Il dì seguente, che fu il settimo
di Garmapada (così il costume dei popoli medo-ariani; ma
presso i Caldei era detto Tana, o mese del fuoco), l'esercito babilonese
entrava in Armavir.
Profondo squallore, silenzio di
tomba, accolsero le schiere dei vincitori nella capitale dell'Aiasdan. La maggior
parte del popolo, donne, vecchi e fanciulli (che d'uomini acconci alle armi già
non ve n'era pur uno) avevano presa la fuga all'avvicinarsi del nemico; e
sconsolati per la morte dei loro diletti, più sconsolati per l'eccidio della
patria, quali tementi le orrende vendette del vincitore, quali rifuggenti dal
solo pensiero di doverlo vedere orgoglioso ed insolente padrone in mezzo alle
vie della loro città, s'erano rifugiati sulle montagne d'Urarti, che tale avea
nome presso gli Armeni la catena dell'Ararat. Non rimanevano nella città che i
decrepiti, gl'infermi, i mendichi.
Colpita da quel doloroso aspetto
della città principale, e volendo con esempio di magnanimità chetare gli
spiriti nell'altre provincie del regno, Semiramide inviò pronti messaggieri ai
fuggiaschi. Tornassero senza timore, liberi nella loro tristezza. Bene ella
sapeva non esser tra loro uomini validi al maneggio delle armi; per altro, non
voler prigionieri, salvo i pochi fatti in battaglia. Bastarle la sua piena
vittoria, le spoglie e i tributi di guerra. Aggiungeva, non sarebbe torto un
capello ad alcuno; sé esser donna e voler rispettate le donne dei vinti.
Tornassero adunque: sacro alla gente degli Accad il dolore di un popolo
soccombente; Belo e tutti i sommi custodi di Babilonia non esser gelosi del
culto che alle loro deità avrebbero liberamente seguitato a prestare gli
Armeni.
Generose parole, a cui, ne'
feroci tempi di allora, non erano avvezzi per fermo gli abitanti delle
soggiogate contrade. Insolite erano; parvero soverchiamente umane, incredibili.
Ma i messaggieri della clemenza portavano in pegno di loro sincerità il
suggello di Semiramide; li accompagnavano alcuni superstiti di Ajotzor, che
giuravano di avere udite le sante promesse dal labbro medesimo della possente
regina. Credettero i derelitti, e a lenti passi, come chi sa di non andare a
lieto ritrovo, finalmente tornarono.
Intanto, alle città e provincie
più lontane del regno, a Tarbazu, che è sull'Eusino, a Sarda e Zikartu sui
confini d'oriente, a Mildis e a Masciag dove il sole s'asconde, erano spedite
numerose coorti, per levar tributi e recar provvigioni all'esercito. L'oro, le
gemme, le pelli preziose, i viveri e quant'altro chiedevano i superbi, tutto fu
dato in silenzio, prontamente, con quella severa alterezza che sdegna di
piatire, o d'implorare condizioni più miti. A che contendere del più o del meno
cogli oppressori? Comunque fosse, non esisteva più Armenia.
Pure, la gran donna non meditava
di soggettare la vinta contrada all'impero. Più giusto sarebbe il dire che
nessun concetto aveva ella ancora in mente formato. S'era chiusa nella ròcca di
Van, rupe foggiata dalla natura a baluardo, sull'acque salse del lago, cosicché
poco aveva dovuto aggiungervi l'arte degli uomni. E là rinchiusa, mostravasi a
pochi.
Il suo ferito nemico era in una
camera appartata della ròcca, e vegliavano al suo letto indovini Caldei,
esperti di farmachi e di erbe salutari, i quali seguivano sempre l'esercito.
Sumàti, essendo stato fatto prigioniero insieme col re, aveva potuto seguirlo fìn
là. Bared, mal sopportando l'aspetto dell'Indiano, e lacerato dal suo rimorso,
era andato a confondersi cogli altri prigionieri, spiando con animo intento una
occasione di fuga.
