La voce dello avvicinarsi dei
Babilonesi al passo di Lukdi si era sparsa rapidamente nel campo aicàno. Il
bellicoso popolo aveva salutato l'annunzio con un grido di giubilo.
Il luogo che gli Armeni avevano
scelto per aspettare il nemico, era acconcio che nulla più. Ne conoscevano ogni
insenatura ed ogni declivio, ogni sentiero, ogni forra; sapevano da qual parte
celarsi, da quale altra uscir fuori improvvisi; ove i guadi, ove i passi
difficili. Quello era inoltre un luogo consacrato da gloriose memorie. Che più?
I platani vocali di Peznuni avevan dato, pochi giorni addietro, un responso: «È
in Ajotzor la tomba dei Babilonesi.» E dal labbro dei Sos, venerandi custodi
del sacro recinto, s'era diffuso per ogni dove l'oracolo, argomento di speranza
alle turbe, nuova esca all'amor patrio delle pugnaci tribù.
Gli Armeni, giusta il culto di
tutti i popoli discesi dalle alture dell'Imalaya, adoravano il tempo
sconfinato, sotto il nome di Zervane Acherene, donde era uscito Ahura, lo
spirito divino ed eterno che penetra l'universo. E vedendolo essi in ogni cosa,
erano venuti a grado a grado deificando le forze tutte della natura, siccome
avean fatto i popoli affini di Javan, di Iran, e gli altri di Turan, più
lontani consanguinei, sebbene più vicini per moleste incursioni. Ed anco ad
essi parve di ravvisarli nel fuoco, acceso sui monti, la più pura essenza dello
spirito eterno, anch'essi popolarono di deità minori lo spazio, le viscere
della terra e i flutti del mare. Né meno aveano essi a sentire dalla vicinanza
dei figli di Cus, pe' quali erano confuse in un culto le ingenite virtù della
terra e le stelle del firmamento; però avevano anch'essi la loro Istar nel
ciclo e la loro Militla Zarpanit sulla terra; e quella dicevano Asdlig, questa
Anait, ambedue più severe e di più casti riti onorato in quella contrada di
assidue nevi e di costumi più rigidi.
Altri riti aveano comuni le due
genti vicine e tratto tratto nimiche. Né tanto era puro negli Armeni il nobil
seme ariano, che non vi si scorgesse mescolato alcun che del sangue cussita, o
camitico. Dicevasi che lo stesso Aìco, il loro gran padre, traesse l'origine
dalla terra di Sennaar; forse non era egli che un figlio di Javan, od anco di
Turan, disceso al piano dalle cime dell'Ararat, insieme coi campati dal
diluvio, indi tornato alle sue prime sedi. Comunque fosse, in molte cose
appariano conformi i due popoli; perfin nella lingua si notavano qua e là i
segni dell'influsso straniero; certo, poi, la scrittura degli antichi Armeni
era ereditata dagli Accad. E lassù, come tra le genti della pianura, erano
magici riti, sortilegi, augurii e superstizioni in buon dato; epperò i platani
di Peznuni, reputati faticidi, circondati di venerazione profonda e ciecamente
creduti dalle moltitudini. Non aveano essi parlato il vero, profetando sventura
pel viaggio del re in Babilonia! Doveano esser creduti dal paro, quando, con
dolce lusinga all'orgoglio nazionale, vaticinavano in Ajotzor la tomba dello
schiere nemiche.
E il vaticinio stava finalmente
per compiersi. I Babilonesi, dopo lunga sosta in Assur, certo necessaria ad
ordinare così numerosa turba d'armati, avean levate le tende e s'inoltravano
alla volta dei monti. Ancora un giorno, due al più, e sarebbero giunti
all'assalto. Venissero pure, si perigliassero in quelle anguste convalli; le
aquile aicàne erano pronte a riceverli.
Quel dì fu festa nel campo.
