Poco stante, condotto dallo
scriba, entrò nella camera della regina il vecchio Sumàti, stretto i polsi dietro
alle terga da catene di ferro. Chinò egli il capo davanti a Semiramide; indi
rimase immobile, in attesa d'essere interrogato da lei, triste, ma fermo,
nell'abbronzato sembiante.
- Chi sei tu? - dimandò la
regina, a cui quel volto non ricordava nulla di noto.
- Un indiano; - rispose il
prigione. - Mi chiamo Sumàti. Discepolo di Manù, ho consumata la mia giovinezza
sui Veda, santissime pagine dettate da lui per la salvezza degli uomini.
- Com'eri tu nelle mie schiere?
- Fui fatto prigione sull'Indo,
mentre io davo alla patria mia, al buon re Staprobate, l'aiuto che per me si
poteva, il mio braccio e quello dell'unico figliuol mio, contro le tue armi
invaditrici. Vissi un anno in Babilonia; da ultimo, intimata da te la guerra
agli Armeni, mi giovai della presenza de' miei fratelli di patria nel tuo
numerosissimo esercito; viaggiai coi custodi degli elefanti, e son giunto con
essi fino al campo di Assur.
- E di là, perché hai tu
disertato, riparando in mezzo ai nemici?
- È il mio segreto; - rispose gravemente Sumàti; -
ed io tel dirò. Ma tu mi giurerai, innanzi tutto, o regina, che il re d'Armenia
avrà salva, la vita. Triste voci corrono nel tuo campo; - continuò il vecchio,
senza por mente agli atti di Semiramide, cui tanto ardimento aveva compresa di
stupore e di sdegno; - si dice che tu pensi farlo morire di crudelissima morte,
e che per ciò i tuoi Casdim si travagliano a risanarlo della sua grave
ferita.... - Semiramide si contenne a stento.
- E se tal fosse l'animo mio?
- domandò ella con piglio superbo.
- Faresti orribile cosa, - disse
a lei di rimando Sumàti, - e a te di danno certissimo; imperocché io tacerei;
io, tuo prigioniero e condannato a morte, che pure, per capriccio della
fortuna, ho la tua vita nel pugno.
- Ah credi? - replicò la regina, con
aria di sommo disprezzo. - Io frattanto ho la tua e vo' darla ai tormenti.
- Io medesimo te la offersi; -
ripigliò tranquillamente Sumàti, - chiedine al tuo Faleg, ed egli ti dirà ch'io
mi son posto in sua mano. I tormenti non fanno paura ai seguaci di Brama; uscir
di vita non mi duole per fermo. Fin dal momento che non v'ebbe più speranza per
l'armi aicàne, avrei potuto darmi la morte; nol feci, perché anzitutto mi
premeva la salvezza del re. E certo, se la tua collera non si fa ella a
colpirlo, io l'ho salvato stamane....
- Tu? in qual modo?
- Io, sì! Ho qui meco un'ampolla;
ma le mie mani non possono cavarla fuori dal seno, impedite come sono di
ferri.... -
Hurki, ad un cenno della regina,
si avvicinò al prigioniero, e frugatolo, gli tolse dalla cintura un'ampolla,
dal cui seno traspariva un umore verdognolo, e la recò a Semiramide.
- In quell'ampolla, - proseguì
Sumàti, - è un liquore possente, stillato da piante arcane della mia terra. Una
metà di questo liquore basterebbe a dare la morte; lenta morte e soave, ma
certa. Una goccia sola, stemperata nell'acqua, rinfranca, ravviva gli spiriti
languenti. Così ho io richiamato nelle vene del re la vita che sembrava
fuggirgli; e credano pure i tuoi Casdim ad un prodigio del cielo, o alla
efficacia dei farmachi loro. Ieri appena, e stamane, mi fu dato di rimanere
solo un istante con lui, per ministrargli la portentosa bevanda. Ora egli è
fuor di pericolo; ed eccomi a te, o regina degli Accad, per espiare i miei
falli, narrarti il passato e il futuro, senz'altro compenso per me, tranne
questo: la vita e la libertà di quell'uomo.
