Dispiacque la proposta in
Barsipa. Che vuole costei? dimandavano i ribelli, radunati a consiglio. Qual
nuovo inganno si cela in questa tregua, che ella ci profferisce? Tarderanno ancora
parecchi giorni i soccorsi di Media; che importa? Le nostre mura sono salde, e
ingegni di guerra non mancano a noi, per respingere i minacciati assalti della
regina. Alla perfine, di quali speranze si nutre, col popolo avverso e
l'esercito mal fido? E non è forse da credere che ella tema più di noi l'esito
di quest'ultimo scontro? Di certo, le è giunto all'orecchio che domani, dal
sommo della gran torre, i Casdim chiameranno solennemente sovr'essa la
maledizione degli Dei, e questa sua profferta è intesa a scongiurare il
pericolo. Ella ben sa che il popolo di Kiprat Arbat, servo riverente dei Numi,
si solleverà contro di lei, dichiarata sacrilega, e l'esercito, in cui è tanta
parte dei figli del Sennaar, piglierà ansa a sostenere le ragioni del popolo.
No, si risponda a Faleg, non tregua, né accordi!
Vinceva per tal guisa il partito
di respingere la proposta. Ma Zerduste, che fino a quel punto aveva serbato il
silenzio, si oppose.
- Due notti in Babilonia, - egli
disse, - sono gran ventura per noi, quale non ci era dato sperare dalla
benevolenza del cielo. Ponete mente, o savi consiglieri del re: ciò che a noi
tornò così malagevole di ottenere, la mercè di destri emissarii, tenteremo
liberamente noi stessi per le vie della città, nelle lunghe ore che ci consente
la tregua. Né così audace è il popolo, né ancora così pronto ad ammutinarsi
l'esercito. D'una propizia occasione è mestieri, e questa occasione è la
tregua.
- Ma sarà ella osservata, la
tregua? - notarono gli altri, con accento di dubbio. - Non è per avventura da
temersi una insidia?
- Semiramide non è donna da
tendere insidie! - rispose brevemente Zerduste. - Ciò ch'ella promette
fedelmente atterrà. State di buon animo, ed eleggete quali di voi dovranno
recarsi alla reggia. Io medesimo, che più d'ogni altro avrei cagion di temere,
scenderò in Babilonia cogli inviati del re e col venerato collegio dei Casdim.
-
Ora, Zerduste era l'anima della
rivolta e a lui tutti facevano capo, come al vero monarca. I Casdim medesimi,
ai quali l'astuto prometteva tanta possanza nell'impero, erano a lui vincolati.
La proposta fu dunque accettata.
Tosto, recatesi alle porte della
città, il principe di Bakdi venne a parlamento con Faleg.
- La regina ascolterà dunque i
voti del Casdim e dei grandi rifuggiti in Barsipa?
- E degli anziani di Babilu; -
aggiunse Faleg. - Il popolo rimasto in città è sempre il maggior numero; né il
suo voto, qualunque esso sia, va lasciato in disparte.
- Sta bene; - disse Zerduste. - E
che intendi tu per altri dei ribelli, purché siano principi delle loro nazioni?
Son io dunque del numero?
- Tu primo, - rispose l’inviato
di Semiramide, - e le mie parole indicavano te. Non fosti tu il consigliere
della ribellione? Non comandi tu, non fai ogni cosa a tuo talento appo il re?
Vieni dunque, se ti aggrada; la tua persona, come quella d'ogni altro, ci è
sacra. -
Così minutamente convenuti di
tutto, fu giurata quel medesimo giorno la tregua nel tempio di Nebo. Giurò
Zerduste per Ninia e pei ribelli; Faleg per la regina e per l'esercito suo;
Abdenago, il primo degli anziani, pel popolo delle quattro favelle.
Babilonia si rasserenò come per
incanto, dopo che gli araldi ebbero bandita quella sospensione d'arme,
altrettanto gradita, quanto era inattesa. Gli animi, riaperti alla speranza,
intravvidero la pace imminente. A che si sarebbe fatta la tregua, se non fosse
parso ai combattenti di poter giungere ad utili accordi? Del resto, l'esser
chiamati in mezzo gli anziani della città, quasi arbitri del litigio, affidava
il popolo che in un modo o nell'altro, per la madre o pel figlio, gli sarebbe
restituita la calma.
