tralignato il seme aicàno e la fortuna lo ha sempre assistito fin qui. Armènago, fondatore di Aracaz, ed Armais, che diede il suo nome alla città d'Armavir, non estesero sempre più l'avito dominio? Amasia, il padre del fortissimo Kogam, del valoroso Parok e del giocondo Tzolag, non si ' egli padrone di tutta la catena dell'Ararat, detto Masis da lui? E Kegam non signoreggiò egli in breve ora tutta la felice contrada cui bagna l'Arasse? Ed Arma non dilatò d'ogn'intorno il reame? Che dire di Aràmo, del glorioso tuo ge­nitore? Questo guerriero, amante della fatica, vo­leva piuttosto per la patria morire, che scorgere i figli dello straniero calcare il suolo natìo, sopra i suoi fratelli imperando. Narro storia a noi molto vicina e presente all'animo di tutti. Aramo, pochi anni innanzi l'impero di Nino, molestato dalle vicine nazioni, raduna tutta la moltitudine de' suoi valorosi, abili a trattar l'arco e a scagliare il giavellotto, giovani, nobilissimi, di gran, destrezza e bellezza notabile; esercito che per coraggio, e nell’atto, vale cinquanta migliaia. Sui confini d'Armenia incontra il fiore dei Medi, condotti da Niucar, detto Matès, superbo e bellicoso guerriero; gli piomba addosso improvviso, innanzi lo spuntar del sole, e stermina la sua gente; lui, fatto prigioniero, conduce ad Armavir e in cima alla gran torre, forata la fronte con lungo palo di ferro, comanda che sia inchiodato, a terribile esempio per tutti gli oppressori e scorridori delle contrade d'Armenia. Nino istesso se l'ebbe per detto. Nino che, avendo in cuore una memoria d'odio pel suo progenitore caduto in Aiotzor, meditava lungamente vendetta. Celò egli i suoi tristi disegni, sebbene potentissimo fosse, e mandò messaggieri ad Aramo; conservasse il suo dominio, portasse liberamente la benda di perle, e secondo regnasse, dopo di lui, tra i re della terra. Aquile aicane, salvete; è vostro l'impero dei monti. -

 




3 Orione, la più lucente tra le costellazioni, è chiamato dagli armeni Aìco, e così tradoto in Giobbe, canto XXXVIII,v.31, ed in Isaia, canto VIII, v.10






Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License