- ll futuro? E il passato, hai
detto? - sclamò la regina, guardandolo fiso negli occhi, come volesse
penetrargli nell'animo.
Il prigioniero le rispose con un
ripetuto cenno del capo, che voleva dire: l'una cosa e l'altra saprai.
Tosto la regina si volse allo
scriba e di un gesto lo accommiatò. - Hurki, - diss'ella poscia al capo degli
eunuchi, - esci sull'atrio ed attendi. -
Rimasero soli nella camera, ella
e Sumàti.
- Parla! - gridò Semiramide
allora, muovendosi ansiosa verso di lui. - Per gli Dei che il popolo delle
quattro favelle ama ed onora; per l'acqua dell'Oceano, donde emerse Oanne, il
pesce dio, ad insegnare la sapienza ai mortali; per tutto ciò che splende nello
spazio azzurro; pei sacri elementi delle cose create; per gli spiriti eccelsi,
che presiedono alle stagioni; pei divini serpenti; che più? pel capo di Ninia,
lo giuro; il re d'Armenia vivrà, né gli sarà torto un capello. Se io fossi così
malvagia donna da venir meno al mio giuramento, Anu, il regnatore de' cieli,
non sorregga più il fianco della mia regia autorità; non m'illumini più la
mente inferma il veggente occhio di Nebo; Militta Zarpanit non ascolti più le
mie preci. Ecco, io pongo la mia mano su te, in pegno della mia fede; ma parla,
in nome del tuo Dio, dimmi tutto quello che sai.
- Grazie, regina! - rispose
prontamente Sumàti. - Ora il mio supplizio incomincia; e il tuo, povera donna,
non sarà meno acerbo, pur troppo! Odimi; tu sei tradita. Tu vivi sicura, trionfi
in Armavir, e Babilonia da sette giorni s'è ribellata, già maledice il tuo
regno.
- Ah, per gli Dei! - proruppe
Semiramide accesa in volto di sdegno. - La tua lingua ha mentito.
- Tu non avevi ancora levate le
tende dal piano di Assur, quando scoppiò la rivolta; - proseguì umilmente
quell'altro. - Non hai tu veduto, per gli alti silenzi della notte, i fuochi
che ardevano sui colli, da Assur fino al paese di Nahiri? Per lungo ordine
seguivano essi, fino alle alture di Sippara. L'un dopo l'altro accesi, essi
davano a me il rapido annunzio, che forse ti giungerà fra alcuni giorni pe'
tuoi corrieri; se pure essi non saranno arrestati per via. In tal guisa
avvertito, uscii dal tuo campo, corsi alle tende aicàne....
- Ma tu? - interruppe la regina,
balzando indietro per alta meraviglia e terrore, mentre veniva guatandolo con
occhi smarriti. - Chi sei tu, a cui giungono per tal via, e premono tanto, così
gravi novelle?
- Io te l'ho detto, o regina; un
Indiano, un vecchio interpetre dei santissimi Veda. Non hai tu tentato, o
Semiramide, di sottomettere la diletta mia terra, di spingere il tuo cocchio
regale fino entro le mura della sacra Ayodìa e di assoggettare i nostri Dei a
quelli della stirpe di Cus? Dominare su quante son terre dalle isole del mar
occidente infino alle inesplorate rive del Gange; far tuo il mondo; gittarlo in
pascolo ai desiderii immani del popolo delle quattro favelle; era questo il tuo
sogno. Orbene, mostruoso era il disegno, e bisognava sgominarlo, anzi che tutti
imprigionasse nelle insidiose sue fila. Tre uomini si congiurarono contro di
te; tre uomini soli, ma ognuno d'essi era legione, era popolo, moltitudine
immensa. Uno di questi tre uomini t'è innanzi, umile e dappoco per sé, ma
grande, ma forte, per ciò che egli metteva in moto, a tuo danno; i sospetti,
gli sdegni e le vendette dell'India. Contro di te sorse un altro, Manete, della
nazione di Mesraim, che la tua potenza minacciava, e che già i figli del
deserto, obbedienti al tuo cenno, hanno tentato d'invadere. E venne un giorno
che questi due collegati s'abbatterono in un odio, più feroce a gran pezza e
più profondo del loro, rinvigorito da tutte le sorde collere che il rancore, la
gelosia, l'amaro struggimento dei patiti dispregi, possono addensare nel cuore
d'un uomo. Si congiunsero a lui; la Triade era formata; aveva un braccio
possente e sicuro, per ferire i suoi colpi.