In sull'ora del tramonto, schiuse
le porte di Barsipa, scesero i grandi e i sacerdoti in Babilonia. Sulle orme
loro si affrettarono molti altri, che pure non dovevano andare alla reggia,
guerrieri e cittadini, a cui premeva di vedere i congiunti o gli amici. Né
Faleg si oppose a questo lor desiderio. Così, largheggiando di generosità e di
clemenza, volea Semiramide. Non erano che un solo i due popoli; soltanto le
sorti della guerra intestina li avean separati; tornassero quelli di prima,
finché durava la tregua.
La mattina del giorno seguente,
che fu il ventesimonono di Tana, gli anziani di Babilu, condotti da Abdenago, i
capi della rivolta, e i maggiori tra i Casdim, guidati dal saccanàco, ascendevano
alla reggia, ed erano introdotti nella sala di Nemrod, al cospetto della
regina.
Semiramide era seduta sul trono,
pallida in volto, ma tranquilla, in atteggiamento regale. Immobili ai suoi
fianchi stavano i flabelliferi, con alti ventagli di penne, i melofori
coll'armi in pugno e i portatori di scettro, interpetri e ministri de' suoi
alti comandi. Faleg e i capi dell'esercito erano in attesa, raccolti ai piedi
del trono.
Zerduste non era tra i nuovi
venuti. O fosse riguardo per sé, o atto di meditata cortesia verso la regina
egli non aveva posto piede là dentro; ma bene erasi aperto cogli altri, ed essi
indettati con lui, d'ogni cosa che avessero a dire. Il saccanàco, per giusto
riserbo della sua dignità, non voleva dal canto suo esser primo ad ossequiar
Semiramide. Però l'ufficio di parlare in nome di tutti era commesso al capo
degli anziani, che difatti fu il primo ad inoltrarsi a' piedi del trono.
- Potente signora, - disse
Abdenago, inchinandosi a mezzo, - vivi in perpetuo!
- E a te ed a chi viene con te, -
rispose la regina, - dian lume di savio consiglio i celesti. Io vo' che posi la
guerra, e, perdonati i ribelli, allontanati gli estrani, sia riverita la mia
autorità dal popolo delle quattro favelle. Ora, che pensate voi dell'offerta? I
disegni della mia clemenza son questi. Amo meglio vengano essi incontro a voi,
in sembianza di doni amorevoli, anzi che paiano concessioni lungamente
patteggiate, e quasi strappate alla resistenza d'un animo acerbo. Madre io mi
tengo del popolo, come sono di Ninia. La mia fede vi è nota. Schietto ed aperto
ditemi dunque l'animo vostro. -
Abdenago si fece innanzi d'un
passo, e postasi la manca sul petto e stesa la destra in alto, come per
aggiungere solennità al suo discorso, parlò:
- Regina, non ti dispiaccia il
mio dire. Pel mio labbro ti parlano gli ordini tutti della città, i rifuggiti
in Barsipa, il venerato collegio dei Casdim. ll popolo delle quattro favelle è
per cagion tua sventurato. Sempre, dacché lo raccolse in questa pianura e gli
diè legge il fortissimo Nemrod, questo popolo fu governato da re, scesi tutti
da una medesima stirpe. Per la prima volta l'ebbe in sua balla una donna, e
quella tu fosti. La tenera età di Ninia, la tua gloria, la tua fortuna,
persuasero di lasciarti lo scettro, che soltanto a destre virili era concesso
impugnare....
- Io lo tenni per virtù mia, non
l'ebbi in grazia a voi! - interruppe la regina.
- E sia; - disse di rimando
Abdenago; - noi dunque a forza obbedienti, non già condiscendenti alla tua
autorità per nostra elezione. Regnasti sola e felice undici anni; la fortuna
arrise alle tue armi, fino a quel giorno che, condotto il tuo esercito sulle
rive dell'Indo lontano, il Signor delle sorti volse la sua faccia da te, e tu
non campasti che colla fuga da una certissima morte.-
Un amaro sorriso sfiorò le labbra
di Semiramide.