Egli non si sarebbe detto per
fermo, al vedere l'aspetto desolato della ròcca di Van, che fossero vincitori i
suoi ospiti e giorni d'allegrezza per le schiere babilonesi. Una nube di atra
mestizia incombeva sul luogo; triste e taciturna la regina; pensierosi, come
fastiditi, i suoi uffiziali.
Dicevasi nei sommessi parlari che
il negro umore della regina derivasse dalle gravissime perdite che aveva
toccate l'esercito. La distruzione della sacra miriade, in particolar modo, e
la morte di tanti prodi, congiunti di sangue alla casa di Nemrod, erano invero
cagione di alto dolore non che per lei, per tutti i guerrieri di Kiprat Arbat,
veri sostegni dell'impero degli Accad e partecipi alla sua smisurata fortuna.
Tanto sangue sparso, e del migliore di Babilonia, non era egli un argomento di
profondo rammarico? ma come, altresì, e con che inusitato rigore, non avrebbe
fatto Semiramide le sue vendette e quelle de' suoi nella progenie d'Aìco!
Certo, quel cupo silenzio, il lampo sinistro degli occhi regali, promettevano
tempesta. Bene doveva egli risanare, il vinto re degli Armeni, ma per abbellire,
entro le mura di Babilonia, il trionfo della possente regina e pagare il fio di
tante nobili vite mietute. Tale era il costume degli Accad. Mozzata la lingua a
chi aveva spergiurato la sua fede; tronche le mani che avevano impugnate le
armi della ribellione; cavati gli occhi, che più non erano degni di vedere la
luce di Belo; questa sì, questa era la sorte dell'orgoglioso Aicàno.
Frattanto, egli giaceva nel suo
letto di dolore. Stremato di forze e non al tutto ritornato in sé medesimo,
egli non aveva ancora aperte le labbra a parlare. Hurki, il capo degli eunuchi
regali, era quasi sempre nella camera del ferito, e ad ogni tanto ascendeva
alle stanze della regina per recarie notizie di lui. Ma erano tristi nuove, e
poco ancora l'una dall'altra dissimili. Era sfinito il garzone, pel molto
sangue perduto; gli ardevano le membra per febbre; il seno, tutto intorno alla
ferita, tumido sempre e infiammato. Cibo non voleva, né conforto; i farmachi
apprestati dal Casdim a, stento gli erano ministrati, e non da altri fuorché da
quel suo vecchio fedele. Gli atti, i moti incresciosi del volto, mostravano
l'interno fastidio d'ogni cosa e di sé; la vita che gli rimaneva, parea volesse
comprimere nel profondo, nella speranza di soffocarla e di sottrarsi al suo
fato.
Ciò turbava sempre più la regina.
A notte colma, tutta chiusa nel suo manto bruno, scese furtivamente la scala
interna, che metteva alla camera dell'Armeno. Nessuno vigilava colà, tranne
Hurki, che ravvisò la sua signora e fu pronto a ritrarsi nelle stanze attigue,
dove gli altri si ristoravano con poche ore di sonno.
Un fioco lume rischiarava la
camera, lasciando il letto del ferito in una mite penembra. Ara mostrava il
petto scoverto; ma una larga benda, addoppiata intorno al torace, nascondeva la
piaga.
La regina si avvicinò, dal lato
dell'ombra, tirandosi sul volto i lembi del velo. Colà, ritta daccanto alla
proda del letticciuolo, stette lungamente guardando. Il cuore le palpitava
forte nel seno; gli occhi mettevano lampi di sotto alle ciglia contratte; aspra
battaglia di pensieri le travagliava lo spirito.