- Quest'odio avrà un nome! -
ruggì Semiramide. - ll suo nome io ti chiedo.
- E il cuore non te l'ha egli mai
detto, o regina? Quel senso delicato, che soccorre alla più debole ed alla più
leggiadra delle creature di Brama, non t'ha egli avvertito che chiudevi nella
tua reggia un serpente? Sei donna, ed ignori che amore negletto si cangia in
odio mortale, siccome inacidisce, se obliato in disparte, il soave liquor della
palma?
- Zerduste! - esclamò la regina, a cui un lampo di
tarda luce balenò nella mente. - Ma potevo io darmi pensiero dell'amor suo? Chi
può avvedersi di ciò ch'egli non cura? Ero io donna così volgare, da gittare il
mio tempo in questi vani compiacimenti del mio sesso? Di donna ebbi il corpo,
non l'anima. Zerduste, adunque? Zerduste ha nome quest'odio?
- Sì, - ripigliò Sumàti, -
Zerduste, al quale incauta, commettevi l'adolescenza di Ninia. Povera madre!
Egli ha foggiata a suo talento la molle cera, e tuo figlio non t'ama più, né ti
teme; tuo figlio è ribelle. -
Qui trattenne Sumàti il suo dire,
poiché la regina non avrebbe potuto udirlo più oltre. A quelle parole: «tuo
figlio è ribelle» che compendiavano per lei tutto il lento e coperto lavorio
del nemico, Semiramide aveva dato un grido di fiera che torna al covo e più non
vede i suoi nati; e si era abbandonata, singhiozzando, contro la spalliera del
suo trono, a cui le mancava la forza di ascendere. Si riebbe finalmente; e
quando volse la faccia a Sumàti, già non era più quella.
- Il cuor della madre ha toccata
una acerba ferita; - diss'ella gravemente, poiché si fu posta a sedere
sull'alto suo scanno. - Ti udrò ora con calma; prosegui! -
L'Indiano s'inchinò davanti a
quella semplicità maestosa.
- Ti obbedisco, - soggiunse. - Tu
scenderai, com'io penso, a Babilonia, e troverai chiuse le porte della tua
grande città. Questa rivolta indugiò lo scoppio, fino a tanto che tu non avessi
condotto lungi dal Sennaar e impegnato in una guerra pericolosa tra i monti il
tuo fortissimo esercito. Ad assicurarne l'esito, era mestieri che qui ti fosse
ritardato il trionfo; e fu stabilito perciò di avvisare l'Armeno, le cui
lentezze e i destreggiamenti, agevoli in queste gole, avrebbero procacciato la
nostra vittoria e la sua. Io stesso mi proffersi messaggero, e venni nel tuo
campo ad aspettarvi il segnale, per andarne dal re. Animo generoso, respinse
egli il consiglio. Regnerebbe ancora, se lo avesse ascoltato; e te, o regina,
intenta a dargli caccia faticosa per queste montagne, l'annuncio della rivolta
e della perdita del tuo regno, avrebbe fatto ristar dall'impresa.
- Lo credi? - tuonò la regina,
con sarcastico piglio. - Ai vicini prima, ai lontani più tardi, e Semiramide
avrà tempo per tutti. Ma dimmi, piuttosto; per quali vie si è impadronito colui
della mente di Ninia?
