Così s'apparecchiavano le genti
aicàne alla prova dell'armi. E frattanto, dal passo di Lukdi si avanzava
l'esercito di Semiramide, facilmente respingendo i drappelli armeni colà posti
in vedetta, e tacitamente distendendosi su per le circostanti alture. Buon nerbo
di cavalieri e di fanti s'erano volti ad oriente, accennando a risalire verso
le sorgenti del Tigri, siccome gli esploratori avean riferito ad Ara; ma poco
oltre una mezza giornata di cammino, i cavalieri avean fatto sosta, e i fanti,
scelti tra i più destri arcadori dell'esercito, aveano piegato non visti a
settentrione, inerpicandosi per le ripide coste ed addentrandosi a gran fatica
nelle impervie forre delle montagne.
Bene era Semiram quella eccelsa
guerriera che il re d'Armenia, nella onesta schiettezza dell'animo suo, erasi
affrettato a riconoscere. Mai donna degli antichissimi tempi era stata più
addentro di costei nelle gravi cure e nelle aspre discipline della guerra, né
altra che potesse ragguagliarsi a lei avevano a darne le età più recenti.
Nata d'arcane nozze in Ascalona
di Siria, nutrita nel tempio di Derceto e cara (dicevano le favole del volgo)
siccome figlia alla Dea, le grazie nascenti d'una sovrumana bellezza l'avean
fatta sposa a Mènnone, prefetto e governatore, pel re degli Accad, di tutto il
paese di Palastu sulle rive del Mar d'occidente. Ora il re degli Accad era
Nino, figlio d'Arbel, della stirpe di Neinrod, che allora, con tutte le forze
del suo impero, si disponeva ad invadere la Bakdiana.
Chiamato era Mènnone al campo del
re; né potendo egli lungamente rimanervi senza la donna dell'amor suo, che
colla leggiadria delle incomparabili forme e coll'avvedutezza del consiglio sì
l'aveva soggiogato, mandò alcuni suoi famigliari a chiamarla, che, come più
presto poteva, si riducesse al suo fianco. E l'ebbe come desiderava, mentre
l'esercito, corso tutto il paese dei Medi, stringeva Bakdi, la capitale,
vanamente d'assedio.
D'ingegno acutissimo e d'animo
pronto, la donna leggiadra aveva colta quell'occasione per far mostra di sua grande
virtù. E per potere, con più sicurezza fare il viaggio, ch'era di molte
giornate, aveva indossata una stola, per la quale non potesse distinguersi se
fosse uomo o donna, chi n'era ammantato; giovandole inoltre quel vestimento,
così a difesa delle candidissime carni contro gli ardori del giorno, come a
farla più snella, in ogni occorrenza, o pericolo. E tanta fu la grazia di quel
suo modo di vestirsi d'allora, che i Medi poscia, e gli Assiri, e da ultimo i
Persi, insignoritisi dell'Asia, vollero portare la stola di Semiramide.
Intanto, giunta ella al campo,
considerando come l'assedio era condotto, aveva visto tutta la forza del nemico
rivolgersi contro i luoghi campestri ed ovvii alle irruzioni, ma nessuno
frattanto custodire la rocca, che per natura e per arte era fortissima. Presi
pertanto uomini che sapessero inerpicarsi sulle rupi, e valicata con essi una
certa valle, ascese alle opposte eminenze ed occupò una parte della rocca, ed
ai suoi, che combattevano nel piano sotto le mura, diede il segnale. Fu allora
che i difensori della città, colti da terrore improvviso per la rocca presa,
non avendo più speranza di difendersi, abbandonarono le mura.
Volò il nome di Semiramide per
tutte le bocche. La vide il re, e, preso da tanta bellezza, ne innamorò vivamente.
Abbi, - dissegli a Mènnone, quanta sostanza del mio tesoro vorrai, e mi
appartenga Semiram.
- Nulla sono le ricchezze del tuo
regno, - rispose Mènnone al re, - nulla sarebbero quelle dei mari lontani al
paragone di lei.
- Sii secondo appo me, - ripigliò
Nino infiammato; - abbiti in moglie la mia figliuola Sosane, per cui tanti re
della terra sospirano, e mi appartenga Semiram.
