Sei giorni erano scorsi dopo le
gravi rivelazioni e i più gravi annunzi del vecchio della Triade, e il grosso
dell'esercito babilonese era già molto innanzi sulla via del ritorno.
Si affrettavano le schiere,
venivano senza indugio, a marcie sforzate. Essendo allora nei massimi ardori
dell'estate, non viaggiavano che a lume di stelle; però facevano più spedito
cammino. Sostavano poche ore dopo il romper dell'alba, e si rimettevano in
viaggio al tramonto del sole. Ma dopo il sesto giorno, varcato già
dall'esercito il paese di Nahiri, si cominciò a guadagnare altresì qualche ora
sul giorno, tanta era la fretta di Semiramide, il suo desiderio di accorciare
lo spazio.
Né, in tanta agonia di corso
lanciato, aveva la regina trascurati gli accorgimenti di guerra, in cui era
meritamente famosa. Giunte le sue schiere nei pressi di Haran, ella aveva
spiccato cinquantamila uomini, mandandoli innanzi per la valle dell'Eufrate. Li
comandava Faleg, sperimentato guerriero, fido seguace delle fortune di
Semiramide; la quale, da umil grado, lo aveva innalzato ai primi onori della
milizia.
Quelle cinquanta migliaia erano
l'antiguardo dell'esercito. Il grosso, comandato dalla regina guerriera, doveva
tener dietro a due giornate di marcia. Così era detto apertamente, e lasciato
credere ai soldati; ma Faleg non ignorava che egli doveva, esser solo su quella
via; cionondimeno, animosamente scendeva verso Baliki e Cabur, a marce spedite,
ma giuste.
Frattanto la regina, con tutta la
numerosa sua gente, piegando rapida a manca, andava a cercare la valle del
Tigri, a ridosso dei monti di Lallua; ed avviatasi finalmente sulla destra riva
del fiume, scendeva, come si è detto, con quanta celerità per lei si potesse.
Quale intento era il suo?
Certo, e non era da dubitarne, i
ribelli di Babilonia avevano in quei giorni raunato un esercito. Quanta gente
era valida alle armi nella città e in tutta la terra di Sennaar tra Bitdakuri e
Larsa, già doveva esser sotto le loro insegne, volente o nolente. E fors'anco
d'altri paesi aspettavano aiuto. Scendendo ella, siccome era naturale che
facesse, lungo l'Eufrate, i ribelli non le avrebbero opposto resistenza che a
Sippara, dove, consentendolo il luogo, si sarebbero fortificati e muniti d'ogni
difesa. Laggiù dunque, o poco lungi, lo scontro; indi, se soverchiati da lei,
sarebbero corsi a rifugio in Babilonia.
Ora, chiuse ad un esercito
assalitore le porte di Babilonia, malagevole al sommo, per non dire
impossibile, sarebbe stato lo entrare.
La gran capitale degli Accad era
cinta all'intorno di salde mura e fortificata di valli profondi: né Semiramide
ignorava cotesto, ella che aveva innalzate quelle mura, credute universalmente
inespugnabili allora. Poteva la gente assediata ridursi per fame? Colmi erano
pel consumo di un anno i granai, e tra la prima e la seconda cinta di mura
stendevasi tanto di terreno da cavarne un raccolto che bastasse per tutto
l'anno seguente.
Così giustamente pensando, la
regina aveva anche nel suo sagace consiglio noverati i giorni di sicurezza che
si riprometteva il nemico. Semiramide, anco ad avere in tempo l'annunzio della
rivolta, e senza gli indugi che si sarebbe tentato di frapporre ai messaggi,
non avrebbe potuto essere avvisata di nulla innanzi il dodicesimo giorno di
Tana. E allora, se libera di partire dall'Armenia (che non era nemmanco da
credersi, tante erano e varie le sorti di guerra!), ella non avrebbe pure
potuto così speditamente raccogliere le sue forze, e rimettersi in cammino, da
giungere nel piano di Sennaar innanzi il principio di UlulùScrivo4.