- Del cuore anzitutto; - notò
prontamente Sumàti. - II cuore di Ninia si era da breve tempo dischiuso
all'amore, e già questa vampa era fatta un incendio. È sangue di Nino, e
fortemente vuole tutto ciò ch'egli vuole. Ma la bellissima giovinetta che
l'aveva infiammato, di repente morì, e tu già indovinerai di qual morte. Ella
risusciterà nel tempio di Belo, quando, per placare gli Dei, corrucciati contro
l'Armena....
- L'Armena! - esclamò Semiramide.
- Sì! così chiama Zerduste la
donna che, per castigare un fuggitivo tributario, mette a rovina l'impero. Egli
ciò dice, non io. Or dunque, ella risusciterà, la fanciulla di Ninia, nel
tempio di Belo, quando, per placare gli Dei corrucciati, il giovinetto, ribelle
a sua madre, abbia cinto corona di re; morrà tosto, se egli la depone; così
hanno decretato gli Dei.
- Orribile! orribile! Ma egli,
l'astuto malveggente, morrà! E morrai tu, suo complice infame: tra i più feroci
tormenti, morrai!
- Non li temo! - disse a lei di
rimando Sumati. - Mi sono dannato a morte io medesimo: che puoi tu farmi di
peggio? Ben più feroci, più acerbi, ne infligge a questo mio cuore il rimorso.
Ma io ho la tua fede, o Semiramide! Tu non incrudelirai nel sangue innocente, e
il vecchio Sumàti morrà forse perdonato del turpe inganno, in cui cadde il più
prode, il più nobile, il più generoso degli uomini. Tutto ancora non ti è noto,
o regina.
- Ah! - gridò Semiramide, alla
cui mente si affacciava un atroce sospetto. - E che altro riman, per cui debba
velarsi il casto raggio di Sin? Parla, o vecchio; dovessi io pure concederti,
per tua maggiore vergogna, la vita! Non mi nasconder nulla, sai? Son grande
ancora e possente per te; ogni parola che tu dirai ti frutterà un tesoro, se io
mi appongo al vero, se il mio cuore presago ha indovinato di che ti resta a
parlare.
- Sì; - disse il vecchio, a cui
tanta veemenza d'affetto inaspriva i rimorsi nell'anima, - sì, o regina, il tuo
cuore ha precorsa la mia confessione. Ella sarà piena ed intera. Ma tu non mi
darai in premio tesori, né mi farai grazia altrimenti della vita. Non mi dire
il contrario! Alla mia età, gli occhi della mente vedono lunge, assai lungo, e
il pensiero, ammaestrato dalla triste esperienza, non si pasce di vane
speranze. Ma ecco, io ti ragiono di me, laddove di un altro mi chiede, di un
altro, quell'ansia mortale che ti scolora la faccia. Sì, sventurata! Un giovine
di regio sangue, di cuor generoso e di sovrumana bellezza, era venuto alle mura
di Babilu. La Triade, che spiava ogni passo, ogni moto d'una donna tanto odiata
quant'era bella e possente, lo incontrò sulla sua via, lo circuì, lo strinse,
insieme con quella donna, ne' suoi lacci invisibili. Ella si credeva sicura
laggiù, ignota ad ogni altro, siccome a lui; ma orecchi tesi e sguardi acuti
vigilavano nelle tenebre. Ella per fermo non s'attendeva agli ingiuriosi
sospetti ond'egli flagellava la sua dignità, mentre implorava l'amor suo e le
giurava eterna costanza; nemmeno pensava colei che il dubbio sarebbe da altri
sfruttato, e l'amor suo prepotente fatto arma terribile contro di lei. Nostro
il garzone, ella era nostra del pari. Fu compro coll'oro, vinto, ammaliato
dalle lusinghe d'una facil bellezza, il più fedele, il più caro de' suoi
compagni, e quanto occorreva ad ordire il più nero degli inganni, si seppe. È
orribile, tu dici? A noi parve giustissima guerra; e tale forse mi parrebbe
ancor oggi, se oggi io non amassi quell'uomo, quel fidente eroe, che, uscito a
mala pena dalle ebbrezze d'un regio convito, fu dalla voce d'un estinto
chiamato a profondi misteri nelle viscere della terra. La Triade sapeva evocare
le ombre dei trapassati.