Egli era là, il traditore, il
leggiadro straniero, così facilmente impadronitesi di lei nel sacro bosco di
Militta, Ara il bello, il benvenuto alla reggia, l'ospite inebriato, che celava
la perfidia nell'anima! Egli era là, il superbo dispregiatore, il primo che
l'avesse mortalmente offesa, lei, la signora del mondo! Egli era là finalmente,
il tributario ribelle, per cui tante migliaia di guerrieri avevano incontrata
la morte; il feroce, l'immemore, che aveva osato tender l'arco e toglier di
mira un cuore, già da lui con più crudele arma ferito. Destro e audace a
colpirla nel più intimo degli affetti, non gli era bastato l'animo a
squarciarle il seno in battaglia! Ella, una donna, era stata più intrepida, più
forte, più generosa di lui. Però giusti gli Iddii, ed ella vincitrice a buon
dritto: egli là, vinto, disonorato, morente forse!...
Si accostò al suo capezzale. Il
ferito dormiva d'un sonno greve, affannoso. Allungò peritosamente la mano su
lui. La fronte gli ardeva; grosse stille di sudore bagnavano le tempie,
rapprendevano i capegli. Tremò tutta a quel tocco, e ritrasse la mano.
- Ma che gli ho fatto io? -
mormorò nell'angoscia del suo cuore. - Perché è egli fuggito? Perché m'ha fatta
vergognar di me stessa? È orribile, orribile! E m'odia egli, dopo avermi
sprezzata. Io ho saziata la collera mia; non l'odio più: l'ho mai odiato? O
Militta, o protettrice, m'avrai tu condannata per sempre? E sia; ma io darei me
stessa, il mio regno, la mia fama nel mondo, tutto darei, per l'attener questa
vita che gli sfugge dal seno.-
Così disse, piangente, perduta
dell'animo; e tratta dalla piena del dolore, cadde ginocchioni daccanto a lui,
lo baciò d'un bacio sommesso, ma intenso, ma lungo, bacio di donna amante che
tutta all'amor suo si concede.
- Risorgi, adorato, esclamò, - ed
odiami pure! -
I singhiozzi potevano tradirla,
risvegliare il sopito. Si tolse prontamente di là, e andò a ricadere dietro lo
stipite dell'uscio per cui era venuta. Si vergognava del suo pianto, la
possente regina, la sventuratissima donna. Pure, quelle erano le più nobili
lagrime che avesse mai versato creatura mortale.
Inginocchiata, colle palme tese,
pregò.
- Anu, o soccorritore, tu che dài
la costanza ed esaudisci le preci, non allontanare il tuo sguardo da me. Bel,
padre supremo, che tempri lo scettro ai regnanti; Auv, guida e custode, signore
del mondo; Nisroc, che governi le unioni, signor dei misteri e re degli abissi
inesplorati, ascoltatemi. Sam, o reggitore del cielo e della terra, tu, cui ho
innalzato un tempio, facendolo splendido come il tuo astro, coll'oro di cento
popoli vinti; Adar, tu che sperdi ogni resistenza; Nergal, che hai data a me la
vittoria della spada; Nebo, o sapientissimo, che leggi nel profondo dei cuori
come nell'immenso dei cieli, nume pietoso, che risani e conforti; uditemi voi,
soccorretemi, per l'amore delle vostre spose immortali; date voi luce e forza
al mio spirito, risollevatemi voi, fate che quest'uomo non muoia; o uccidetemi
con lui! -
Confortata dalla preghiera e
rasciugate le lagrime, tornò ancora la misera donna al letto dell'amato, e lui
baciò in fronte più volte.
Ma in quel punto, o fosse che la
presenza di lei, avvertita nel sonno, riscuotesse il ferito, o ch'egli
altrimenti dolorasse per la medesima acerbità della piaga, il supino mosse la
testa sul guanciale e diede un gemito fioco. Temè ella non si destasse
d'improvviso e la vedesse in quell'atto; però fu pronta a ritrarsi, e,
ravvoltosi il manto sul capo, con un passo leggiero s'involò dalla camera.
Quella visita l'aveva spossata.
Il sonno discese sulle sue palpebre; ma fu sonno affannoso, febbrile, turbato
da dolorose visioni.
Sognò che l'uomo diletto era
presso a morire, e che a lei sola era dato di camparlo da morte. Ma come?
Facendo sua la sorte del giovane, partecipando alla sventura di lui. Ara aveva
perduto il suo regno; anch'ella doveva perdere il suo.