- Trasvolate assai presto undici
anni di gloria! - diss'ella con piglio sarcastico. - Vi giova altresì
dimenticare che questa felicità, questa grandezza, di cui rimpiangete la
perdita, voi, prima e vera cagione del vostro medesimo danno, sono opere mie.
Chi ha fatto l'impero? Chi ha esaltato i sommi Dei di Babilu al cospetto delle
vinte nazioni? Prima che io fossi, io, avventuriera d'Ascalona, siccome taluno
di voi oltraggiosamente mi chiama, nessuno degli Accad aveva ancora veduto un
tratto di mare. Io quattro ne vidi, e sulle rive trionfate posi i confini della
mia, della vostra possanza. Chi ha soggettato al nome dei figli di Cus tutto il
paese di Martu, dalle arene di Mesraim fino alle spiaggie di Rifat, con entro
città popolose e fiorenti di traffichi, e Chittim, e Caftor e tutte l'altre
isole belle che si specchiano nel mare del sole occidente? Bene le terre dei
Medi attrassero il cupido sguardo dei vostri re, da Nemrod a Nino; ma chi venne
a capo della resistenza di Bakdi, della città che sovrasta con l'alta bandiera
su tutta la contrada del sole oriente, dal Caspio, in cui l'Oxo si versa,
infino all'Eritreo, dove l'Indo mette le numerose sue foci? Chi stese il regno
alla terra degli aromi e dell'oro, che siede felice in mezzo a tre mari? e le
prede di tante guerre, i tributi di tanti popoli soggiogati, chiusi io forse
per me, o gittai nelle feste? Non mutai, dov'era bisogno, il corso de' fiumi?
Non murai cittadelle? Non apersi vie spaziose, ov'erano dapprima boscaglie,
dirupi e libere orme di fiere? Io strinsi d'argini poderosi l'Eufrate ed il
Tigri; io riedificai la città, cingendola di saldissime mura e di fosso
profondo; io innalzai questa reggia, splendor della terra; io que' templi,
grata dimora ai celesti. Quale dei vostri barbari re, sia egli pure Nemrod, il
terribile cacciatore di popoli, o Nino, mio sposo, giunse a tanto di gloria? E
a me si ardisce dar cagione delle sventure di Babilu? Dinanzi a me si ardisce
rimpiangere la mano d'un re? -
Un mormorìo d'approvazione era
corso per le file dei cortigiani e dei capi dell'esercito, molti de' quali
avevano partecipato ai pericoli e alla gloria di tante nobilissime imprese. Gli
stessi cittadini di Babilonia, e parecchi dei grandi rifuggiti in Barsipa, avevano
sentito come un'aura della passata grandezza aleggiare sulle loro cervici e
curvarle ad atto di riverenza e d'ossequio. Ma Abdenago, nella cui mente aveva
stillato le sue sapienti perfidie il principe di Bakdi, non si era dato per
vinto:
- E sia ancora; - ripigliò il
capo degli anziani, - sia sempre come tu dici, o regina. Tante mirabili cose
hai operato, o, per dire più veramente, hanno operato per tua mano gli Dei
protettori di Babilu. Ma perché, a mezzo il corso de' tuoi benefizi, hai tu
voluto arrestarti e distruggerne i frutti? Perché tu, fondatrice dell'impero,
facendo contro a te stessa, ti sei consigliata di mandarlo a rovina? Questa
recente guerra contro la maledetta Armenia, per qual ragione fu impresa? -
E Abdenago, uscendo in questa
dimanda, si piantò arditamente dinanzi al trono, guardando la regina con aria
di sfida. Parlavano pel suo labbro i lutti numerosi che quella guerra aveva
arrecati a Babilonia, e gli crescevano l'audacia. Fremettero i convenuti nella
sala di Nemrod, quali di memore sdegno, quali di corruccio per la temeraria
domanda; ma gli uni e gli altri, ben sapendo che là era il nodo di quell'aspra
contesa, stettero muti ed intenti ad aspettare la risposta di Semiramide. Essa
fu breve.