- No; - disse a lui di rimando il
marito. - Io ti rendo grazie, o re dell'onor singolare, che ogni altro
m'invidierebbe per fermo. Che mi varrebbe esser secondo appo te, quando io non
fossi più il primo e l'unico nel cuor di Semiram? Vada la tua gentil Sosane ad
un possente, che sia degno di così alto parentado; nessuna figliuola di re mi
pagherebbe la perdita del vago fior d'Ascalona.
- E sia; - gridò Nino, corrugando
la fronte e mettendo lampi dagli occhi; - rinunzia alle ricchezze; rinunzia
agli onori; ma io giuro per Nisroc, che in questo mentre già libra le tue
sorti, tu non vedrai più il vago fior d'Ascalona. Con ferro rovente ti si
sfonderanno le pupille tra un'ora; che più non ti concedo di tempo a consigliarti
di ciò. -
Preghiere, pianti e scongiuri,
non valsero; bisognava obbedire. Mènnone, pel timore delle minacce del re, e
per la gelosia che era possente in cuor suo, montato in furore, corse alla sua
tenda e s’uccise. Per tal modo, sebbene riluttante, Semiramide era fatta
consorte di Nino.
Il fiero Cussita nulla tralasciò
che giovasse a medicare l'acerba piaga, aperta da'suoi desiderii in quel
giovine cuore. Unica sua compagna la volle; regina la pose su tutte le genti
tra il Mar d'occidente e le terre dei Medi. Ma, più che il regio fasto e
l'obbediente affetto dell'ammansato leone, valse il grand'animo desideroso di
grandi cose, a lenire la sua cura. Indi a non molto, il suo possente signore
moriva, lasciandola madre di Ninia. E fu allora che la sua mente gagliarda si
palesò tutta quanta. Spiaceva agli Accad, perché donna e straniera; ma la sua
grandezza, superiore a quella di tanti uomini portatori di scettro, li vinse. E
non si dolsero d'essere caduti in balìa d'una mano di donna, allorquando videro
quella mano impugnare la lancia e tentar le redini del corsiero, che volava
sempre dov'era più aspra la pugna.
Un giorno (e fu dei primi del suo
regno), la rivolta era scoppiata nelle vie di Babilonia. La regina sedeva nel
suo spogliatojo, in mezzo alle ancelle, intenta a rassettarsi le lucide chiome.
Udire il molesto annunzio e balzare in piedi fu un punto. Scese nella corte del
suo palazzo, ove stavano poche schiere adunate, e così scarmigliata come era,
accesa in volto di sdegno, montò subitamente a cavallo, corse a furia dove più
spesseggiavano i rivoltosi, entrò di lancio nel mezzo, e con fiere parole li
rampognò di lor fellonia. Sbigottiti gli uni, commossi gli altri da tanto
ardimento, tutti soggiogati da una così felice mistura di sublime bellezza e di
regale corruccio, posarono le armi, la gridaron regina e veramente figlia di
Dea.
Abbellita in singolar modo la
città e quasi riedificata da lei; la Media domata, e il suo vecchio re Ossiarte
costretto a tributo; signoreggiata tutta la terra degli aromi, che si stende
dal paese degli Aribi infìno al mare di mezzodì; temente ed ossequioso il
popolo altero di Mesrahn; le insegne degli Accad condotte di vittoria in vittoria
per l'estremo oriente, fino alle rive dell'Indo; erano questi i diritti di
Semiramide alla obbedienza ed alla venerazione delle genti del Sennaar. E là
sull'Indo, recata la guerra contro il re d'innumerevoli schiere, Staprobate,
non aveva ella fatto prova d'altissimo ingegno, pari a quello dei più insigni
condottieri d'esercito? Assai prima di Alessandro Macedone, non aveva ella
provveduto guado d'un largo fìume, con migliaia di barche in tal guisa
costrutte, che si potessero agevolmente scomporre e portare sui carri? E laggiù
s'era ella mostrata grande nella prospera, più grande nella avversa fortuna,
allorquando, fallita in sul meglio l'impresa, perché i suoi soldati non erano
avvezzi a combattere gli elefanti, condusse il suo esercito al ponte e lo ridusse
in salvo, ultima a ritirarsi davanti al nemico e pronta a recidere le funi che
tenevano le barche congiunte.