Così dovevano pensare i ribelli, e da ultimo confortarsi nella fiducia che, se
anco Semiramide avesse usato d'ogni sua sollecitudine, e guadagnato qualche
giorno di cammino, eglino, appostati nei pressi di Sippara, l'avrebbero
trattenuta colà.
In quella vece, e a danno dei
giudizi dell'inimico, che era egli avvenuto? Che la regina aveva risaputo il
tradimento nel decimo giorno di Tana; che tosto aveva levato il campo
dall'Armenia, e il sedicesimo giorno, varcato già il paese di Nahiri,
s'affrettava alla pianura di Babilonia, ma non già per la valle dell'Eufrate,
sibbene per quella del Tigri, mentre Faleg, avviato con quel nerbo di forze
sull'antico cammino, ne copriva la rapida marcia.
Rapida invero, e quasi fulminea,
se i moti degli uomini possono ragguagliarsi agl'impeti delle forze celesti.
Certo, così veloce correva oltre col pensiero la regina; e appunto per vincere
in parte quelle fastidiose lentezze che il lungo spazio portava, Semiramide
aveva comandato di far cammino anche alcune ore del giorno. Né più era costume
di attendere coloro che la stanchezza opprimeva; posassero pure coi loro capi;
avrebbero proseguito nella notte e tentato di raggiungere i più gagliardi alla
stazione vicina.
Così diceva, ben certa in cuor
suo che molti sarebbero rimasti indietro di parecchie giornate. Ma ella, co'
suoi migliori, con cento migliaia almeno, sarebbe giunta il ventesimo giorno di
Tana alla sua capitale, e senza impedimento di nemici, girando alle spalle
della città, dove per fermo non doveva esser buona vigilanza d'armati.
Il regal prigioniero seguiva il
corso di quella sterminata falange, adagiato su d'una lettiga, tratta da
cammelli, la cui sollecita e dolce andatura, non affaticava punto il ferito.
Lo scortavano gli arcadori di Birtu; ed era giusto che un tale onore fosse per
l'appunto serbato a quei medesimi che avevano ferito e fatto prigioniero il
malka delle montagne. Del resto, a più certa custodia, era Hurki con essi; e lo
seguivano trecento melofori, o portatori di lancia, della regina.
Dall'altra parte, Faleg,
proseguendo la sua marcia lunghesso l'Eufrate, era giunto il diciottesimo
giorno in vista delle torri di Sippara. Colà aveva fatto sosta e mandato un
drappello d'arcadori a sopravvedere il paese. Ma udito poco stante come la
terra non fosse guardata, e solo nella notte vegnente si aspettasse una grossa
mano di ribelli, prontamente vi si condusse co' suoi, che gli parve grande
ventura avere quel fortissimo sito, ricco di vettovaglie e d'ogni maniera
sussidii, senza colpo ferire.
Piantatosi colà, e mentre pur le
sue schiere attendevano a collocarsi nell'ordine più acconcio sui rialti e nei
piani a mezzogiorno delle mura, Faleg inviava messaggi a Ninia, in nome della
regina.
Egli infatti non poteva più far
le viste d'ignorare la rivolta avvenuta. I cittadini di Sippara gli avevano
detto apertamente:
- Regna Ninia in Babilonia e su
tutta la terra del Sennaar. Il Saccanàco, vicario dei sommi Dei, lo ha
incoronato re nel tempio di Belo, che sta in cima alla torre delle sette sfere.
