La fortuna, che già sembrava
avere abbandonato le insegne di Semiramide, tornava ora a farle buon viso. Era
pentimento, sommessione all'audacia, o crudelissimo scherno? Risorgeva la
regina più gloriosa e più forte dal suo abbattimento, o non era a vedersi altro
in quella ardita riscossa che il sollevarsi del guerriero sulle ginocchia e
l'ultimo suo brandir l'arme sanguinosa contro il nemico che sta per finirlo? I
prossimi eventi dovevano dar la risposta.
Intanto, mercè la sua rapida
corsa e l'occasione prontamente afferrata, ella era venuta a capo di penetrare
in Babilonia e di farla sua fino alla sinistra riva del fiume. Solleciti
messaggi avevano mosso Faleg dal suo baluardo di Sippara, e mentre egli
rumoreggiava alle porte della sponda destra, tirandosi sopra una gran parte
dell'esercito dei ribelli, la regina tentava con barche e zattere d'otri
gonfiati il passaggio del fiume, e finalmente ristorava la travata del ponte
sotto una pioggia di dardi.
Ninia e Zerduste, con tutti i
loro, si ritrassero in Barsipa, la città sacerdotale, congiunta a Babilonia da
un prolungamento del muro esterno, ma forte di per sé stessa e dentro e fuori,
acconcia a durare per mesi e mesi un assedio.
Colà, all'ombra del più eccelso
tempio di Babilonia e del mondo, incuorato dalla inflessibile baldanza di
Zerduste, sorretto dal favore dei sacerdoti, ammaliato dalle carezze di Anaìti,
posava il giovin ribelle, o non curante, o inconsapevole del suo delitto.
Infine, non era egli il re, unica prole di Nino, ultimo della stirpe di Nemrod?
I santi ministri delle sette luci della terra non avevano essi consacrato il
suo capo? L'oracolo di Belo non aveva egli pronunziata la reità di Semiramide
al cospetto dei cieli? Inoltre, conforme al volere dei sommi Dei di Babilonia,
non era forse il volere del Dio di Zerduste? Mai tra rivali divinità si era
manifestata una simigliante concordia.
Invero l'astuto principe di Bakdi
si era rigidamente astenuto dal palesar la sua fede. Da lunga pezza egli soleva
dire al suo regio discepolo che il tempo non era anche venuto di annunziare il
regno di Ahuramazda alle genti; questa essere dottrina eccelsa pei savi; al
volgo doversi lasciare intanto le sue idolatrie grossolane. Nessuna prova di
loro virtù avevano fatta gli Dei di Babilonia a favore di Ninia; laddove il
soffio potente di Ahura gli aveva restituita la sua diletta Anaìti. Egli
l'aveva pure veduta, là, nel suo casolare tra i palmeti di Gomer, distesa sul
letto di morte, le membra prosciolte e fredde; invano aveva pianto amarissime
lagrime; invano aveva chiesto a' suoi numi un prodigio. Ma laggiù, ne'
sotterranei di Babilonia, ove il Dio vero nascondeva ancora il suo purissimo
culto, egli aveva pure udito dalla voce di Mazda la cagione per cui era morta
Anaiti. «Non tra ozii imbelli doveano poltrire i nati di re; amori e carezze di
donna amata esser premio ai valorosi, ai fedeli seguaci degl'insegnamenti
celesti, non facil sollazzo, non riposo consentito a mezzo il cammino, quando
il debito delle sante opere e la via lunga sospingono. A lui, per ventura,
agevole il meritarsi quel premio, intercedendo la cara autorità di Zerduste, né
chiedendosi troppo lungo disagio a chi dovea regger lo scettro, moderatore di
popoli. Cedesse adunque ai lagni di Babilonia, sdegnata per una stolta e
rovinosa guerra e per maggiori danni minacciati al buon seme cussita; cedesse
alle voci che il cielo provvidamente spirava sulle labbra degl'idoli bugiardi;
cingesse corona di re, ed Anaìti sorgeva dal suo letto funereo. Resa a lui dal
favore di Mazda, al suo ardimento, al suo perseverar ne' propositi era sospesa
la vita della fanciulla diletta.»