- Non vi ho mai detto perché
imprendessi le altre; - disse alteramente la regina; - non vi dirò dunque le
cagioni di questa. Ben voglio sia ricordato da voi che l'Armenia era soggetta a
tributo e che, d'improvviso, scossa la nostra autorità, offesa dai figli d'Aìco
la maestà del trono degli Accad, occorreva domarne con pronta guerra
l'orgoglio. Un grande impero siccome il nostro non può viver sicuro, con audaci
e turbolenti nemici alle spalle.
- Così non dice la fama! -
replicò prontamente l'anziano.
- La fama! - esclamò Semiramide. -
La fama! - ripetè con ironico accento. - E che si fa dire a questa compiacente
ministra dell'invidia, del maltalento e della stoltezza del volgo?
- Che fu un capriccio di donna; -
rispose Abdenago, senza fermarsi a raddrizzare la frase. - Condonami, o regina,
le ruvide ma schiette parole. Siam qui per farti udire la voce del vero, non
piaggerìe di servi ossequenti e paurosi. Questa guerra è costata tesori. Per
essa, settanta miriadi d'armati furono raccolte in Assur; tutte le più valide
braccia tolte alle case loro e all'operosa pace dei campi. Ma che dico dei
tesori profusi, quando è il sangue sparso che grida vendetta? Duecento migliaia
di combattenti lasciarono la vita ne' preziosi monti d'Armenia, nelle infami
strette di Ajotzor! Tu vincevi, o regina; trionfavi del riluttante Armeno e
godevi in cuor tuo; ma tu non eri già nella desolata terra del Sennaar, confusa
tra le orbate famiglie di Babilu, per lunghe e terribili ore immobile sulla
riva dell'Eufrate a contemplare i cadaveri tratti nell'onde vorticose del fiume
natìo! Il fiore e il nerbo della nostra schiatta miseramente perduto; i
diecimila cavalieri di Belo, onore e forza della progenie di Nemrod, mietuti
dall'orrida morte; e perché? Guerra utile era forse cotesta? O necessaria
almeno? Che non la facesti tu prima? Che non ne rimovesti i danni con
previdente consiglio? Ma inutile era, inutile e dannosa pel popolo di Kiprat
Arbat; utile soltanto a' tuoi corrucci, profittevole alle tue regali
vendette!...
- E non erano esse le vostre? -
interruppe Semiramide. - Lasciamo le perfidie che s'ascondono nelle tue parole,
o Abdenago; la regina le ha udite, e ti basti. Di tante morti mi duole; a me
prima e più fortemente è doluto che a voi. Ma la sorte delle battaglie è
cotesta; né la vittoria fruttìfica, senza che il campo sia innaffiato di
sangue. Molti guerrieri e de' migliori, perirono, in tutte le guerre che hanno
fatto grande e poderoso l'impero; molti più ancora in disutili imprese, e non
già di donna corrucciata, ma d'uomini forti e prudenti, di re animosi e feroci,
che voi oggi a mio scorno esaltate. E nessuno si dolse allora, nessuno impugnò
l'armi della ribellione, quando il fortissimo Nemrod, in quelle medesime
strette di Ajotzor, famose, o Abdenago, famose finché duri memoria negli umani
intelletti, lasciò la vita, la gloria dei passati trionfi e non una parte de'
suoi, ma tutta la schiera de' valorosi Titani. E voi sventurati per me! Voi
sollevati contro la mia autorità, per alto rammarico delle vite mietute! Sii
più cauto, o Abdenago, nel far tuo pro di un lutto comune. In Ajotzor si
combatteva il sesto giorno di Tana, e voi già apertamente ribelli dal terzo,
mentre io mi disponevo a levare le tende dal campo di Assur.
- È vero; - balbettò confuso
l'anziano. - Ma infine, e non era egli agevole di prevedere quella immensa
rovina? Tu stessa hai ricordato il figlio di Misdraim. Sì, l'impresa del forte
Titano contro le case di Thogarma fallì; vita e gloria vi perdette ed esercito.