- Evocar l'ombre!.... - ripetè
Semiramide, con ironico accento.
- Credi almeno, - ripigliò il
prigioniero, - ch'ella sapesse mentirne l'aspetto e la voce. Chiamato da
magiche cifre, scese il garzone per una segreta apertura, dischiusa nella sua
camera.... La camera dei leoni alati, o regina! Essa era delle antiche e più
care ai re di Babilonia, innanzi che la tua magnificenza, allargando la reggia,
vi edificasse una più sontuosa dimora. Il tuo gran maggiordomo, ora al fianco
di Ninia, ne conosceva i segreti. Egli assegnò quella camera al biondo ospite
Armeno; né fu opera del caso, o innocente consiglio.
- Prosegui! - incalzò la regina.
- E laggiù, nel sotterraneo?...
- Parlò, o credette parlar
coll'estinto. I suoi felici amori con quella donna; indi il cuore mutato di
lei; da ultimo la barbara morte in un abisso dischiuso a' suoi piedi; tutto
narrò partitamente il fantasma, e fu facilmente creduto. Possono i morti
mentire? E quello era Sandi, il suo Sandi, l'amico della sua fanciullezza, non
ombra vana, creata dal sogno. Se egli ancora avesse potuto dubitarne, le livide
labbra del morto, che si posarono sulla sua fronte, avrebbero dissipato quel
dubbio. E credette, l'incauto, e giurò; giurò che sarebbe fuggito da quella
donna, non l'avrebbe veduta più mai, avrebbe patita la morte, anzi che un altro
bacio dell'impudica, che allettava e uccideva gli amanti. Sopito da filtri, come
da filtri era stato indotto in ebbrezza, affinché i suoi sensi medesimi
aiutassero dove più manchevoli apparivano gl'inganni, fu trasportato per la via
sotterranea (da te scavata, o regina) al suo alloggiamento di Nivitti Bel.
Colà, per sollecita cura del servo infedele, erano già sellati i cavalli e i
cavalieri in arcione.
- Ah scelleraggine inaudita! Il
negro abisso v'ha rigettati, o malvagi? Gli spiriti delle tenebre si
vergognarono dunque di voi? Anima incauta, che hai fede nel bene, che il male
ignori, o disprezzi, che solo metti ad eccelse cose la tua mira, ecco, ciò si
trama intorno a te nel silenzio; il livido serpe striscia nel buio a' tuoi
piedi, ti schizza la sua immonda bava sulle candide vesti. E non avvedermi
dell'insidia! E non sentirmi alle nari il lezzo della vostra presenza! Ah, tu
l'hai detto, o vecchio; il tuo pensiero non può nutrirsi oramai di vane
speranze; di mille morti sei degno. E senti rimorso, tu? Merita il tuo spirito
impuro questa rugiada de' cieli? -
Così parlò Semiramide, sopraffatta
dall'ira, e fiamme le uscivano dagli occhi.