La regina possedeva una negra
gemma, con caratteri incisi, d'una lingua sconosciuta, intorno ai quali il più
dotto dei Casdim aveva affaticati vanamente gli occhi e l'ingegno. Quella
piccola pietra, tonda, levigata ed opaca, era dono della sacerdotessa di
Derceto, in Ascalona; di quella severa e malinconica sacerdotessa che l'aveva
educata presso di sé, ed amata a guisa di figlia, lei oscura bambina, raccolta
sui gradini del tempio. Per anni ed anni, la ignara fanciulla aveva creduto che
quella donna fosse sua madre. Ma un giorno le avevano detto che ciò non era;
che, giovanissima ancora, Astarte era stata consacrata agli altari, e di madre non
aveva per lei che l'affetto.
Ora il dì che Semiram, fatta
sposa a Mènnone, usciva dal tempio di Derceto, la mesta sacerdotessa l'aveva
chiamata a sé, e dopo averla lungamente stretta al suo seno e bagnata delle sue
lagrime, così s'era fatta a parlarle, togliendosi quella negra gemma dal collo:
- Arcani caratteri sono incisi su
questa pietra, o figliuola, e d'alta virtù l'hanno dotata gli Dei. Essa
custodisce dai pericoli ed esalta chi la possiede. Io non l'ebbi che tardi! Ma
non mi esalta, non mi giova ella forse, poiché tu l'avrai nell'uscire di qui, e
la sentenza della tua vita non è ancora impressa nelle tavole del destino? In
te io rivivo, o Semiram; in te, che io amai, come se tu fossi carne della mia
carne e sangue del mio sangue. Tu abbila cara, custodiscila gelosamente; essa
ti recherà ventura in ogni cosa che imprenderai; donna d'umile stato, ti
renderà felice nelle pareti domestiche; salita ad alte fortune, ti guarderà dai
rovesci, ti conserverà ciò che avrai per essa acquistato. -
Né la promessa era stata fallace.
Non lieta ne' suoi affetti, Semiramide avea pure ottenuto quanto a creatura
mortale è dato di conseguire, nella prosperità delle imprese e nella altezza
del grado. Il talismano si chiariva acconcio alle grandi ambizioni. E ad esso
ascriveva la regina il suo continuo inoltrarsi di trionfo in trionfo, la felice
intrapresa di Bakdi, il diadema regale, la gloria, i popoli vinti e raccolti
sotto il suo scettro potente. Tutto, come signora di genti, erale andato a
seconda; quel talismano l'aveva preservata nei pericoli, esaltata nelle
prosperità, sottratta quasi alla legge delle umane vicende.
Però, in ogni impresa a cui
s'accingesse, soleva la regina portare la negra gemma sospesa al collo,
incastonata nel mezzo ad un monile di perle. E quel talismano le venne mostrato
dal sogno. - Gittalo in mare! - le bisbigliava una voce arcana. - Tornino le
perle alle conchiglie natali; torni la pietra a confondersi coi negri sassolini
del fondo. Tu pure tornerai donna in tutto simile all'altre. Forse la sorte,
che ti fece avventurosa sul trono, si muterà; ma per fermo avrai fatto felice
il tuo cuore. Essere ogni cosa non è dato ai mortali; o il regno, o il tuo
diletto; o la possanza, o l'amore. -
Ed ella non esitava pure un
istante. Toltosi il monile dal collo, con pronta mano lo gittava nei flutti.
Con quelle perle s'inabissava ne' gorghi la sua fortuna; ed ella, sereno il
ciglio, l'avea veduta perire.