Ora, a mala pena nel tempio di
Belo il credulo adolescente aveva impugnato lo scettro d'oro, non erasi infuso
di bel nuovo lo spirito vitale nelle rigide membra di lei? Non aveva egli
sentito sotto la sua mano tremante riscaldarsi e palpitare quel bianco seno, a
cui tre giorni innanzi aveano tentato invano ridar la vita i suoi baci? Così
Ninia era stato condotto ai voleri di Zerduste, e fatto ribelle, nimico alla
maestà di sua madre. Né già viveva pel regno, di cui lasciava ogni pensiero al
sapiente maestro; né già si curava della sua sconfinata autorità, se non per
ricordare che la regia possanza è una piramide al cui sommo sta preparata e
colma la coppa di tutte le umane delizie. Viveva allora per Anaìti, per quella
fiorente bellezza che si profondeva inconsapevole a lui, tremante di dover
morire se egli vacillasse, e per amore, per ambizione, per paura, incatenata al
suo fianco. E in lui, il saperla così sospesa tra morte e vita accresceva, gli
ardori. Si ama, dicono, assai più fortemente ciò che si teme di perdere. Triste
sentenza, se vera; ma forse ciò che pei nobili cuori non è, potrebbe credersi
vero per l'anima fiacca e per l'indole tutta sensuale di Ninia; di quel
lioncello, a cui, per mezzo agl'ingenui moti della tenera età, cresceva la
ferocia dell'avita natura.
Insignoritesi con tali arti della
mente di Ninia, il principe di Bakdi non aveva durato fatica ad attizzar gli
sdegni del popolo; la mercè di falsi messaggi e di aggranditi pericoli, aveva
aggiunto esca al fuoco, e, con l'immagine dei certissimi danni, infiammati gli
spiriti a rivolta.
Facili i volghi ad essere
trascinati; più facili, se vissuti in lenta ed inerte soggezione, a credere
ogni cosa, a farsi stromento docilissimo in mano agli scaltri. Né manco
agevole, pel grado suo e per l'imperio ch'esercitava su Ninia, gli era tornato
di vincere la riluttanza dei sacerdoti. Sempre più ardente di giorno in giorno
la plebe; impensierite pei lor cari assenti le più ragguardevoli famiglie;
tutti contrarii ad una guerra che accortamente si mostrava esser frutto di
un'amorosa follia; non avrebbero ardito i sacerdoti far contro alla corrente
delle popolari opinioni. Volevasi Ninia per re; meglio averlo tale e dominarlo,
come offeriva Zerduste, che osteggiarlo invano, opponendosi ai voti del popolo.
Il saccanàco, il gran vicario degli Dei, si faceva schiavo in tal guisa agli
eventi, assicurava ai più forti la benevolenza del cielo; vecchio costume degli
uomini che si vantano di custodirne i responsi! E, maledetta Semiramide
lontana, Ninia era incoronato sulla gran torre di Barsipa; armi ed armati si
raccoglievano dalle vicine provincie; i Medi, gli Elamiti, e quanti eran popoli
soggetti di là dallo Zagro, tutti incitati a scuotere il giogo. L'impero, saldo
in apparenza e durevole, si sarebbe sfasciato dopo il trionfo delle schiere
ribelli, se pure lo stesso Zerduste, sotto colore di chiamare i Medi a difesa
della stirpe di Nemrod, non pensava a disfarsi, per utile suo, di quel
malaccorto adolescente, trastullo nelle sue mani, vera larva di re.
E intanto che costui, riparato
con Ninia entro le mura di Barsipa, faceva assegnamento sulla irruzione dei
Medi, sullo scompigliarsi dell'esercito di Semiramide e sulle ire di Babilonia,
cresciute a dismisura per la morte di tante migliaia de' suoi cittadini, la
fortissima donna vacillava nei suoi consigli, esitava a condurre innanzi
l'opera sua. Il nemico ch'ella doveva combattere, che un colpo malaugurato de'
suoi ingegni di guerra poteva stendere al suolo, era Ninia, era suo figlio! ll
tradimento dei Casdim la turbava altresì, la faceva più perplessa. Bene erano
ossequenti a lei i sacerdoti di Militta e di Nebo, rimasti in città; ma che
potevano costoro, contro il maggior numero rifugiato in Barsipa ed anco di là
possente sul popolo, tranne il pregare in silenzio?
Fatta accorta del pericolo,
confidandosi inoltre che il suo inaspettato trionfo in Babilonia avesse ridotto
quei temuti nemici a più miti consigli, diè mano a pratiche segrete con essi,
facendo che alcuno dei sacerdoti di Nebo andasse a Barsipa, come a cercarvi
rifugio, e, avuto agio di parlare col saccanàco, ogni più larga promessa e
giuramento gli facesse, in nome di lei. Frattanto i giorni scorrevano, ed altri
dolori le si stringevano al cuore.