Donna invero eccelsa per
grandezza d'animo e per felice accoppiamento di virtù virili e di grazie
femminee, a tutto intendeva, di tutto si pigliava gran cura, e in pace maturava
gli accorgimenti di guerra, in guerra assicurava le arti della pace, senz'altro
pensiero, fuor quello della felicità del suo popolo Il monte Bagistano, da lei
foggiato a monumento della sua gloria, città nuove, templi, strade militari,
canali portatori di acqua ai campi infecondi, tutto recava l'impronta del suo
genio multiforme. Per lei la stirpe degli Accad fu grande e avventurosa, come
non era stata mai; lampada che dà guizzo di più splendida luce, quando ella è
presso a mancare.
E ben meritava la pace e la
contentezza per sé, lei che cotanto aveva fatto per la prosperità del suo
popolo. Ma, pur troppo, non può esser tregua al dolore, pei nati dalla creta. E
appunto allora, quando ella sperava rifarsi dalle molte fatiche ne' taciti
gaudii del cuore, in gloriosa quiete, confortata dal più nobile affetto,
un'altra guerra le appariva necessaria. Il delicato sentir della donna e la
maestà della regina erano stati offesi del pari. E da chi? Da un re tributario;
dall'uomo in cui aveva ella riposto sua fede, a cui s'era data in balìa, con
quel sublime abbandono, con quella piena dimenticanza di sé, che accompagnano e
dimostrano le profonde passioni, le sole vere e desiderabili della vita.
Stava ella al passo di Lukdi,
siccome si è detto, e le sue schiere, passate in rassegna, a mano a mano si
avviavano ai luoghi assegnati.
Giusta il costume suo in
simiglianti occasioni la regina aveva fatta sul piano un'alzata di terra a
guisa di poggio, su cui vedevasi eretto il suo trono, sotto un padiglione di
bisso divisato a colori. Sorgeva a manca un'antenna, dal cui sommo sventolava
una striscia di porpora, insegna del comando che tutti potessero agevolmente
vedere da lunge, e a destra lo stendardo degli Accad, che era un leone alato,
dalla faccia umana, tutto d'oro massiccio, innestato sulla punta di un lungo
giavellotto.
A' piedi dello stendardo e
distribuiti sul pendìo di quella eminenza, trecento sceptùchi, o portatori di
scettro, vegliavano, tutti nobilmente vestiti di bianca e corta tunica,
frangiata d'oro, sotto di cui apparivano le anassìridi di cuoio colorato, che
s'attagliavano alla gamba e la facevano più salda al cammino.
Dall'altra banda, ove sorgeva
l'antenna colle insegne del comando supremo, stavano a custodia trecento portatori
di lancia, terribili a vedersi nelle corazze di rame e negli elmi criniti.
Alle falde del poggio era il
carro di guerra della regina, tutto di bronzo, con aurei fregi, che simulavano
soli fiammanti. Otto poderosi cavalli di Media erano fermi al timone, tutti
bardati a squamme di ferro e muniti d'un’ampia rotella sul petto, dal cui mezzo
sporgeva un minaccioso spuntone. Succinti valletti erano di fianco ai cavalli,
per tenerne le redini e frenarne i moti impazienti; l'auriga stava immobile al
suo posto, aspettando la regina, mentre lo scudiero disponeva in bell'ordine,
sulla proda del carro, l'arco, la faretra, i giavellotti e lo scudo.
Semiramide intanto stavasi ritta
sul trono, in nobile atteggiamento, con una lancia nel pugno. Indossava una
tunica di porpora, del color d'amatista, e una bianca sopravveste, serrata ai
fianchi da un'aurea cintura, donde pendeva la spada, col fodero tempestato di
gemme. Non portava collana o monile; per contro, al sommo del petto appariva
fuor della tunica una gorgiera di ferro lucente, segno che tutta la persona era
catafratta del pari. Un elmo alato le cingeva le tempie, lasciando libera la
nerissima capigliatura che scendeva in larghe anella sugli òmeri.
Così chiusa nell'armi ed altera,
i Greci l'avrebbero tolta per Minerva discesa tra gli uomini, e si sarebbero
prostrati a' suoi piedi, adorandola. Il pastore di Frigia l'avrebbe piuttosto
creduta Venere, rivestita delle spoglie di Marte; e a lei pur sempre, a lei
sola, avrebbe dato il vanto della bellezza. Severa bellezza era per altro la
sua; una torva luce, come lampo per notte buia, rischiarava il profondo di
quegli occhi stupendi; erano chiuse, irrigidite da acerbo dispetto, quelle
labbra di corallo, che agli umili riguardanti facevano sognare la ineffabile
ebbrezza d'un bacio.