S'incontravano i compagni d'arme, gli amici, e si scambiavano parole a vicenda
aspettate. A domani! Ci siamo! Finalmente! Farà ognuno il debito suo. E lampeggiavano
gli occhi, e una stretta di mano faceva sentire le pulsazioni gagliarde del
sangue.
L'esercito aicàno si raccoglieva
adunque in quel sereno riposo, che non è ozio, ma aspettazione; posava, ma
meditando i colpi imminenti e le prede. Bella, ampia, ben chiusa sui lati ora
la convalle, e, per ogni ciglione, o pendio, per ogni greppo su in alto, o
sentiero nel fondo, brulicava di armati. Era egli possibile che, rimanendo in
piedi anco un drappello d'Armeni, l'esercito babilonese potesse aprirsi un varco
là dentro?
L'ora delle quotidiane fatiche
era scorsa e tutte le cure minute e varie del campo, cessate d'un tratto.
Appesi entro le tende i grandi archi e le capaci faretre; a fasci raccolti i
giavellotti, lunghesso i sentieri e di rincontro ad essi appoggiate le targhe
di rame, e gli scudi lunghi di cuoio. Sciolti dallo pesanti bardature,
pascevano liberamente i cavalli nei prati, o si diguazzavano nitrendo nel
fiume. Qua e là seduti a crocchi, o lentamente vaganti per le viottole
campestri, si davano spasso i guerrieri.
Gran ressa, si notava alle falde
del poggio, su cui sorgeva la tenda del re. Attirava la moltitudine in quel
luogo una danza militare, passatempo così grato agli Armeni. Ai suoni dei
cembali percossi in cadenza da parecchi tra gli astanti, le coppie dei
danzatori fingevano assalti di spade, si minacciavano coi giavellotti,
s'intrecciavano in molteplici giri, si scioglievano e si assalivano ancora, con
impeto più grande e moti più celeri, fino a tanto il ballo non rendesse
immagine di una mischia, accompagnata da grida feroci e terminata dagli
applausi del popolo spettatore.
Dopo le danze, i canti. Si
riposava facendo cerchio in mezzo alle tende, dov'era più libero il campo, e
sedevano al centro i poeti, venuti a far gara di maestria gli uni cogli altri.
Eglino, di solito, accompagnando il finir d'ogni strofa, con parecchi colpi di
cembalo, cantavano antiche tradizioni della stirpe aicàna; ognuno, secondo
l'umor suo e la feracità della fantasia, mutando alcuna cosa al racconto, e
fiorendolo d'immagini proprie; del che pigliavano gran diletto gli uditori e
faceano paragone tra i varii rapsòdi. La poesia, non la storia, si vantaggiava
di questo continuo raffazzonamento, che venia di mano in mano trasformando le
cronache paesane in finzioni mitologiche, e queste rinfrescava poi di nuovi
colori e apparenze di storica vita.
- «Ancora, - cantava uno di essi,
- ancora nella terra dei due fiumi non era edificata la torre, testimonio
dell'umana tracotanza, né lo sdegno celeste avea corrotte e moltiplicate le
lingue, allorquando erano principi della terra Zeruano, Titano e Jafeto.
«Appena si divisero essi l'impero
del mondo, che Zeruano si levò padrone degli altri due. Titano e Jafeto si
opposero alla sua tirannia e gli ruppero guerra. Imperocché Zeruano pensava a
fare che i suoi figli su tutti regnassero.
«E già Titano aveva rapita una
parte delle terre di Zerunno; ma Asdlig, loro sorella, frappose le candide
braccia e quetò gli spiriti irati.
«Acconsentirono regnasse Zeruano,
ma patteggiarono giurati di far morire tutti i maschi che di Zeruano
nascessero, perché egli non regnasse su loro sempre ne' posteri suoi.
«Perciò posero alcuni Titani
robusti, che vegliassero ai parti delle donne di Zeruano. E già due maschi sono
uccisi, per ossequio al patto giurato, quando la pietosa Asdlig, secondata
dalle piangenti donne, commuove i barbari cuori.