- Io t'odiavo; - le rispose
freddamente Sumàti; - né t'amo oggi; né, pure volendo, il potrei. La tua
grandezza, o regina, è minaccia perenne alla libertà del mio popolo, il più
antico, il più illustre che sia comparso mai sulla terra. Nemici siamo; tu
forte troppo; noi deboli. Alla forza risponda dunque l'astuzia. Ogni arma è
buona, purché ferisca il nemico. Di che ti lagni, tu, cui la fortuna concesse
le parti del leone? Noi dunque i serpenti, e nelle nostre spire morrà soffocata
la progenie di Cus. Ella deve sparire dal mondo, questa orgogliosa schiatta di
feroci Titani. Saranno i Medi dapprima; sian pure più tardi gli Assura, i
Persi, e quanti altri, soverchiato l'antecessore, s'argomenteranno di esercitare
l'impero a lor volta; essi tutti cadranno, e la tua Babilonia dovrà tutti
inghiottirli. Io non ho mai letto così chiaramente nelle tavole del futuro,
come in questo momento. Son sacro alla morte e mi attende l'altissimo oblio, la
confusione dello spirito nella increata sostanza di Brama. Accolga egli il mio
rimorso; imperocché, io lo confesso, l'opera mia sorpassò la misura, ferì a
morte il più nobile cuore. Io lo vidi, quel generoso, là, solo, perduto
nell'orrore infinito de' tuoi sotterranei, tra ignoti pericoli, formidabili
apparizioni, bagliori sinistri e voci di morte, imperterrito, sereno ed altero
come Crisna, il divino figliuolo della vergine di Madura. Così era prode, così
animoso nelle armi, Narada, l’unico figlio, che i tuoi soldati m'hanno ucciso
sull'Indo. Il suo dolore mi vinse, e lo amai. Voleva spegnerlo Zerduste, mentre
egli era fuori dei sensi; e lo avrebbe fatto, se io non lo avessi impedito: lo
avrebbe fatto, tanta era la sua gelosa rabbia: ma avrebbe in tal guisa
distrutto l'opera sua faticosa, rinunziando al trionfo del comune disegno. Da
quel giorno Zerduste ebbe odio contro di me, com'io contro lui: soltanto la
necessità ci tenne sulla medesima via. Ed ora ogni cosa t'è chiara. Regina, tu
sei perduta; Ninia regna e Zerduste trionfa. Checché tu faccia, o tenti,
l'impero è distrutto. I Medi, e l'altre nazioni del sole oriente non tarderanno
a separarsi da te; Mesraim scuoterà il giogo della paura; i popoli di Martu, le
città marinare e le isole del sole occidente ripiglieranno la loro libertà. Lo
intento della Triade è raggiunto; a te, minacciosa signora delle genti più
nulla rimane. Felice ancora, se ti basterà di regnare nel cuore di lui, che un
oscuro prigioniero, un vecchio condannato, ti rende. Egli t'ama, o Semiram.
Nella pugna che il destino ha suscitato tra voi, egli, generoso, si elesse la
sconfitta e la morte. Egli t'ama! Poteva colpirti de' suoi dardi, e non ne ebbe
la forza; bensì l'ebbe per rattenere il braccio degli altri, già pronti a
toglier la mira. Egli t'ama, o Semiram; t'ama pur sempre d'un amor disperato.
Sgombra da' suoi occhi l'errore, tutto partitamente fagli noto l'inganno che
Zerduste ha tessuto nell'ombra, ed egli cadrà pentito a' tuoi piedi.
- Che? - sclamò Semiramide. - Non
gli hai tu già disvelato ogni cosa?
- No; - rispose Sumàti, chinando
raumiliato la fronte; - non ho ardito di farlo.
- Ma penso che gliel dirai! -
incalzò la regina. - Tu hai parlato de' tuoi rimorsi, o vecchio. E che? credi
tu che il tuo Dio abbia ad usarti misericordia, se non t'umilii nel tuo rossore
davanti a chi hai ingannato, se non diffondi la verità dove hai seminata la
menzogna?
- Ah! e credi tu, - disse a lei
di rimando il prigioniero, con voce impressa d'ineffabile angoscia,
- che avrei scelto di offrirmi alla tua presenza, se mi fosse bastato l'animo
di aprirmi d'ogni cosa con lui? Bene era questo il mio primo disegno;
confessargli ogni cosa, bere un sorso di quell'ampolla liberatrice e morire.