Ai fianchi della regina, ma
alquanto in disparte, si vedevano i primi uffiziali dell'esercito, vecchi e
sagaci consiglieri di guerra. Sui gradini del trono stavano immoti i portatori
di flagello, vivi emblemi delle pene imminenti ai ribelli, ai trasgressori de'
comandi reali. Dietro a lei gli eunuchi, riconoscibili alle guance imberbi e
alle fattezze muliebri, ardevano soavi aromi e scuotevano flabelli di candide
penne.
Nella pianura sottostante,
l'esercito si scorgeva tutto in moto, e in ordine così lungo, che l'occhio non
poteva abbracciarlo d'un tratto. S'inoltrava quella moltitudine immensa,
balenando, ondeggiando, siccome campo di spighe. Nitrivano i cavalli
scalpitanti; sonavano con alto fragore i carri, dando frequenti sobbalzi
lunghesso il sentiero; strepitavano i timpani, gli oricalchi e gli strumenti
della musica guerriera. Gli scudi, le loriche, gli elmi e le lancie,
luccicavano al sole, confondevano lo sguardo. Pareva di scorgere Sam, nell'ora
che si mostra sull'orizzonte, e fa scintillare in mobili pagliuole d'argento le
creste del mare agitato. Qua e là, per mezzo allo sterminato piano di elmi e di
punte lucenti, si rizzavano le lunghe cervici dei dromedari sabei, le doppie
terga dei cammelli di Bakdi, le immani teste orecchiute degli elefanti indiani,
colle lor proboscidi erette e le torri barcollanti sul dorso, e trofei,
bandiere, pennoncelli di cento colori; tutto in moto verso le falde del poggio,
innanzi al quale dovea passare ogni schiera.
Colà diffatti si scorgeva un
ampio e lungo steccato, entro al quale i guerrieri, poiché tutto l'avean colmo,
si fermavano un tratto, indi proseguivano speditamente la via. In quel modo si
noveravano allora le forze degli eserciti. Capace era lo steccato di una
miriade, cioè di diecimila uomini mandati innanzi su d'una fronte di cento;
epperò, a mano a mano che i guerrieri varcavano lo spazio misurato e una o più
schiere addensate giungevano a riempirne i limiti estremi, lo scriba segnava un
numero nel suo papiro, e così via via fino all'ultimo, per poi cavarne la
somma.
Quel dì lo scriba reale aveva a
segnare settanta numeri e più, imperocché tante miriadi conduceva seco la
regina degli Accad; cinquecento mila fanti e dugentomila cavalli. Il primo
novero già era stato fatto nel campo di Assur, ed in altra maniera anch'essa in
uso a que' tempi. Secondo quella, ogni soldato passando gittava una freccia
entro una cesta, a tal uopo preparata. A mano a mano che le ceste si
riempivano, eran chiuse col regio suggello e si riponevano in luogo da ciò. Finita
che fosse la guerra, si rimettevano in ordine e, rotti i suggelli, ogni soldato
di là passando ripigliava una freccia. Le ultime rimaste, come di leggieri
s'argomenta, davano il numero dei perduti in battaglia.
E passavano i guerrieri,
passavano lieti e superbi dinanzi al poggio reale, facendo suonar l'aria di lor
grida discordi.
Primi erano i soldati delle
contrade a mezzogiorno di Babilonia; settantamila di numero. Si riconoscevano
gli uomini di Mahabu e di Karbaniti, sui confini di Mesraim; gli Arìbi e i
Kidri, i Nabati, i Curassiti e i Sabei, fieri abitanti della vasta penisola che
s'immerge come ascia lucente nel mare lontano. Guidavano innumeri torme otto
principi di quelle ultime regioni che son presso alla aurifera spiaggia di
Ofir; i capi delle tribù di Caldili, di Rapiati, di Magalani, Cadascì, Dihtani,
Ihilu, Gahpani, Guzbièh. Tutti costoro, valenti arcadori, vestivano succinte
tuniche e portavano calzari intessuti con fibre di palma; cingevano il capo di
bende a più giri ravvolte, e corte spade recavano al destro lato sospese. Nel
sembiante della più parte di loro erano impressi i segni della stirpe camitica;
breve la fronte, il naso piatto, corti i capegli e crespi, la carnagione
abbronzata.