«Vivano i figli di Zeruano, e
valide braccia ti portino in occidente, sulla vetta di un monte. E sia come un
altro Ararat, donde la nostra stirpe discenda a popolare la terra.»
Tacque, ciò detto, il cantore, e
un altro gli sottentrò non meno caro alle turbe.
- «Dopo la navigazione di
Chisutro alle terre alte e il suo approdo alle ultime vette dell'Ararat, uno
dei suoi figli, per nome Sim, va verso tramontana e ponente. Tratto da vaghezza
di conoscere i luoghi, s'inoltra egli a tramontana e ponente.
«Qua giunge, e mette sua stanza
a' piedi d'un monte dalle lunghe falde, solcate dai fiumi che scendono nello
terre degli Accad. Mette qui sua stanza per due lune e chiama il monte Sim dal
suo nome; indi fa ritorno verso mezzogiorno e oriente, verso le contrade
dond'era venuto.
«Ma uno de' suoi figli, Darpan, co' suoi
trenta nati e quindici figliuole, coi loro mariti, separandosi dal vecchio
padre, si formano a dimora tra noi. E Sim, dal nome del figlio, chiama il luogo
Daron, e la regione ov'egli stesso aveva abitato, chiama Tzeronk, che significa
dispersione.
«Imperocché ivi si separò il suo
figlio da lui, e un altro del pari, che va a metter dimora presso i confini
della regione di Bakdi. E quest'altro luogo serba tuttavia il nome di Zaruant.
«Questo è il poco della stirpe di
Sim, che rimase nelle terre d'Aiasdan, innanzi che il forte Aìco venisse a
rallegrarle di sua dolce presenza. Ora, non sì tosto egli apparve, che tutti, discendenti
di Sim, tribù bellicose di Javan, e domati figli di Turan, accolsero
volonterosi la sua paterna autorità, si confusero in una sola gente, in un solo
volere, sotto lo scettro del gigante dagli occhi azzurri.
«Ricordate la vostra storia, o
genti aicàne; queste le prime e care memorie domestiche; così fu popolato il
suolo che tutti ad una dobbiamo difendere, contro le voglie rapaci dei
figliuoli di Nemrod.»
Unanimi applausi e grida
fragorose salutarono il bardo; e agli applausi, alle grida del popolo, si
aggiunsero amorevoli parole del re. Ara, il bello era uscito pur dianzi fuor
della tenda e si era seduto all'aperto, sul poggio, in mezzo a' suoi capitani.
- Nobile è il canto di Sempad; -
aggiunse il vecchio Vasdag, principe di Tarbazu; - ma nessuno di voi, o poeti,
per le cui labbra parlano i Numi, canterà le gloriose gesta d'Aìco? Oscuro è
tutto ciò che avvenne prima di lui; sebbene, è da lodarsi la cura che voi
ponete a serbare ogni più lieve frammento delle lontane memorie. Ma coll'eroe
dai riccioluti capegli ha finalmente nome e vita la patria nostra; da lui
comincia la storia; da lui la fama d'Aiasdan. Cantateci Aìco, o bardi, e nelle
sue lodi prenderemo gli auspicii delle pugne vicine. -
Gran plauso ottenne il dire di
Vasdag; del quale per altro era nota la saviezza. Di lui correva questa
sentenza in Armenia, non potere l'antico
guerriero dir cosa che non fosse vera e sennata.
- Sì; - gridarono molti facendo
eco alle parole del vecchio principe di Turbazu e incoronatore dei re; - chi
canterà le gloriose gesta d'Aìco? -
Esitarono i bardi, guardandosi in
viso l'un l'altro.
- Cantare d'Aìco! - sclamò alla
perfine uno di essi. - Chi lo ardirebbe, se è qui presente Abgàro?