Semiramide, come nemica del popolo di Kiprat Arbat, che ella ha condotto a
perire per suo folle pensiero nelle strette d'Armenia, è stata spogliata del
regio comando e il suo scettro gittato nell'Eufrate, in mezzo ai cadaveri che
il biondo fiume trasporta alla foce. -
Così stando le cose, non tornava
difficile a Faleg di argomentare che l'invio dei messaggi niente avrebbe
giovato per mutare i consigli dei ribellati. Egli anzi prevedeva in cuor suo
che i messaggeri non sarebbero giunti fino alla reggia, forse nemmeno avrebbero
potuto varcare le porte della città. Ma egli, per contro, faceva in tal modo
avvertiti i rivoltosi della vicinanza di Semiramide, ed otteneva l'intento di
trattenerli dalla loro disegnata marcia su Sippara, procurandosi il tempo di
affortificare il suo campo e di pigliar lingua, così intorno agli ultimi casi,
come intorno alle forze di cui disponea la rivolta.
Tranquilla scorse la notte; ma
sull'apparire del vegnente mattino, l'esercito dei ribelli si dilagò nella
pianura davanti alle torri di Sippara. Ancora non sembrava molto ordinato e
bene ad arnese; tuttavia s'inoltrava, accennando ad un subito assalto. Così
voleva Zerduste.
Il principe dalla mente profonda
e dallo sguardo acuto, aveva detto tra sé:
- La regina è rimasta indietro, a
malgrado d'ogni suo desiderio e d'ogni sforzo per affrettare il cammino,
impedita com'è dalla stessa moltitudine de' suoi combattenti. Tutto ciò ch'ella
ha potuto fare, si è di spingere avanti le squadre più leggere e più pronte,
sotto il comando di Faleg. Ascendono forse a cinquanta migliaia; non sono
certamente di più; ché i cittadini, fuggiti da Sippara per darcene avviso, non
hanno potuto ingannarsi. Or dunque, assaltiamoli con quanta gente è stata da
noi raccolta finora, e vediamo di vincerli alla spartita, prima che ricevano
aiuto. -
Invero, egli si pentiva
amaramente di non aver fatto occupare la città nel giorno addietro; che forse, con
una parte degli uomini a ciò destinati, il poteva. Ma, per contro, come arguire
una tanta celerità in Semiramide? Da chi e per che modo avrebb'ella risaputi i
gravissimi casi di Babilonia, più giorni innanzi che le fossero riferiti dai
corrieri, o lasciati temere da un improvviso difetto delle corrispondenze
consuete?
E tuttavia, o notizia o sentore
della rivolta aveva ella avuto in Armenia. E come ciò, mentre egli, a mala pena
di poche ore, per le vanterie dei messi di Faleg, udiva l'annunzio della pronta
e piena vittoria di Aiotzor? Egli era ben lungi dal sospettare di Sumàti, che
forse era morto nel tentare di ridursi al campo aicàno. Questa era almeno la
conghiettura più ovvia, imperocché il subito scontro dei due eserciti
dimostrava apertamente come al vecchio Indiano fosse fallito il disegno di
penetrare fin nelle tende di Ara e persuaderlo a non accettare battaglia. Solo
alcuni giorni di poi, doveva egli risapere della presa di Sumàti, colto
coll'armi in pugno al fianco di Ara, e della sua morte volontaria nel lago di
Van, certo per sottrarsi ai tormenti cui lo avrebbe dannato la regina e al
pericolo grande che il dolore gli strappasse il suo segreto di bocca.
Comunque fosse di quella celerità
prodigiosa, egli non era tempo di fantasticare sul passato; bensì occorreva di
dare, e tosto, nell'antiguardo di Semiramide. E corsero i ribelli all'assalto;
ma per quel giorno, e per l'altro che seguì, fu opera vana. Nessun vantaggio si
otteneva da alcuna delle due parti. Faleg non si perigliava troppo lontano
dalle mura, per tema d'esser preso alle spalle. Egli più forte per agguerrite
schiere, ma queglino più numerosi d'assai. A lui metteva conto il rimanere
colà; agli altri, poiché di vincerlo non era nulla, tornava anco di averlo
chiuso in quel luogo, dove, se più tardava la regina, lo avrebbero prestamente
affamato. Sentivano in quella vece approssimarsi il grosso delle forze nemiche?