Seguivano gli uomini delle
regioni d'occidente, di Martu, di Aharru e di Hatti. Erano costoro duecento
migliaia, tutti della progenie di Sem. Numerosi tra essi i Dimaskiti, quei di
Birtu, la città bianca sul monte, di Laki, di Simari, alle falde del Libano, di
Arvada, che è sul mare, di Bit Buruta, di Sidunnu, la trafficante di porpora.
Mancavano quei d'Izcaluna, avendo Semiramide liberati i suoi concittadini
dall'ufficio dell'armi. C'erano in quella vece i fieri abitatori di Palastu,
armati di fionda e di accette di selce. Seguivano del pari le insegne i popoli
marinari di Yatnana, che è Cipro, e delle altre isole, di Idihai, Kitusi,
Sillua, Pappa, Aprodissa, poste sul mare del sole occidente; questi armati di
scure e diligenti artefici di macchine da espugnare città; gli altri tutti,
nominati più sopra, arcieri gagliardi e destri nel maneggiare la clava nodosa.
Venivano dopo questi i guerrieri
delle regioni settentrionali di Nahiri e di Assur, di Urusu e di Urumi, di
Nazibi e di Arbel, di Tusan e di Amida, che è sulla riva sinistra del Tigri, di
Ninua, la futura rivale di Babilu, di Tuhani e di Izama, di Kabsu, nei pressi
di Nipur, le cui abitazioni son fabbricate in alto sui greppi come nidi
d'uccelli, di Haran e di Resen, di Tadmor e di Reoboth. Tutti costoro
discendenti di Assur, Semiti, fuggiaschi dalla terra di Sennaar ai primi tempi
della dominazione cussita, ed ora assoggettati da Nino e da Semiramide
all'impero babilonese. Forti guerrieri son essi, e nel combattere corpo a corpo
valenti. Portano corazze a sette doppi di lino, macerato da prima nell'aceto,
donde si fa più tenace e più saldo; imbracciano tondi scudi, e cingono elmi di
bronzo; spade, archi e mazze ferrate, son l'armi loro. Di essi una parte è a
cavallo, e gli uni e gli altri ascendono a cento migliaia.
Quarto in ordine di cammino
veniva il forte popolo d'Elam, che è di là dai monti orientali. Si notavano per
la bella presenza gli uomini di Susan, città reale, di Rasu e di Hamanu.
Seguivano i Madai, nobilissima schiatta, i Parsua, gli Ariarvi, i cittadini di
Muru e di Bakdi, tutti della antichissima e pura stirpe di Javan, e di sangue,
ma non più di memorie e d'affetti, congiunti agli Armeni. I Parsua attiravano
più d'ogni altra gente lo sguardo, per le loro bionde capigliature inanellate e
per gli occhi bigi, che li facevano parer quasi una famiglia al tutto separata
dalle altre. Elamiti, Medi, Persi, Ariani, Margiani e Battriani (che cosi,
lievemente mutati, giunsero i nomi loro alle età susseguenti) erano duecento
migliaia: metà de' quali a cavallo con archi sugli òmeri, corazze di ferro a squamine,
elmetti e scudi parimente di ferro. Destri erano costoro a trar l'arco
cavalcando e a tôr la mira fuggendo, colla fronte ed il petto rivolti
all'indietro. I fanti vestivano di cuoio; portavano, come i cavalieri, le
anassiridi di pelle a difesa delle gambe; armi da offesa avevano i giavellotti,
ascie a due tagli e spade di ferro alla cintura. |
A queste genti tenevano dietro
gli abitatori del Sennaar, i fieri Cussiti, gli Accad, i Sumir aspro favellanti,
tutta, insomma, quella mescolanza di popoli diversi, che furono i fondatori di
Babilu. Cinquanta migliaia erano i cavalieri, con loriche ed elmi di forbito
rame, lancie ritte sulla staffa e mazze ferrate pendenti all'arcione. Più numerosi
i fanti, tutti vestiti di cuoio; parte fiondatori, con bisacce sull'òmero, che
recavano selci, ghiande di piombo, o d'argilla e bitume; parte arcadori, dalle
cui spalle pendevano le capaci faretre.