- Egli il vate divino; - aggiunse
un altro; - egli il signore degli inni! L'eroe dal braccio gagliardo non ebbe
mai, né avrà certo negli anni futuri, un più degno poeta.
- Sciogliere un inno ad Aìco,
mentre è il soave Abgàro nella corona degli uditori, sarebbe temerità maggioro
di quella d'un astro notturno, il quale s'attentasse di splendere quando il
sole è spuntato. -
Un vecchio sorrise a quelle
parole, un vecchio cui in quel punto erano volti gli occhi di tutti. Era egli
vestito di candida lana, alla guisa, dei sacerdoti di Van, ma al fianco gli
pendeva la spada o all'òmero la capace faretra.
Sorriso egli, e, stesa la destra
in atto cortese, parlò:
- Bella è, o giovani, la lode
data ai canuti, anco se paia soverchia. Chi onora i vecchi, dà lode agli Dei;
imperocché nei vecchi si esalti il senno maturo, grazia impartita dal cielo, ad
ammaestramento e guida delle nuove generazioni. A voi rende grazie, o giovani,
il cantore d'Aìco, che, scarso d'ingegno, ha ravvivati coll'affetto i suoi
carmi. Beati voi, che, cresciuti a vostra volta in età, come già siete d'arte
doviziosi o di sapere, darete più alti insegnamenti al popolo aicàno,
tramandando ai nepoti le imprese e lo vittorie di Ara il bello, del generoso
figlio d'Aràmo.
- Vivrai tu per cantarle, o
maestro; - risposero gli aèdi.
- In pugno di Zervane è la sorte;
- disse Abgàro con accento solenne. - II guerriero non può dire: «domani», ed
oggi, per la difesa del patrio suolo, tutti gli Aicàni saranno guerrieri, né i
vecchi si mostreranno da meno dei giovani. Ma via, smettiamo gli inutili vanti,
che all'opere, non già alle parole, dee misurarsi il potere dell'uomo.
Chiedevate il cantico d'Ajatsor? Il vecchio poeta, innanzi di tacere per
sempre, vuol farvi oggi contenti. -
Un grido di giubilo manifestò al
vecchio il grato animo della guerresca assemblea, e il silenzio che tosto si
fece d'ogni parte gli disse altresì con qual religiosa attenzione egli sarebbe
ascoltato. A tutti era noto il carme, com'era nota la materia intorno a cui
s'aggirava. Senonché, era consuetudine degli aèdi mutar forme, accrescer
poetici fregi all'opera loro, e appunto in questo la valentia d'Abgàro era
somma.
Tolto di mano al più vicino de'
suoi compagni il cembalo festivo, lo percosse egli con tese palme più volte,
quasi ad eccitar gli estri dormenti; volse gli occhi inspirati all'intorno, e
così prese, con voce piena e armoniosa, a cantare:
«Abbia da' sommi Dei princìpio il
canto. Terribili per maestà erano dessi, largitori de' massimi beni al mondo,
alta cagione d'ogni cosa creata e della moltiplicazione degli uomini. Da loro
si separò la schiatta dei giganti, mostruosi di forze, invincibili, di statura
colossi, che nel loro orgoglio concepirono il disegno di edificar la torre. Già
erano all'opera; un vento terribile e divino, soffiato dall'ira dei celesti,
l'edifizio disperse. Gli Dei, dato ad ogni uomo un linguaggio dagli altri non
inteso, misero tra loro confusione e scompiglio.
«O il più chiaro tra questi,
figliuolo di Thogarma, del seme di Jafet, o Aìco, o principe valoroso, possente
ed abile arciero, chi esalterà degnamente il tuo nome? Famoso per bellezza e
nerbo di membra, riccioluto i capegli, azzurro gli occhi al pari d'un Dio,
gagliardo il braccio e pugnace, ma pietoso dell'animo e amante del giusto, ti
opponesti tu a quanti alzavano la mano dominatrice sopra i giganti e gli eroi.