Il re d'Armenia andava
ricuperando la sanità ad occhi veggenti. La ferita non aveva nulla avuto di
grave, tranne forse lo spargimento copioso del sangue. Vinta la febbre mercè il
farmaco dell'Indiano, egli era tornato in sé medesimo, e la ingenita vitalità
aveva trionfato di tutto, perfino della negra mestizia che gl'ingombrava lo
spirito. Il cammino da' suoi monti natali alla pianura del Sennaar non gli era
tornato a disagio, dappoiché la sua scorta viaggiava sempre nelle ore notturne,
ed egli posava su morbide piume, procedendo leggero e senza scosse, o sobbalzi,
al dolcissimo passo dei cammelli battriani. La tacita compagnia giungeva in
Babilonia tre giorni dopo il vittorioso ingresso di Semiramide, e la frescura
dei pensili orti, l'abbondanza di tutti gli agi del vivere, avevano
rinfrancate le membra affralite del giovine, facendo il resto la gioventù,
questa medicina incomparabile, che tutti, ahimè! non sempre portiamo dentro di
noi. Sbiancato mostrava il volto, già tinto di rosa e ammorbidito da riflessi
dorati; una nube di tristezza offuscava il placido lume degli occhi; pure la
sua bellezza non aveva nulla perduto della prima virtù; simile al fiore che il
soffio della bufera ha alidito, ma che un tiepido raggio di sole ravviva.
Semiramide lo aveva veduto. Nel
suo breve colloquio con lei, il prigione erasi mostrato ossequioso, ma freddo.
Posto di bel nuovo al cospetto di quella sovrumana bellezza che lo aveva
rapito, memore di tante angosce, più ancora di tante dolcezze, combattuto da
contrarii pensieri e da immagini di lutto recente, si adirava con sé medesimo,
si struggeva di non odiarla quanto avrebbe dovuto.
- Son vinto e tuo prigioniero; -
le disse. - Fammi morire; altro io non aspetto oramai. Donna di grande animo ti
dice la fama, e le imprese tue ti dimostrano. Fanne un'ultima prova per me,
affrettando il mio fine, ed io benedirò l'odio tuo.
- Nemico di un giorno, e pensi
ch'io t'odii? - replicò nobilmente la regina. - Ho vendicato un oltraggio, ho
punito un atto di ribellione; tutto l'altro io non ricordo, non vedo. Son
regina per te come per tutti; ciò soltanto soffri da Semiramide. Ella è
soddisfatta: né pensa, ai dolori patiti, o alle profonde allegrezze che si
riprometteva dalla sincerità del suo cuore, se non per lagnarsi della sorte, a
lei così larga dispensatrice di potenza, e così avara di giustizia nel mondo.
Credi tu che di questa potenza m'importi? Credi tu che mi prema del regio
fasto, dell'impero accresciuto e di questa Babilonia, che un mio cenno ha
creata? Io sono più superba a gran pezza; mi paragono alla stella che trascorre
veloce lo spazio e non cura il solco di luce che lascia dietro di sé. Mi
spegnerò come ho vissuto, splendendo; ma non vo' che nulla offuschi a' tuoi
occhi il mio raggio; non l'amor tuo, la tua stima domando. So quali ragioni
t'abbiano mosso alla fuga; Sumàti, innanzi di cercare spontaneo la morte nelle
acque salse di Van, mi ha confessato ogni cosa. Tu fosti vittima di un'empia
macchinazione, che l'abisso non poteva immaginar la più nera. Per darle a' tuoi
occhi colore di verità, un tuo fedele ti ha venduto ai nostri comuni nemici.
- Un mio fedele! - sclamò Ara
turbato. - Altri non meritò più questo nome, che Bared. Impossibile! Bared
pugnava al mio fianco. Non tradiscono, i valorosi. Fatto prigione con me,
perché non lo vedo io al mio fianco? -
Tosto, ad un cenno di Semiramide,
fu cercato per ogni dove l'infido scudiere del re. Ma invano. Bared, nel
muoversi dei prigioni da Armavir, profittando della confusione in cui era
l'esercito, aveva presa la fuga, né più s'era avuta nuova di lui.
- Tu lo vedi, o regina? - disse
Ara, con piglio severo. - Anche Bared, l'ultimo testimone, ti manca. Egli pure,
come Sumàti....