E tu, non ammaestrata dall'esempio, hai voluto ritentare la prova, far contro
all'espresso voler degli Dei. Vincesti, ma la tua vittoria fu scherno
amarissimo di Nisroc; per la tua vittoria, per la tua, contentezza, è
Babilonia, è tutta la terra di Sennaar immersa nel lutto. A che contenderemmo
di giorni? L'impero è scosso ne' suoi cardini; questo è il danno più grave, e
dimanda le cure sollecite dei savi che consigliano i principi. Né mancano essi
a Ninia, al regio adolescente, che il popolo volle e che i sacerdoti
consacrarono re sulla gente degli Accad. Figlio di Nino e tuo, non dee parerti
un usurpatore del regno.
- Figlio di Nino e di Semiramide,
aspetti dunque l'ora del suo destino! - gridò Faleg, che già più non poteva
frenarsi. - Male s'argomenta di ottenere obbedienza dal popolo, chi primo si
ribella all'autorità della sua genitrice e regina.
- Savio parli; - rispose
Abdenago, scosso da quelle ferme parole e più ancora da segni di assentimento
che esse avevano destato tra i capi dell'esercito e tra parecchi de' suoi
medesimi compagni. - Ma Ninia dovrà pure un giorno impugnare lo scettro de'
suoi maggiori. Egli regna oramai; a che scemargli la maestà del nome, avvilirlo
al cospetto delle genti, richiudendolo di bel nuovo nell'ombra gelosa del suo
umile stato? Ricordi Babilonia, ricordino i Casdim, ricordi l'esercito (poiché
tutti qui raunati non siamo che una famiglia, il popolo delle quattro favelle)
essere a noi necessario di premunirci contro un più grave pericolo. Bene avrei
desiderato tacerlo, ma infine....
- Parla, - gridò Semiramide. -
Molto hai già detto, e che altro oramai può farti nodo alla lingua?
- Orbene, sì, parlerò! -
soggiunse Abdenago, che astutamente aveva meditata la sua reticenza. - Corrono
voci strane e paurose tra il popolo. Non sono forse caduti, in un sol giorno di
pugna, tutti i nobili rampolli della progenie di Nemrod? Balsam, il capo dei
bianchi cavalieri di Belo, Balsam, il terzo nato di Arbel, che fu padre al gran
Nino, tuo sposo; Ninip, ultimo del sangue di Bab, che fu il secondo figlio di
Nemrod; e Samas Iva, del sangue di Cael, e Misdrac, Ioreb, Dudaimo, balda
giovinezza e decoro del vecchio ceppo di Cus, non sono essi tutti, dal primo
all'ultimo, rapiti per sempre all'amore e alle speranze degli Accad? Per
contro, non hai tu condotto alla reggia l'Armeno, con ogni più sollecita cura
campato da morte, prigioniero in apparenza, ma perdonato in cuor tuo? Che dovrà
pensare il popolo di Babilonia? che argomentare da ciò? Regina, io nol negherò,
che sarebbe vano e non degno di noi! le tue gesta furono e rimarranno gloria
imperitura di Kiprat Arbat. Gioventù, bellezza, ardimento ti arridono, e molto
ancora ti sarà dato operare. Ma il popolo, di cui t'è necessaria l'obbedienza e
l'affetto, chiede certezza del futuro, vuoi essere raffidato da te. Qual cosa
vogliano i rifuggiti in Barsipa non so; parlino i loro inviati qui raccolti con
noi. In nome del popolo di Babilonia ti parlo io, in nome di questo popolo che
ha veduto perire in un giorno la progenie dei re, e che teme non si preparino
per avventura le vie del trono ad una stirpe nuova, e, quel che peggio sarebbe,
di sangue straniero. -
Le vampe del rossore e dell'ira
salirono alle guance di Semiramide. Il colpo era tratto alla donna, e la feriva
nel cuore. Cionondimeno, l'accusa di Abdenago appariva così stolta, che ella
riavutasi tosto, anziché prorompere in accento di sdegno, sorrise di
compassione.
- Dimenticate che Ninia vive? -
diss'ella.
- Si, vive, - ripigliò Abdenago,
crollando mestamente il capo, - ma per prodigio dei Numi. Ier l'altro, nella
sua coppa d'oro gli fu ministrato un veleno. Zerduste lo trattenne, che egli
già stava per accostarlo alle labbra. Il coppiere, costretto a bere invece del
re, cadde fulminato a' suoi piedi.