Infiammato da nobile ardire, armasti il tuo braccio contro la tirannia di
Nemrod, allorquando il genere umano su tutta la terra si sparse. Era in mezzo a
questo un popolo di giganti, fuor di misura robusti e di lor forza superbi; il perché
ciascuno, come da una furia sospinto, immerse la spada nel fianco del compagno;
tutti sforzandosi dominare sugli altri.
«Ma la fortuna aiutò Nemrod ad
usurpare la terra tutta; Nemrod, figliuolo di Mesdrim, a cui fu padre Cus,
della progenie di Titano. E ricusa Aìco obbedirgli; e glorioso come la stella
del suo nome, vagante pe' cieli3 si allontana verso settentrione,
menando seco, astri minori, i figli, le figliuole, i nepoti, uomini vigorosi,
in numero di forse trecento. Vassene co' figli de' suoi servi, cogli estranei a
lui ossequenti e con tutto il suo avere; vassene alle terre alte dell'Ararat. e
si pone a piè d'un monte, ove alcuni degli uomini, per lo innanzi dispersi, già
avevano messo dimora.
Costoro ei sottomette alle sue
leggi; mura edifizi su questa terra e la dà in retaggio a Cadmo, al figliuolo
d'Armènago suo.
«Di là trascorre, il savio
gigante, progenitore dei nobili Aicàni; va col resto dei suoi tra settentrione
ed occidente, e si ferma ad un piano, che oggi ha nome di Harc, ovvero dei
padri. Lo rammenti con allegrezza ognuno di voi e lo insegni a' suoi figli;
dinota quel nome che lassù abitarono i padri della casa di Thogarma, nel borgo
Aicascèno, che suona costrutto da Aìco. A mezzogiorno del piano, vicino ad un
monte di larghe falde, s'erano prima alcuni uomini stabiliti. E costoro, tratti
da riverenza, spontanei giurarono fede all'eroe.
«Ma il titano Nemrod, raffermato
il suo dominio sui leoni della pianura, guata con invidia all'aquile della
montagna, si strugge della nascente potenza d'Aico. Tosto gli spedisce un
fìgliuol suo con buona scorta d'uomini fedeli, e melate parole dissimulano
l'imperiosa acerbità del messaggio.
«Tu abitasti finora tra i ghiacci
e le brine. Riscalda e tempera il freddo gelido de' tuoi alteri costumi, e a me
sottomesso ed amico, vivi tranquillo là ove piace a te, sulla terra del mio
soggiorno.
«Regni il Titano sulla terra sua;
- rispose il figlio di Thogarma, corrugando le ciglia. - Aìco nulla gli
invidia, nulla chiede da lui. Andate, e ditegli questa breve risposta: l'arco
lungi saettante del cacciatore ha intorno a sé mestieri di spazio.
«All'udire l'altiero diniego,
tutto si svela il mal animo di Nemrod. Irato cavalca il Titano alla montagna;
cavalca con grande esercito e giunge alla contrada di Ararat, sotto alle case
di Cadmo. Fugge questi a ricovero presso dell'avo, e manda avanti a sé veloci
corrieri.
«Sappi (manda il figlio
d'Armènago), sappi, o il più grande tra gli eroi, che Nemrod sta per
rovesciarsi su te, co' suoi sempre gagliardi, co' suoi guerrieri colossi.
Com'io il vidi avvicinarsi alle mie stanze, fuggii; eccomi, vengo io gran
fretta; tu cura ciò che devi e l'accorto ingegno t'inspiri.