Ecco, ad un tratto, tremava sui
cardini, si sfasciava il suo fortissimo impero. - Regina, - diceva un nunzio,
accorrendo ansioso con occhi smarriti, - il re di Mesraim vien meno alla fede
giurata e aduna le sue schiere contro di te. - Regina, - soggiungeva un
secondo, ancora lordo di sudore e di polvere, - i popoli del lontano occidente
hanno occupate le tue isole, distrutte le tue colonie; già scendono alle
spiaggie di Martu, donde finora imperasti felice sui mari. - Regina, il tuo
regno è caduto; - gridava un terzo piangendo; - i Medi e i Persi, ribellati,
calano dalle montagne; il tuo popolo, il tuo popolo fedele, si è collegato
coll'inimico e gli ha dischiuso le porte. -
Frattanto, negli oscuri penetrali
del suo pensiero, un'ombra cresceva, si condensava, assumeva umane parvenze.
Avea volto a lei noto, quel sinistro fantasma: eppure in quella negra barba, in
quella fronte spaziosa, in quegli occhi profondi, ella non sapeva più
discernere il ricordato sembiante. Ma poco lunge, seduto sul trono di Nemrod,
il figliuol suo, l'amato suo Niuia, regnava, e una gran luce di contentezza era
diffusa sul volto adolescente; ma Ara, il diletto del cuor suo, non posava già
più sul triste giaciglio; ma una rosea nube li accoglieva ambedue, li alzava da
terra, li portava con soavissimo impulso per le vie dello spazio. Candide
colombe, volate infino a loro dal recinto sacro a Militta, guidavano la rosea
conca perlata, su cui riposavano essi l'uno nelle braccia dell'altro.
- Oh, quanto io t'amo! - le
susurrava egli, baciandole il viso e colle dita errabonde accarezzando le sue
morbide chiome. - Odiai la regina, ma amo, ho sempre amata la donna. Atossa,
mia divina Atossa, perdonami; sorridimi, o diletta; io son tuo. -
Un senso d'inusitata dolcezza le
corse per tutte le fibre, a quelle soavi parole. Ella era felice, intensamente
felice, com'era stata un'ora sola in sua vita.
Si svegliò in quel mezzo, e per
le ciglia semichiuse le apparvero i primi chiarori dell'alba, che tingevano
d'azzurro le nevose vette di Urarti. Ahimè! la povera Semiram, dal vaporoso
reame dei sogni, faceva ritorno alle orride asprezze della vita. Ma ancora
nell'aria le pareva di sentire la fragranza ineffabile di quel bacio, e un
ultimo soffio di quella voce carezzevole che le ripeteva: Atossa, io ti amo;
son tuo.
Sorse dal letto e fe' chiamare
alla sua presenza il capo dei Casdim. L'indovino fu pronto a comparirle
dinanzi.
- Possente regina, vivi in
perpetuo. Che posso io fare, che ti sia grato?
- Il re d'Armenia?... - dimandò
ella con ansia
- Riposa. La sua notte fu calma,
più ch'io non credessi. Siamo oggi al punto fatale....
- E speri? - incalzò Semiramide,
figgendo gli occhi suoi scrutatori in quelli del Casdim.
- Negli Dei è ogni nostra
fidanza; - rispose egli, chinando la fronte. - Ho sognato poc'anzi che essi lo
serbavano in vita, perché tu avessi liberamente a disporne, o regina.
Semiramide lo guardò stupefatta.
- Hai sognato! - esclamò. - E
credi nei sogni?
- Sono gli Dei che li mandano; -
disse, con accento di sicurezza l'indovino; - però sta scritto: «Dai sogni
infausti, o re del cielo, difendici; o re della terra, difendici!» A noi recano
le notturne visioni gli spiriti, che si muovono per voler degli Dei nel
profondo de' cieli e della terra; a noi le recano, perché in esse leggiamo gli
eccelsi avvertimenti. Non ci consente la vita della carne di sollevarci agli
Dei; soltanto nella notte, quando l'anima s'è disgiunta dal corpo, ci è dato di
comunicare con essi.
- Eccelsi avvertimenti! - ripetè
Semiramide. - Sta bene; io li ho per tali, e obbedisco. -
S'avvicinò, così dicendo, a uno
stipo che conteneva le sue gemme; ne tolse il monile di perle, contemplò il
talismano, lo baciò e si mosse verso il verone, che dava sulle acque.