E allora correvano a rifugio in Babilonia, aspettando colà i Medi e i Persi,
che già a quell'ora dovevano valicare i monti di Elam, e il disperdimento dello
stesso esercito di Semiramide, in cui erano tante migliaia di quelle due
nazioni oramai sollevate.
Intanto la condizione di Faleg,
ottima per assicurare la sorte d'un combattimento, per tutto l'altro era
pessima. Nella antica e nobil città che egli occupava, erasi sparsa la fama del
troppo sangue che la vittoria di Aiotzor era ai Babilonesi costata. Da parecchi
giorni il vicino Eufrate non volgea che cadaveri, alla vista di tutte le genti
del Sennaar. Inoltre, i soldati suoi, come quelli che si reputavano tornati in
patria, non avevano taciuto dei danni sofferti; segnatamente avean detto della
sacra miriade, di cui a mala pena poche centinaia erano scampate da morte. Però
si udiva già a mormorare contro la regina, nelle mura amiche di Sippara, contro
la guerra finita pur dianzi e contro quest'altra che cominciava. Infine, chi
era Semiramide, se non una straniera, e, come regina, assai più fortunata che
saggia? Laddove Ninia era del sangue di Nemrod; egli o presto o tardi legittimo
re; meglio adunque riconoscerlo allora, evitando mali maggiori.
Questo e il pensiero delle scarse
vettovaglie, inducevano tristezza, fastidio, ripugnanza negli animi. Sarebbero
essi durati nell'obbedienza più oltre? Per buona, sorte, diceva Faleg tra sé,
la regina non doveva esser lungi da Babilonia; ad ogni modo, quei due giorni di
combattimento a Sippara, le avrebbero spianata grandemente la via.
Né s'ingannava. Appunto in quella
notte che seguiva il secondo assalto di Sippara, la regina giungeva, con poco
più di centomila combattenti, alla vista di Babilonia, davanti ad una delle
porte che guardavano il sole oriente. Appiattato l'esercito nei campi, dove già
crescevano le biade pel secondo raccolto, chiuse con buona custodia d'armati le
uscite dei villaggi, perché nessuno avesse modo di recare l'annunzio alla
vicina città, Semiramide si avanzò con uno stuolo di cavalieri lunghesso il
canale Libil Higal, per esplorare il terreno.
Sin, il casto pianeta a lei caro,
splendeva alto nel firmamento azzurro, illuminando la pianura all'intorno e la
via battuta che conduceva ad una delle porte. E mentre Semiramide cautamente
s'inoltrava pe' colti, evitando la strada e non perdendola d'occhio, le venne
udito da lontano un rumore smisurato e crescente, come lo scalpitìo di una
cavalcata, che a quella volta spronasse.
Incontanente fe' restare i suoi
cavalieri; e muti, ansiosi, stettero tutti origliando.
Il rumore si avvicinava sempre
più. Semiramide, che già meditava un audace disegno, si volse a guardare i suoi
cavalieri, se fossero abbastanza coperti agli occhi del nemico. Erano essi
dietro un campo di sèsamo, di rigogliosa cresciuta e di larghissime foglie,
siccome portava la natura di quel fertile suolo. La regina non si tenne paga
tuttavia, e comandò, che tutti smontassero da cavallo, pur rimanendo con un piè
sulla staffa e la mano alla criniera.
Così del tutto nascosti, spiavano
l'arrivo della cavalcata nemica. Essa pervenne indi a poco su quel tratto di
strada che essi vedevano, e veloce trascorse. Erano a mala pena sei cavalieri;
e alle fogge, vedute così di profilo a lume di luna, apparivano Medi. Forse
erano esploratori, fors'anco portatori di messaggi a qualche luogo vicino.
Semiramide lasciò che andassero
oltre a lor posta. Infatti, a mezzo miglio discosto era accampato il suo
esercito, né potevano essi cansare d'esser fatti prigioni.