«Come l'impetuoso Arasse,
sfondate le caverne delle montagne, corre le valli boscose, varca le anguste gole
e gli stretti, e scende, precipita col terribil fragore nel piano, così venia
romoreggiando il Titano, colle ardite e poderose schiere. Confidava egli nel
valore e nel numero de' suoi soldati. Ma il cauto e savio gigante dai capegli
riccioluti e dall'occhio vivace, raduna tosto i suoi figli e nipoti, guerrieri
intrepidi e arcieri valenti, pochi di numero, ed altri alla sua legge
ossequenti. Arriva, dì e notte correndo, alle salse acque di Van; e così parla
il cauto e savio gigante alle schiere:
«Ad util segno soltanto si tende
l'arco del cacciatore esperto, e sempre decisivo è il suo colpo. Nel
riscontrare l'esercito di Nemrod, sforziamoci di giungere ov'egli sta, da molti
suoi guerrieri circondato. O morremo, e le nostre salmerie cadranno in sua
mano; o la destrezza del nostro braccio mostrando, disperderemo la sua gente e
avremo frutto della vittoria.
«Tosto superato quell'intervallo
di lunghissimo tratto, i guerrieri d'Aìco arrivano in una convalle tra erte
montagne; poscia, a destra del fiume, si trincierano sopra una altura. E in
quel mentre, alzati gli occhi, videro la confusa moltitudine dell'esercito di
Nemrod, spinta qua e là da audacia feroce e su tutto il terreno diffusa.
«Nemrod, tranquillo e fidente,
con forte drappello si stava alla sinistra dell'acque, come alla vedetta, là su
quel poggio ch'io vedo. Aìco riconobbe il drappello dov'era il Titano innanzi
alle sue torme, con iscelti e ben armati guerrieri. Ed era tra lui e l'esercito
suo grande spazio di terra.
«Elmo di ferro cingeva il possente;
elmo di ferro ampiamente crinito. Corazza di rame portava al dorso ed al petto;
schinieri e bracciali gli chiudeano le membra. I fianchi accinti; al sinistro
spada a due tagli; nella destra gran lancia; saldo scudo a sinistra; da un lato
e dall'altro eragli il fiore de' suoi.
«Aìco, vedendo il Titano così
tutto lucente nell'armi, mette in ordinanza le schiere. Armènago ed altri due
figli alla destra; Cadmo e due altri della sua prole a manca, perché erano
esperti in trar d'arco e in maneggiare la spada. Egli, poi fattosi avanti,
dispone dietro a sé in cuspide di lancia le sue genti e le fa ordinatamente
procedere.
«Orrido scontro! Di qua, di là,
serratisi i giganti gli uni sopra degli altri, coll'urto scambievole facevano
rimbombare la terra, e col furor degli assalti spargevano mutuo timore e
spavento. Ivi, molti giganti robusti, quinci e quindi colpiti dalle frecce e
dalle spade, stramazzavano al suolo; tuttavia il combattimento pendeva incerto
dall'una parte e dall'altra.
«Bene si avvide allora il figlio
di Misdraim di aver troppo confidato nella sua vecchia fortuna. Sbigottito
dallo imminente pericolo, fece ritorno sul colle dond'era poc'anzi disceso; ché
pensava in mezzo alle sue schiere affortificarsi vieppiù, fino a tanto che,
giunto tutto l'esercito, potesse in larga fronte ridar la battaglia. E dietro a
lui salivano l'erta i suoi guerrieri colossi, per fargli scudo e difesa,
maledicendo alla gagliarda resistenza del nemico e invocando con rabbiose grida
il soccorso de' cieli.
«Già erano al colmo e respirava
finalmente il monarca. Ma in quel mezzo, Aìco, il forte arciere, cui erano noti
i più ascosi sentieri, apparisce sovra un poggio, che lo mette a pari del
fuggente nemico. Lo ravvisa Nemrod, alla prestante alterezza della persona,
alla vellosa pelle che penda dagli òmeri del montanaro, alle penne d'aquila che
gli fanno orrido cimiero sull'elmo di ferro lucente; lo ravvisa e trema forte
in cuor suo, il possente cacciatore di popoli. Fremono, poi che l'hanno veduto
a lor volta, i giganti, i sempre valorosi guerrieri di Nemrod; già stanno per
muovere contro di lui, sperando vendicarsi sovr'esso dei danni patiti.