Si avanzavano poscia le
artiglierie, torri, uncini e macchine da trarre, con cammelli carichi di
munizioni, dardi intrisi di nafta, palle di bitume e di zolfo. Seguivano
quaranta elefanti, smisurati animali condotti dalle rive dell'Indo, ognun de'
quali portava il suo custode sulla negra cervice e una torre sul dorso, con
dieci uomini armati di giavellotti e di frecce. Ultimi quattrocento carri di
guerra, con scelti guerrieri, armati d'aste poderose e accompagnati da esperti
cocchieri.
Chiudevano la marcia diecimila
uomini di scelta cavalleria. Militava in quella schiera il fiore e il nerbo
della gioventù babilonese, tutti usciti dalle prime famiglie dei Sennaar. Era
gran lustro lo entrarvi, imperocché s'avevano a comandanti dei drappelli uomini
di regio sangue, o congiunti di parentado colla discendenza di Nemrod.
Le fogge e l'armi rispondevano
per lo sfarzo loro alla dignità di quel nobilissimo corpo. Sulla lorica di
ferro temprato portavano il candì, tessuto di bisso, di latteo colore, con
fregi di porpora, cosparso di soli fiammanti in oro. Sul capo avevano la tiara,
i cui lembi si raccoglievano a soggolo, lasciando scoverta appena la metà delle
guance. Ricche cinture sostenevano le lunghe spade dalle lucenti guaine, ed
archi e faretre pendevano dagli omeri. Bianchi erano come neve i cavalli,
cresciuti pur essi nelle regie mandre di Sippara. E così bianchi sulle bianche
cavalcature, rutilanti d'oro e di porpora, era una vaghezza a vederli.
Diceansi i cavalieri di Belo, o,
con altre parole, la sacra miriade. Accompagnavano l'esercito, quando esso
stava sotto il comando del re, e in battaglia non erano adoperati che ne'
momenti supremi. La conscia nobiltà del sangue e l'obbligo dei forti esempi, li
facevano valorosi a gara su tutte le schiere. Andavano contro il nemico a corsa
sfrenata, lasciando le redini sul collo ai destrieri; quando si scorgeva quella
moltitudine incalzare a galoppo, coi brevi mantelli e le criniere svolazzanti
in mezzo a un nembo di polvere, pareva di vedere una legione di spiriti
celesti, scesi a combattere le miserande pugne degli uomini.
Passando di sotto al poggio, i
cavalieri di Belo acclamarono con alte grida la possente regina, che d'un gesto
cortese ricambiò loro il saluto; indi ella pure si mosse, per salire sul suo
cocchio di guerra, che l'attendeva nel basso. Dietro a lei scendevano a cercare
le loro cavalcature i suoi uffiziali, gli sceptuchi e i melofori; quindi gli
eunuchi, i serventi, i custodi del tesoro. E postosi in moto il corteo, si
affrettarono sull'orme i bagaglioni colle salmerie, e una grossa compagnia di
cavalieri, che doveva proteggere le spalle dell'esercito e impedire lo
sbandarsi ai codardi.
Al passo di Lukdi non era stata
quella confusione, che in tanta moltitudine d'armati era agevole immaginare.
Gli ordini della regina erano stati avvedutamente distribuiti; e i comandanti,
aiutati da guide esperte dei luoghi, avevano prese le vie a ciascuno assegnate.
I fanti s'inerpicarono per le
costiere e per le viottole alpestri; i cavalli seguirono le strade che
correvano lungo le rive del fiume. Sulla più vasta, che risaliva la sponda
destra, s'avanzavano, preceduti da buon nerbo d'arcieri, i carri di guerra e la
sacra miriade. Tenean dietro a questa le macchine, gli elefanti e i bagaglioni,
che ad un certo luogo dovevano far sosta per non riuscire d'ostacolo ai
movimenti dell'esercito.
Ogni cosa per tal modo disposta,
la marcia che doveva condurre l'esercito babilonese in vista del campo
d'Ajotzor, fu recata a buon fine in quel giorno. Gli Aicàni avevano udito dalle
loro scolte ravvicinarsi del nemico, e, come s'è detto, erano pronti a
riceverlo.
L'alba del giorno seguente salutò
i due campi, l'uno in presenza dell'altro.
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