- Ah! e che vorresti tu dire? -
gridò Semiramide, che durava fatica ad intenderlo. - Forse che io.... Orribile
pensiero! Una madre!.... E siete voi cittadini di Babilu, voi che lo avete
creduto? Ma andate da colui, dal re vostro, correte, e questo ditegli in nome
di sua madre, che ella può disprezzarlo, ma ucciderlo.... ucciderlo! oh, anzi
che ciò potesse balenarle alla mente, ella avrebbe lacerato col suo ferro il
maledetto fianco che lo ha partorito.
- Infame calunnia scaturita dal
negro abisso! - tuonò Faleg a sua volta, pallido dalla rabbia troppo a lungo
repressa. - E il vostro Zerduste, l'astuto consigliero d'ogni più vil
tradimento, non può egli avervi mentito? Che è mai una nuova menzogna, un nuovo
inganno per lui? Che è mai la vita di un umil servo babilonese, per l'uomo
straniero che non ha dubitato di mandare a rovina la patria nostra e che
s'argomenta oggi di salvarla con l'aiuto dei Medi? D'ogni peggiore artifizio è
capace costui! Non lo temo io, lo sdegno dei tristi; soldato sono, e so che
dovunque è battaglia; son figlio di questa terra, e l'ho per nemico de' miei
fratelli di sangue. Badate, o cittadini; egli inganna voi, come inganna il suo
regio discepolo, e tardi vi accorgerete del danno, quando i Medi, ora sudditi
vostri, vi staranno padroni sul collo. Badate, o Casdim; egli vi ha
ravviluppati nei suoi lacci insidiosi, abbatterà i vostri altari, purificherà
le vostre rozze idolatrie, com'egli superbamente le chiama, nel fuoco de' suoi
sacrifici. -
Le concitate parole del guerriero
turbarono profondamente gli astanti.
- Che dici tu? - gridò il
saccanàco. - Potrebbero gli Dei esser caduti in inganno?
- No! - incalzò Faleg sollecito.
- Eglino infatti vi parlano pel mio umile labbro e vi consigliano a diffidare
di Zerduste. Egli vi tradirà, o venerandi, vi tradirà, come ha tradito la donna
che incauta per soverchio di generosità lo ha innalzato, lui principe di una
vinta contrada, ai primi onori del regno. La prova? mi direte voi, la prova? e
non l'avete voi, nella istessa mostruosità del delitto che egli appone alla
regina? Può forse una madre, e una madre che abbia nome Semiramide, compresa
della sua grandezza regale, sacra alla immortalità delle opere sue, macchiarsi
di parricidio? Lo credano i perversi, nel cui negro animo gli spiriti malvagi
vanno soffiando il loro alito immondo, non io, non voi, cittadini di Babilu,
memori ancora delle nobili imprese della vostra regina, né così dissennati da
imputare a lei gli errori del caso. E a voi forse parrebbe meno evidente ciò
che a me, non straniero a voi, ma fratel vostro di sangue e non meno di voi
sollecito della patria comune, appar manifesto, luminoso, come il raggio di
Sam? Io ne attesto gli Dei, Nergal, il corrusco signore delle battaglie, Nebo,
il veggente custode del vero, Auv, il regnatore de' cieli; e possano le loro
destre onnipossenti fulminarmi sul punto, se io vi dico menzogna. La madre che
Zerduste accusa, si ritenne dallo assalire incontanente le mura di Barsipa, che
non sono già di bronzo, come voi pensate, o ribelli; si ritenne, dico, dallo
incenerirvi nel vostro ultimo covo, per tema di arrecar morte allo stolto
adolescente, che crede di regnare su voi, perché ha ferito il cuor di sua
madre. Orvia, cittadini di Babilu, e voi ministri dei santissimi Numi, tornate
in voi medesimi, non perseverate nella via dell'errore, su cui vi ha trascinato
il malveggente di Bakdi. Io non aggiungerò le minacce, poiché la regina non
n'ha profferite. Vi dirò solo che l'esercito farà il debito suo, e, rotti
finalmente gl'indugi, non darà tregua, o quartiere.