«Ma invano; già il figlio di
Thogarma ha teso il grand'arco lungi saettante, e, tolta la mira coll'azzurro
occhio infallibile, scocca poderosamente una freccia a tre ale, diritta al
petto di Nemrod. Romba in aere la corda, vola sibilando lo strale, rompe la
corazza come fosse di tenero cuoio e trapassando il petto riesce pel dorso.
Cadde a terra il Titano; indarno tenta strapparsi l'acuto ferro dal seno, e
fiotti di sangue e bestemmie gli gorgogliano dalle fauci; dà un tratto, indi un
altro, cerca degli occhi il sole e rende lo spirito invitto.
«Un grido di gioia, grido
possente, si eleva. È il grido di Aìco, che fa restarsi sospese e attonite le
pugnaci coorti. Si addensano intorno al caduto i suoi prodi. Egli è spento. Che
fare? Ecco, nuovi dardi fischiano per l'aria, seminano la morte intorno al
riverso Titano. Terribile, implacato come il Dio della folgore, Aìco saetta. Fuggono
allora, compresi d'alto spavento, fuggono i guerrieri colossi; invano
schermendosi coi larghi scudi sonanti sugli òmeri, senza più volgersi indietro.
«Gloria al tuo arco, o nobile
Aìco! Posi esso eternamente sospeso alla sacra parete del tempio di Peznuni.
Braccio mortale non varrebbe a tenderlo oggi; e il potesse anco, avrebbe forse
compagno l'infallibile sguardo azzurro del fortissimo arciere?
«Sangue bagna la collina di
Kerezmanc; sangue allaga tutta l'ampia convalle di Ajotzor; sangue scorre l'Eufrate,
ancor povero d'acque. Odorano i corvi la preda, e calano in fitto stuolo alla
pastura. Ma il forte è magnanimo e pio; dà sepolcro onorato ai cadaveri, e la
collina ha il nome suo dalle tombe. Il gran corpo di Nemrod, plasmato entro e
fuori di balsami e di sontuose vesti coperto, lo portano le vittrici aquile
montanare in Harc, alle sante sedi de' padri. Colassù, alla vista della regal
casa di Thogarma, dorme gli eterni sonni il nemico delle libere genti aicàne.»
Così cantò il vecchio Abgàro, tra
l'ansia, il fremito e la commozione profonda delle migliaia che l'ascoltavano.
E un grido di ammirazione, di gioia, di gratitudine immensa, si levò
tutt'intorno, poi ch'egli ebbe finito.
Ardevano tutti i cuori, e bene a
ragione, per quei gloriosi ricordi. Quello era appunto il luogo della memoranda
pugna; quella pianura, che si stendeva dinanzi ai loro occhi, era Aiotzor; in
vista del poggio di Kerezmanc era cantata la vittoria di Aìco.
- Mai così grande si palesò il
vecchio Abgàro, - dicevano ne' loro crocchi i guerrieri.
- Il suo canto, - soggiungevano
alcuni, - ha dissipati i tristi presagi.
- E quali?
- Nol rammentate, il responso
dubbioso dell'oracolo di Peznuni? «È in Aiotzor la tomba dei Babilonesi. «
Sicuramente, ella c'è; ma degli antichi seguaci di Nemrod.
- Orvia; troppo chiare parole si
chiedono agli oracoli. I sommi Dei vonno lasciare alla fortezza del nostro
braccio l'adempimento dei vaticinii felici.
- E in Harc, l'altra notte, non
s’è egli udito un sordo rumore nelle viscere del monte, come d'armi percosse?
Il feroce Titano s'è desto e si solleva sul cubito.