- Basta! - tuonò la regina, il
cui sangue si rimescolò tutto e riarse, come le fosse penetrato un dardo
rovente nel cuore.
E furono le ultime parole di lei.
Composta negli atti, grave nell'aspetto, ma fieramente combattuta nell'animo,
vacillante, smarrita di sensi, uscì la misera donna. Ella non era più
Semiramide; non era più la regina. Sì, ben lo sentiva in quel punto; la sua
fortuna era fuggita per sempre; la dura mano di Nisroc si aggravava su lei.
A che più combattere? Per quali
speranze? A qual pro? È dei giovani il travagliarsi, durare aspre fatiche
animosi; dei giovani, che hanno il futuro davanti a sé, per chiamarli colle
arcane sue voci, stimolarli colle sue confuse promesse. Ma il vecchio, deserto
d'ogni promessa e d'ogni speranza, a che tenderebbe i nervi e l'ingegno,
conscio pur troppo che pochi passi più oltre una fossa lo aspetta? Così
Semiramide, a cui la gioventù splendeva ancora sul volto, ma più non esultava
nel cuore. Vivere, vincere, regnare, perché? Non è grata fatica, dove manchi la
speranza del premio. È vanità rialzare un trono, su cui non abbia a sedere che
un'ombra. Cedono allora, cedono le anime grandi ai più profondi sconforti.
Gittar l'opera di tante braccia obbedienti, spargere inutilmente il sangue
proprio e l'altrui, peggio che errore non è forse un delitto? E varrà egli per
avventura, contro queste voci della coscienza il dire che giusta è la causa per
cui si combatte? Sarà scusa bastevole al cospetto del mondo, o conforto per sé,
l'aver combattuto per seguire la sua generosa natura?
Chiusa nel silenzio delle sue
stanze, la regina pensava. Che aveva ella fatto di così reo, da meritarle un
tal scempio? Vedova di Nino, aveva, più ancora che colle sue vittorie, colla
temuta altezza del nome, formato il più vasto impero che fosse mai; aveva
recato un sorriso di grazia nella forza, un raggio di serena maestà nella
ferocia di que' prepotenti Cussiti. Luce e bellezza è la donna nel mondo; solo
quando ella vi apparve, credettero gl'immortali che Dio avesse compiuto l'opera
sua. Tale era stata Semiramide sul trono degli Accad, luce e bellezza
all'impero. Ma forse l'alba dei leggiadri costumi non era anche spuntata; ed
ella, precoce apparizione, doveva rimanere come un gentile esempio ai venturi,
meteora luminosa in quelle tenebre lunghe.
Cionondimeno, era egli forse un
delitto lo aver tentato di raggentilire i culti disumani e rozzi, lo avere
raunati tanti sparsi popoli in un grande consorzio, lo aver recati i benefizi
d'una civiltà nascente su tanta parte della terra? E di che, se giustizia
celeste presiede all'opere umane, di che era ella punita? D'esser donna e
pietosa, d'aver confidato negli uomini, d'averli reputati magnanimi e schietti
al pari di sé, di non aver creduto alle tenebre perché essa era la luce, al
livore perché essa era la bontà, all'ingratitudine, alla viltà, al tradimento,
perché essa era la generosità, la grandezza e la fede. Sì, quella era colpa
sua; né doveva per ciò muover lagno agli Dei. Ah, come avrebbe voluto mutarsi
allora, farsi tutt'altra da quella di prima, esser barbara, incrudelire,
operare il male, come tanti nel mondo, per la sola voluttà del male! Ah, se
quel tristo adolescente, quel mostro di perfidia precoce, non fosse uscito dal
suo grembo, come le sarebbe bastato l'animo di entrare in Barsipa col ferro e
col fuoco, e là, al sommo della torre, costringerlo a bere il sangue del suo
Zerduste e del gran sacerdote di Belo, confitti a lungo martirio sugli altari
bugiardi!
Ma ella era madre; era magnanima
e pia; i feroci pensieri trascorrevano veloci nella sua mente, a guisa di
nuvole rotte in un cielo sereno. La nobile creatura non poteva mentire
all'indole sua; doveva struggersi nel suo dolore impossente, e cadere, se così
voleva il destino.