Fui una volta sul punto, e non ne ebbi la forza. Il veleno mi avrebbe tolto la
vita, non la vergogna di quel temuto colloquio. Inoltre, egli era già tardi.
Sopravvenne la pugna; indi, egli ferito e fuori dei sensi, agonizzante forse;
io disperato per tanta rovina d'ogni cosa a lui cara; da ultimo con un più
acerbo dubbio nell'anima, non forse l'inganno nostro, dopo avergli fatto
perdere il regno e la pace del cuore, gli procacciasse morte da un tuo barbaro
comando, e morte non degna di re. Semiram, io muoio consolato, pensando che tu
l'ami. Tu, non colpevole, tu avrai forza di palesargli il vero. Ne sarà la mia
morte il suggello, e mi meriterà il suo perdono.
- Tu parlerai! - gridò la regina
con inflessibile accento. - Sarai condotto al suo capezzale e tutto egli udrà,
dal tuo labbro.
- No: - rispose tristemente
Sumàti, - la mia vita ti ho offerto; altro non puoi chieder da me.
- Poche parole soltanto, poche
parole ti chiedo. Mio re, gli dirai, la Triade t'ha mentito; hai veduto una
larva creata da noi....
- No, regina, non l'ardirei.
Guardarlo in faccia e parlargli in tal guisa?... È impossibile. Vedi; io mi
sono umiliato davanti a te, a te che non amo. Ma tu sei donna; e la donna è per
noi la creatura debole; ci facciamo più facilmente codardi con lei. Ma al
cospetto di un uomo.... dell'uomo che amo!.... Ah perché, eterno Iddio, questo
vecchio mio cuore sente e palpita ancora? Credevo che fosse morto, quel giorno
che il mio povero Narada perì. E vive, tenace, ed ama tuttavia; il paterno
affetto ha trovato ancora cui dare i suoi ultimi ardori. Perché? Come avviene
egli ciò? V'hanno piante, le quali, recise in sul tronco, pure non sanno
rassegnarsi a morire, e, non potendo farsi ramo, frondeggiano dal ceppo rugoso
e mettono un fiore....
- Bada, o vecchio! - esclamò
Semiramide, la cui voce in quel momento assumeva alcun che di solenne. - Tu
m'hai svelata poc'anzi la più orrida trama in cui possa pericolare un impero;
tu m'hai mostrato l'abisso in cui sono già per cadere. Né di questa minacciata
rovina, né di quel danno mi curo. Avvenga che vuole; io so questo soltanto, e
mi basta, che, dove io comparisca, farò ancora tremare i miei congiurati
nemici, e che, se io pure debba lasciarvi la vita, il mondo, per quanto duri
lontano, ricorderà come Semiramide è morta. Tu mi hai addolorata, abbattuta non
già, né sorpresa. Stamane, dopo aver veduto io stessa, con questi miei occhi,
il re d'Armenia nel suo letto di dolore, pallido, stremato di forze, languente,
ho pregato gli Dei, ho votato ogni mia fortuna per la salvezza di quella nobile
vita. Odimi ancora! Io avevo un talismano, impresso d'arcane cifre, che fu
sempre con me, fin dai miei anni più verdi. Era fama che le sorti del mio
regno, la mia grandezza, la mia gloria, la mia esaltazione su tutti i potenti
della terra, fossero incatenate a quella negra gemma da virtù di magici
incanti. Orbene, vedi; laggiù, in quelle acque profonde, io l'ho gittata
stamane. La via è lunga, ed io ho veduto il mio talismano percorrerla intiera;
né, mentre esso cadeva, ho sentito pur uno spasimo, una trafittura, una stretta
di pentimento nel cuore. Misura da ciò l'amor mio per quell'uomo! E credi tu
che, giunta l'occasione di apparirgli qual sono, di riconquistare quel cuore
che è mio, potrò lasciarla fuggire? Dovrò io umiliarmi, arrossire, perché tu,
il colpevole, il traditore, il codardo, non avrai osato di farlo?