- Stolto consiglio sarebbe il
suo. Là presso riposa colui che l'ha vinto ed ucciso. Se Nemrod si sveglia, non
temete; anche Aìco non dorme. -
Intanto che questi ragionari si
facevano nella moltitudine, Ara il bello erasi avvicinato ad Abgàro e
nell'impeto della sua ammirazione lo aveva abbracciato. Il vecchio cantore,
commosso, tenne lungamente stretta sul seno venerando la bionda testa del
principe, tra gli applausi di tutti gli astanti. Grande è la maestà, come la
potenza dei re; ma l'ingegno, raggio dell'anima, in sé racchiude alcun che di
divino; donde un'arcana virtù che penetra i cuori e soggioga.
- Prode figlio di Aràmo, tu rinnoverai, - disse
allora il poeta, - gli alti prodigi del valore d'Aico.
- Ah, non lo spero; - rispose il
giovine re; - ma le tue parole mi staranno qui dentro, e farò d'imitarlo ne'
generosi propositi.
- Già cominciasti, - entrò a dire
Vasdag, - scegliendo il tuo campo. Qui pugneremo; di qui ci avventeremo sulle
schiere elette della superba regina. O morremo, e le nostre salmerie, le nostre
fortune tutte cadranno in sua mano; o la destrezza del nostro braccio
mostrando, disperderemo il suo esercito e avrem frutto della vittoria.
- Verrà ella sulla prima fronte,
audace al pari di Nemrod? - chiese, con piglio d'incredulo, uno tra gli
ufficiali del re.
- Certo, ella verrà! - rispose
Ara, fremendo. - Forte guerriera è costei. -
Né altro disse, che gli faceva
ostacolo l'interno ribollir degli affetti.
- Forte sì, e superba, -
soggiunse Abgàro, - come nelle vene le scorresse il sangue dei Titani. Ma non è
tralignato il seme aicàno e la fortuna lo ha sempre assistito fin qui.
Armènago, fondatore di Aracaz, ed Armais, che diede il suo nome alla città
d'Armavir, non estesero sempre più l'avito dominio? Amasia, il padre del
fortissimo Kogam, del valoroso Parok e del giocondo Tzolag, non si fè' egli
padrone di tutta la catena dell'Ararat, detto Masis da lui? E Kegam non
signoreggiò egli in breve ora tutta la felice contrada cui bagna l'Arasse? Ed
Arma non dilatò d'ogn'intorno il reame? Che dire di Aràmo, del glorioso tuo genitore?
Questo guerriero, amante della fatica, voleva piuttosto per la patria morire,
che scorgere i figli dello straniero calcare il suolo natìo, sopra i suoi fratelli
imperando. Narro storia a noi molto vicina e presente all'animo di tutti.
Aramo, pochi anni innanzi l'impero di Nino, molestato dalle vicine nazioni,
raduna tutta la moltitudine de' suoi valorosi, abili a trattar l'arco e a
scagliare il giavellotto, giovani, nobilissimi, di gran, destrezza e bellezza
notabile; esercito che per coraggio, e nell’atto, vale cinquanta migliaia. Sui
confini d'Armenia incontra il fiore dei Medi, condotti da Niucar, detto Matès,
superbo e bellicoso guerriero; gli piomba addosso improvviso, innanzi lo
spuntar del sole, e stermina la sua gente; lui, fatto prigioniero, conduce ad
Armavir e in cima alla gran torre, forata la fronte con lungo palo di ferro,
comanda che sia inchiodato, a terribile esempio per tutti gli oppressori e
scorridori delle contrade d'Armenia. Nino istesso se l'ebbe per detto. Nino
che, avendo in cuore una memoria d'odio pel suo progenitore caduto in Aiotzor,
meditava lungamente vendetta. Celò egli i suoi tristi disegni, sebbene
potentissimo fosse, e mandò messaggieri ad Aramo; conservasse il suo dominio,
portasse liberamente la benda di perle, e secondo regnasse, dopo di lui, tra i
re della terra. Aquile aicane, salvete; è vostro l'impero dei monti. -
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