Gli eventi incalzavano. Medi,
Persi, Elamiti, si erano ribellati ai governatori delle provincie. Le torme
loro muoveano minacciose dai monti, alla volta del Sennaar; cotesto recavano i
frettolosi messaggi, come nel profetico sogno della rocca di Van. Fortuna
estrema per lei, che i popoli sollevati non si fossero posti prima in cammino,
come, nella veemenza de' suoi desiderii, aveva sperato Zerduste! Frattanto,
egli bisognava spedire un buon nerbo di valorosi ad affrontarli; ella stessa
avrebbe dovuto correr laggiù, coglierli alla sprovveduta e sconfiggerli. Ma
come uscire di Babilonia, come sfornire la città di soldati, mentre i ribelli
erano così numerosi in Barsipa e dall'alto delle mura certo spiavano
l'occasione di rifarsi alle offese?
Inoltre, Babilonia non era
sicura, vacillava nell'obbedienza. I grandi, forza e decoro della città, si
erano allontanati con Ninia; il popolo rimaneva, ma inquieto, cruccioso,
sbigottito tra i mali presenti e l'incertezza del futuro. Cessate le feste,
rovinati i commerci, rotte le consuetudini d'una vita facile e piana, a cui era
necessaria la prosperità di tutto l'impero, ben si scorgeva che il ritorno
della pristina pace non era più possibile oramai, senza varcare un'altra
sequela di durissime prove. E d'ogni cosa (siccome avviene in mezzo alle
pubbliche calamità, che fanno gli animi ingiusti) si accagionava l'autorità più
vicina, quella a cui sarebbe bisognato dar forza per uscire con essa
d'angustie; s'accagionava Semiramide, la regina vera, l'autrice di tanta
prosperità passata; non Ninia, il ribelle, delle cui grandi opere, delle cui
felici impromesse, null'altro pur anche era noto, fuorché il suo tradimento.
Gran colpa, agli occhi del volgo,
un'ora di mutata fortuna! A Semiramide niente giovava aver tante cose operato
per la felicità di quel popolo. Che era per costoro il passato? Un generoso
liquore bevuto a rapidi sorsi, un'ebbrezza, un sogno felice, di cui non si
serba gratitudine, e molto è se la memoria rimane. Del presente era ella
accusata, del triste presente, di ciò che la regina non avea fatto per
soggettarsi il destino, di ciò che Ninia, Zerduste, complice il popolo di
Babilonia, avevano perpetrato contro di lei.
Intanto, lutto, squallore e
tumulto per ogni dove. In mezzo all'abbondanza, si pativa difetto d'ogni cosa.
Col pretesto della pugna imminente, si smetteva il lavoro; si domandava pane, e
avutolo si chiedeva che fossero aperti i granai. Né di minore ansietà era
cagione l'esercito. Tutte quelle migliaia di guerrieri d'ogni nazione, forti e
compatte schiere all'aperto, riuscivano colà branchi disordinati e turbolenti,
facili a scorarsi, più facili a secondare, che non a contenere ne' suoi
vaneggiamenti la plebe.
Emissarii di Zerduste, fautori di
ribellione, correvano di continuo tra le file. Erano popolo, né poteva
sospettarsi di loro.
- Contro chi combattete? - dicevano.
- E per chi? Doloroso è morire, quando a nulla giova la morte. Sapete a cui
siano propizi gli Dei? Non certo a Semiramide! La sua stella è tramontata, dopo
ch'ella ha voluto sacrificare agl'idoli stranieri. Ninia ha da essere un
giorno il re nostro; a che combatterlo oggi? Egli è oramai al suo sedicesimo
anno, e l'ha educato al regno la savia tutela di Zerduste. Egli è ragionevole
che, cresciuto negli anni e nella saviezza il discendente di Nemrod, lo scettro
continui ad esser impugnato da una fragil mano di donna? Compagna la fortuna ed
auspice la gran memoria di Nino, costei ha potuto condurre innanzi malagevoli
imprese, altre lasciarne a mezzo, senza troppo suo scorno. Oggi, abbandonata
dal favore de' cieli, esce in mostruose follie. Il miglior sangue di Babilonia
s'è sparso inutilmente nelle gole d'Armenia. Il vostro si spargerà inutilmente
del pari sotto le inespugnabili mura di Barsipa, con alto rammarico dei vostri
cari, che v'aspettano tremanti alle case natali. Ninia vi darà pace; egli vi
rimanderà liberi e ricchi alle vostre contrade. Che può darvi oramai
Semiramide, se non certezza di forsennati assalti e di morte ingloriosa? tra
breve incalzeranno alle porte i popoli sollevati dalle regioni orientali.