Il Casdim la guardava attonito e
tremante. Imperocché egli non intendeva perché lo avesse fatto chiamare la
regina a quell'ora; né perché, dopo le strane domande, avesse cavato fuor dallo
stipo il suo monile di perle.
- Dimmi ancora: - ripigliò
Semiramide, volgendosi a lui, dal vano della finestra, ove si era recata; - non
è egli vero ciò che ho sempre udito dai savi, che l'acque di questo lago son
salse?
- Sì, mia signora; epperò questa
gente lo chiama il mare di Van. Fu un tempo che quest'ampio lago e i mari
lontani eran tutti una sola mistura.
- Al mare, dunque, al mare! -
proruppe la regina, senza ascoltarlo più oltre.
E gittò incontanente il talismano
nel vuoto. Volò in aria il monile, e tratto dal suo peso andò veloce al basso,
diè un tuffo nelle onde azzure e disparve.
Ora le perle di Semiramide erano
note al popolo delle quattro favelle, per l'arcana virtù attribuita a quella
pietra nera che vi era incastonata nel mezzo.
- Che fai, regina? - gridò
esterrefatto il Casdim. - Quel talismano, che ti ha sempre custodita,
che ha sempre esaltato il tuo regno...
- È là, nei gorghi profondi; - interruppe la regina
con fervido accento. - Non m'hai tu detto, o saggio indovino, che egli s'ha da
credere ai sogni? Un sogno m'ha ingiunto di gittarlo nel mare. L'eccelso
avvertimento è stato seguito da me. Vanne, ora, e se vorrai dire: «son cadute
le perle di Semiramide in mare,» aggiungi che esse tornarono là dond'erano
uscite, e nessuno potrebbe oramai discernere il luogo.
- Io tacerò, possente regina; -
balbettò l'indovino, chinando la fronte e le spalle in atto umilissimo, - Te
certo inspirano gli Dei; ma il volgo non dee sapere ogni cosa; che potrebbe
cavarne, presagi funesti e intiepidir nella fede.
- Va dunque, ritorna al re
d'Armenia. Vivo lo voglio! - aggiunse ella, con tale intensità di desiderio che
parve furore e trasse in inganno la mente del Casdim. - Semiramide è grata a
chi interpetra i suoi voleri e seconda l'opera sua. Chiedi ciò che vorrai, se
egli è salvo da morte.
- Possente signora, - rispose il
Casdim, - l'uomo farà quanto è in poter suo. Ministrerà i farmachi salutari, e
implorerà con fervide preci il soccorso di Nebo. Se cessa quell'ardore ond'è tutto
invaso il ferito, se egli riapre gli occhi alla luce e dal suo parlare si fa
manifesto che nessuna parte del cavo petto fu lacerata dallo strale de' tuoi,
scioglierò un cantico di lode agli Eterni, imperocché egli sarà risanato. Ora
io vado, obbediente al tuo cenno, o regina. Unico premio alle mio fatiche,
desidero sia prospero sempre e avventuroso il tuo regno. -
Partì, ciò detto, meditando in
cuor suo, ma non intendendo per fermo, che significasse quella furia improvvisa
della regina, e lo aver essa gittate il suo talismano nelle acque. Bene avrebbe
voluto sapere del sogno; ma oltre che non era costume d'interrogare i monarchi,
egli giustamente pensava che in quel momento la sua curiosità avrebbe potuto
tornargli dannosa. L'essere Casdim non bastava ancora a salvare un uomo dai
flagelli e dai chiovi del patibolo. Superstiziosi, ma feroci, erano i re della
stirpe di Nemrod; temevano a volte gli Dei, ma non pativano libere parole dai
sacerdoti. Soltanto dopo che il popolo delle quattro favelle, e tutti con esso
i figli di Assur, ebbero sperimentata la tirannide forastiera, e una seconda
dinastia nazionale fu inalzata dai Casdim, questi sacerdoti, indovini,
osservatori degli astri, diventarono una setta potente e temuta, che fu la
gloria da prima, indi la rovina del più nobile tra gli antichissimi imperi.