II prigioniero, che con ansiosa
cura aveva seguito il discorso della regina, chinò la testa sul petto e non
rispose parola.
- Bada ancora! - soggiunse ella,
con accento quasi amorevole. - Tu m'hai fatto più male che regina e donna non
siano use a patire. Cionondimeno, io ti concedo la vita. Ricco e potente sarai;
ma a te si spetta parlare col re. -
Sumàti taceva ancora.
- E sia di te ciò che tu stesso
hai voluto; - ripigliò Semiramide. - Sarai dato a' tormenti. Ve n'ha di
terribili, che fanno rizzare i capegli per raccapriccio sulla fronte ai più
saldi; che trarrebbero i gemiti perfin dalle pietre. V'hanno bronzi lentamente
scaldati, in cui frizzano le membra, e l'aria vien grado grado mancando, e ti
senti soffocare, senza poter anco morire. V'hanno strappi di tanaglie, che
lacerano e traggono via a lunghi brani la pelle. V'hanno aculei che si ficcano
tra le unghie e le carni, e pungono senza tregua, fanno desiderare che l'anima
se ne voli in un grido. Ma la morte è più lenta a venire, e l'orgoglio
rintuzzato chiede finalmente mercè.... Olà, Hurki! - diss'ella, avvicinandosi
al limitare, su cui fu pronto a comparire il fedele. - Vengano i tuoi; sia
consegnato quest'uomo ai flagellatori; ma non prima, - soggiunse incontanente,
- non prima di esser condotto alla presenza del re d'Armenia, per udirsi a
ripetere laggiù tutti i suoi tradimenti. -
Sumàti, che era stato fermo alle
minacce, muto alle promesse, imperterrito alla descrizione degli atroci
tormenti serbati alla sua pervicacia, diè un grido a quell'ultime parole di Semiramide,
un grido che fece sobbalzar la regina e tornare Hurki sollecito sopra i suoi
passi; indi, rapido a guisa di tigre, si volse indietro, corse alla finestra, e
così impedito com'era dalle catene che gli stringevano i polsi alle terga,
spiccò un salto sul davanzale di pietra.
- Regina, io tel dissi; - esclamò
egli allora; - è questo il solo supplizio di cui temesse Sumàti. Mi sottraggo
al dolore, ed espio la mia colpa. Dov'è piombata la tua fortuna, piomberà la
mia vita. Iddio riceva il mio spirito. -
Chiuse gli occhi, ciò detto, si
spinse all'indietro e si lanciò nello spazio.
- Ah! si salvi! si salvi! - gridò
la regina, correndo a guisa di forsennata, con palme tese, là dond'era
scomparso l'Indiano.
Ma come salvarlo? Affacciata al
davanzale, Semiramide poté scorgere ancora il corpo barcollante che piombava
veloce nel vuoto. Esso ad un tratto diè un tonfo; le acque percosse schizzarono
in alti zampilli dintorno; spumeggianti gorgogliarono un tratto, indi sbattute
ancora, divallate per lo squarcio improvviso, finalmente si chiusero.
Con occhi intenti, trascinata da
un'istintiva cura, come di voler trattenere coll'alito una cosa che fugge, la
regina guatava quell'onde che avevano inghiottita la sua fortuna da prima e
l'ultima sua speranza in quel punto.
Alcuni istanti trascorsero, e
l'affogato ricomparve a fior d'acqua.
- Ah, forse potrà salvarsi! -
diss'ella.
- E come, mia signora? - notò
Hurki, crollando la testa. - Egli ha incatenate le braccia. -
Il morente, nella postura in cui erasi
riaffacciato alla luce, parve alzar gli occhi verso la regina, e quegli occhi
mandarle un addio, chiederle una parola di supremo perdono. Quindi l'inerte
corpo si sommerse da capo, né più oltre fu visto; le onde si richiusero come
pietra di sepolcro su lui, si spianarono e scintillarono tranquille ai raggi
obliqui del sole.
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