Avremo guerra dentro e fuori, carestia, desolazione, esterminio. Che farete
voi, uomini di Elam, voi Medi, Persi, Ariarvi, cavalieri animosi, su cui
Semiramide fa assegnamento per distruggere il popolo delle quattro favelle?
Uscirete voi in campo aperto, spingerete i baldi corsieri contro i vostri
fratelli di sangue, scesi dai monti in aiuto del legittimo re? -
Con arti siffatte era tentata e
scossa la fedeltà dell'esercito. Né più molto occorreva; forse una lieve
occasione dovea bastare a discioglierlo.
- Viva Ninia, in perpetuo! - già
avevano incominciato a gridare i nativi del Sennaar.
- E Anaìti, con lui, la vezzosa
regina! - soggiungevano i popolani. - Quella è nostra, nata del nostro sangue
più schietto. Felice chi la vedrà, come noi l'abbiam veduta, passare per queste
vie, bella come il sole nascente, e dall'alto del suo cocchio d'argento e d'oro
sparger sorrisi e saluti, come sparge fragranze il fiore della mandragora. È
dessa, Anaìti, la vera rosa del Sennaar; la venturiera d'Ascalona più non
usurpi quel nome. -
E scorreva, tra i dissennati,
scorreva, versato largamente nei calici, il liquor della palma. Cittadini e
soldati, dopo aver maledetto alle regali follie, pianto sui mali presenti e sui
temuti danni futuri, gozzovigliavano, infingardivano, tumultuavano insieme.
I capitani delle squadre,
giustamente inquieti, andavano a consiglio presso la regina.
- I soldati, sparsi tra il
popolo, avranno perduto ogni ritegno ben presto; la licenza e la ribellione son
penetrate nel campo. Bada, o regina: se i rivoltosi di Media giungeranno alle
porte, con quali forze andremo noi a combatterli? -
Semiramide, oppressa da tanta
rovina, perduta nel suo ascoso dolore, non sapeva a qual partito appigliarsi.
Dar tosto l'assalto a Barsipa? Sì certo era quello il più saggio consiglio; e
là, o vincere, o morire! Ma il suo cuore materno tremava. Infatti, come mai,
senza mandare in fiamme il covo dei ribelli, avrebbe ella potuto metter piede
colà?
Faleg, sempre costante nella sua
fede e ammonito dalla necessità di uscir presto da quella incertezza, propose
un suo divisamente alla regina.
- Se tu tentassi di bandire una
tregua, e di chiamare a parlamento gli anziani di Babilonia, insieme coi grandi
rifuggiti in Barsipa? Tu udresti ciò ch'essi dimandano; essi le tue proposte, o
signora. Imperocché, tu lo vedi, questa inerzia è fatale. O assalire i
baluardi, o calare agli accordi, ma subito!
- E sia, come tu saviamente
proponi! - rispose la regina. - Vengano a parlamento, e dicano l'animo loro
qual è. -
Indettatesi d'ogni cosa con lei,
Faleg esce sollecito dalla reggia e manda gli araldi per la città. Egli stesso
sale arditamente in arcione e s'avvia con pochi uomini di scorta, a Barsipa.
Giunto a' piè delle mura e fatte squillare le trombe, così parla ai ribelli:
- In nome della possente signora
degli Accad cui Nebo ha concesso l'impero dello scettro e la vittoria della
spada, a voi cittadini e difensori di Barsipa, tregua è proposta da questo
momento fino all'alba di doman l'altro, che sarà il trentesimo giorno di Tana.
I soccorsi, che voi attendete dalle terre del sole oriente, non giungeranno
prima di sei giorni in vicinanza di Babilu. Così recano i nostri esploratori;
vedete voi medesimi se vi confortino più felici notizie. In questo termine, io
ve lo annunzio, Barsipa sarà espugnata col ferro e col fuoco. Or dunque, accettate
la tregua, e quale di voi l'abbia grato, purché sia dei maggiorenti di Kiprat
Arbat (o principe tra i suoi, se straniero alla terra del Sennaar), venga a
parlamento nella reggia, insieme cogli anziani di Babilu. Udrà la regina le
proposte de' suoi avversarii, e che cosa essi chiedano da lei per far posare la
guerra; ella dirà ciò che da loro s'aspetta, o che può loro concedere. Liberi e
sacri gli inviati di Barsipa; maledetto, dai sommi Dei chiunque, durante la
tregua, tenterà cosa alcuna a danno del suo più odiato nemico. -
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