Ella intanto diè il cenno e
l'esempio di risalire in arcione. Dietro a lei tutto il drappello si cacciò a
galoppo sulla strada, serrandosi sulle orme dei Medi. Udirono essi l'improvviso
rumore alle spalle e pensando che fossero altri cavalieri usciti di città, per
richiamarli indietro, o per altro che loro importasse sapere, si fermarono
tosto. E innanzi che avessero tempo a raccapezzarsi, a conoscere d'esser caduti
in agguato, erano circondati da un nugolo di fantasmi; ché tali dovevano parer
loro, in quel luogo, i cavalieri di Semiramide, creduti ancora così lontani, e
sulla via dell'Eufrate.
Thuravara, il loro capo, fu
condotto alla presenza della regina. Tremò egli, quando ebbe ravvisata
Semiramide, e, a mala pena interrogato, disse tutto ciò che a lei mettesse
conto sapere. Thuravara, creato di Zerduste, non ignorava qual sorte lo
attendesse, ove, con pronta sommissione e con utili ragguagli, non si fosse
raccomandato alla clemenza di lei.
La regina adunque udì dal suo
labbro che Faleg resisteva da due giorni tenacemente sulle alture di Sippara,
ove Zerduste credeva fosse ella per giungere, col rimanente dell'esercito. Per
altro, in quella medesima sera, due esploratori erano tornati da Burat, che è
sull'Eufrate, a una giornata più in alto di Sippara; né lassù si aveva fumo di
soldatesche vicine. Cotesto aveva confortato Zerduste nel suo primo pensiero,
che l'invio di Faleg fosse tutto quanto ella aveva potuto fare, al primo annunzio
della rivolta di Babilonia, e che ella fosse, con tutto l'esercito suo, di
parecchie giornate più indietro.
Del resto, soggiungeva Thuravara,
Ninia e il suo fedele ministro dimoravano nel palazzo della riva occidentale,
per esser più vicini al pericolo e più pronti alle acconcie difese. Avevano
essi un esercito di duecento migliaia; ma la più parte di gente ragunaticcia,
né ancora bastantemente addestrati. Si aspettavano bensì grossi soccorsi dai
Medi e dagli Elamiti, già chiamati in arme dal preveggente Zerduste, alla
vigilia della rivolta e della incoronazione di Ninia. Egli, Thuravara, andava
per l'appunto sulla via di Libil Higal, a vedere se ancora giungessero, e ad
affrettarne l'entrata in città. Armi, poi, e vettovaglie, come alla regina doveva
esser noto, in Babilonia abbondavano.
Udì Semiramide i copiosi
ragguagli; e come Thuravara ebbe finito, gli disse:
- La tua vita dipende dal parlar
che farai. Qual motto hanno ora i custodi delle porte?
- Per Anaìti! - rispose tosto il
Medo infedele.
- Che significa ciò? - chiese la
regina in atto di stupore.
- È il re, - soggiunse Thuravara,
- è il figliuol tuo, mia clemente signora, che in tal guisa ricorda la diletta
del suo cuore.
- La risuscitata! - sclamò
Semiramide.
- Sì, potente regina.
- E per grazia de' sommi Dei, non
è egli vero? - incalzò ella con accento d'amara ironia. Thuravara chinò
vergognoso la fronte.
- Sta bene; - proseguì la regina,
senza curarsi della risposta. - Tu, vieni tra le nostre ordinanze; e guai a te
se non m'hai detto il vero! -
Poco stante, era dato il cenno
all'esercito, che tutto avesse a rimettersi in moto ed accostarsi alle porte.
Ella, col suo stuolo di cavalieri, precedeva le squadre.
Giunsero in breve alle mura. Il
ponte era alzato davanti alla porta; ma allo scalpitar dei cavalli sulla
pianura, le scolte s'erano affacciate alle feritoie, e allo squillar d'una
tromba sul ciglione del fosso, furono pronte a chiedere ai nuovi arrivati:
- Chi siete? In nome di chi
venite?