Uscito il Casdim, la regina
rimase a lungo assorta ne'suoi turbinosi pensieri. Quel giorno, quell'ora,
decidevano della sua sorte; da quella di Ara, la sua vita pendeva. Né già più si
ricordava del regno; il talismano gittato non le tornava alla mente, in quel
punto, che come argomento di dubbio. Può ella chiudersi (diceva) in una vil
pietra, questa favoleggiata virtù che incateni gli eventi e governi a sua posta
il futuro?
Un rumore di passi la scosse. Era
Hurki, il fido guardiano, che compariva sul limitare.
- Orbene? - gridò ella, balzando
in piedi, e della mano comprimendosi il petto, quasi volesse impedire al suo
cuore di battere. - Signora, - disse Hurki, - i Casdim ti stanno mallevadori
della vita del re d'Armenia. Egli è salvo.
- Ah! salvo! ripetilo!
- Sì; ogni timore è svanito, -
ripigliò il capo degli eunuchi; - l'ardor delle membra è cessato; il re
d'Armenia ha aperti gli occhi ed ha ringraziato di lor cure pietose gli astanti,
sebbene, egli ha soggiunto, avrebbe meglio amato non risvegliarsi più mai. -
La fronte di Semiramide si
ottenebrò, a quelle amare parole, e un freddo acuto le corse per tutte le
fibre. Ma da lunga pezza oramai ella era temprata al dolore, e, passato quel
primo istante d'angoscia, ricuperò l'impero di sé medesima.
- Sta bene; - diss'ella,
crollando alteramente la testa; - egli è salvo; amerà ancora la vita. Ma dimmi;
come è egli avvenuto che in quel momento, dopo tante dubbiezze dei Casdim....
- Regina, neppur essi lo sanno, e
vedono in ciò un prodigio dei Numi. -
Semiramide non aggiunse altre
dimande. Il suo voto era stato esaudito.
- O Astarte, madre mia,
perdonami! - mormorò ella tra sé. - Ho gittato il tuo dono; ma egli è salvo, il
crudele! Non avresti tu fatto il medesimo, se l'ignoto re del tuo cuore avesse
aspettato da te la vita, o la morte? -
Si volse allora, per congedare il
servo fedele. Ma in quel mezzo uno scriba dell'esercito chiedeva licenza di
entrare al cospetto della regina. Fu subitamente introdotto.
- Possente signora, - disse lo
scriba prostrandosi a terra, - il novero dei prigioni, giusta il tuo
comandamento, fu fatto. Tra i pochi che furono colti insieme col re d'Armenia,
uno ve n'ha che disertò le tue schiere dal campo di Assur. Egli è un indiano, e
l'hanno riconosciuto parecchi; né egli, or ora interrogato, lo nega.
- Faleg conosce i miei voleri; -
disse brevemente la regina; - tratti in servitù i prigionieri aicàni; a morte i
disertori.
- Egli è l'unico disertore, e
innanzi di soggiacere alla sua pena, chiede di esser condotto a te. Qual fede
meriti il suo dire, non so; ma egli giura di possedere alti segreti e di non
poterli svelare che alla regina degli Accad. -
II cuore le si strinse a
quell'annunzio dello scriba. Sinistro presagio! Il getto del talismano portava
già forse le sue conseguenze fatali?
Stette così per pochi istanti
silenziosa, pensando, chiedendo a se stessa che mai volesse dirle quell'uomo.
Forse era un codardo, che non sapeva morire, e mendicava un pretesto per prolungar
la sua vita. Ma no! Disertore, colto coll'armi in pugno, al fianco di Ara,
forse diceva il vero, alti segreti chiudeva in cuor suo. Ma quali, che non
riguardassero il re d'Armenia, fors'anco la sua fuga da Babilonia e gli alteri
dinieghi che lo avevano condotto, lui e il suo regno, a così misera fine?
- Venga, - esclamò la regina; -
lo aspetto. -
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