- Siamo guerrieri di Ninia; -
risposero gli altri. - Usciti dalle porte di settentrione, torniamo da questa,
e per Anaìti veniamo. Sbrigatevi; sono i Medi aspettati con noi. -
II ponte fu tosto calato.
Semiramide fu la prima a spingere il suo cavallo sull'ampio tavolato di
cipresso.
- Giungono i soccorsi di Media! -
gridavano intanto sotto l'androne i custodi. - II veggente Nebo ci assiste.
- Egli viene su voi, traditori,
per fulminar le sue collere! - gridò Semiramide, menando a cerchio la mazza
ferrata entro lo stuolo malcauto.
- Per Anaìti custodivate le
porte!... Per Semiramide arrendetevi, o tutti di mala morte morrete.
- La regina! sì, è dessa la
regina! - andavano ripetendo i malcapitati, mentre, quinci e quindi fuggendo,
tentavano schermirsi dai colpi. - Chi l'avrebbe mai detto? Ahimè! c'ingannarono
i sacerdoti; non erano per Ninia gli Dei! -
Ben presto fu fatta strage di
quella turba fuggente; i più lontani, sentendosi incalzati dai cavalieri, si
buttavano ginocchioni, chiedendo mercè, ed avevano così salva la vita. Non uno
andò fino al baluardo interno della città, per recarvi la terribile nuova; e
prima ancora, prima sempre tra tutti, vi giunse l'audace guerriera, il cui
esercito, infiammato dalla portentosa felicità dell'evento, già si accalcava
sul ponte, sbucava dal profondo androne, si dilagava nel vastissimo piano tra
Imgur Bel e Nivitti.
Non era pugna, né inseguimento di
nemici; era libera corsa sfrenata, in mezzo a spaventati drappelli. Entro il
baluardo di Nivitti Bel fu un tumulto indicibile. I primi che videro le negre
schiere apparire agli sbocchi delle vie e irrompere nella città, minacciose
come una legione di spiriti d'abisso, si sparpagliarono tosto per le strade
minori, quali cercando nelle lor case rifugio, quali fuggendo senza saper dove,
non d'altro solleciti che di scansare l'imminente pericolo, tutti levando
altissime strida e mettendo a romore e scompiglio la sterminata città.
Semiramide! È qui Semiramide alla riscossa! Sventura al popolo delle quattro
favelle, su cui la regia vendetta discende!
La tristissima voce per ogni dove
s'è sparsa, ha precedute le squadre degl'invasori. Quanti n'han tempo, o modo,
si danno alla fuga verso l'Eufrate; l'ampia travata del ponte cigola sotto il
peso e la furia di quell'onda di popolo, che incalza alla destra riva: uomini,
donne, fanciulli, mezzo vestiti, scarmigliati, ignudi, come il terribile
annunzio li colse, come la paura li spinse.
Non cura la regina i fuggenti;
anzitutto ella mira a impadronirsi della reggia. Sfondano i suoi guerrieri
l'ingresso, chiamano per nome, invitano alla obbedienza i custodi. È la loro
regina, è Semirarnide, che batte alle porte; chi più oltre serberà fede al
ribelle, innanzi che giunga il sole al meriggio, penderà inchiodato dai merli.
È l'alba, e già Semiramide ha
ricuperato la sua reggia, nobile e forte arnese, dove ella troverà armi,
sicurezza ai nuovi combattimenti. Dall'altra sponda del fiume hanno appiccato
il fuoco al tavolato del ponte; fuoco arde nel valico sotterraneo, per dar
tempo ai ribelli di chiuderne più sicuramente lo sbocco. Ma che importa?
Semiramide è padrona, con un colpo audace, in poche ore, di tutta la parte
orientale di Babilonia.
- Grazie, santissimi Numi! - ella
dice. - Voi non avete tolta la vostra mano da me; io sono ancora la regina
degli Accad. -
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