- No, nulla! nulla! Sarà fuoco e
sterminio! - gridarono i capi dell'esercito, facendo eco terribile alle parole
di Faleg. - Possente signora, le nostre spade son tue! -
Un gesto di Semiramide ringraziò
quei valorosi; un suo accento, uno sguardo, un raggio di contentezza
ineffabile, aveva già ringraziato il buon Faleg delle sue generose parole.
Negli animi dei ribelli erasi
infiltrata una grande incertezza. Sentivano di non aver buone ragioni da
opporre, e quel nobile ardore incominciava a soggiogarli. Più di tutti già
vacillavano ne' primi propositi gli anziani della città, dalle cui risoluzioni
pendevano oramai le sorti della grande contesa. Ma il vecchio Abdenago, cui
rafforzavano i consigli di Zerduste e la stessa sua condizione di orator dei
ribelli faceva ostinato, fu pronto a ravviare i compagni.
- Intendo, - diss'egli, - e non
so darvi biasimo di questo nobile ardore. Egli è giusto che se dal colloquio
nostro non deriva alcun frutto, la lotta ripigli più accanita che mai. Ma egli
è da por mente altresì, e tu già non ne dubiti, o clemente signora, che la
vittoria arriderà a quella tra le due parti che abbia il popolo babilonese per
sé. Io vo' concedere, - e così dicendo la voce di Abdenago s'era fatta più
umile, carezzevole quasi, - che Babilu, messa al punto di scegliere a quale
delle due parti accostarsi, non dimenticherebbe i dolci vincoli dell'antica
obbedienza e la grandezza dei tuoi benefìzi. Questa città non t'odia, checché
sia avvenuto; ma ella vuol quiete, per medicare le sue acerbe ferite; vuol
sicurezza del futuro, quella sicurezza, che un giorno la condusse a scorgere in
te, sebbene straniera, la degna continuatrice dei fasti della casa di Nemrod;
quella sicurezza che il triste eccidio di Ajotzor e un più recente spettacolo
d'ingiustizia, hanno miseramente distrutta. Ella dunque ti tornerà fedele,
onorerà i tuoi comandi, sorreggerà il fianco della tua autorità regale, a patto
che i suoi timori siano dissipati e l'ombre de' suoi morti non siano offese più
oltre dalla incolumità di quell'uomo che cagionò tanti lutti alla terra di
Sennaar. A noi testè il valoroso Faleg minacciò la pena dei nostri trascorsi; né
delle minacce gli anziani si dolgono; essi che accetteranno umilmente, dal
volere degli Dei, premio o castigo, secondo che i celesti arridano, o si
mostrino avversi, alle armi di Ninia. Ma tu, o regina, se giusta sei col tuo
popolo, se non odii la casa di Nemrod, se onori gli Dei che noi tutti adoriamo,
devi con atti aperti e sinceri, mostrarti degna del patrocinio celeste....
- Al fine! al fine! - gridò
Semiramide impaziente.
- Ci vengo: - ripigliò Abdenago.
- Sia uguale la tua misura per tutti. Cada, per tuo comando, colui che fu
cagione del danno. Sconti il malka delle montagne la pena della sua funesta
ribellione. Sia dato al patibolo dinanzi alle porte della tua reggia, cosicché
dalle due rive dell'Eufrate il popolo delle quattro favelle lo veda espiare il
suo tradimento e le lagrime che ci costa; e lo sdegno del popolo sarà placato
allora (ma bada, allora soltanto) da un atto di solenne, quantunque tarda,
giustizia.
- E quello degli Dei sarà placato
del pari! - soggiunse il saccanàco, levando in atto di giuramento la destra.
- Sì, muoia l'Armeno, e tornerai
la regina degli Accad! - incalzarono i grandi del regno. - Giustizia per tutti!
Troppo sangue di Babilonia si è sparso; ne porti la pena il primo e il più
grande ribelle! -
Il nuovo accorgimento di Abdenago
sconcertava i prudenti disegni di Faleg. Nato anch'egli nel Sennaar, imbevuto
di tutta la ingenita superbia della schiatta cussita, Faleg non poteva per
fermo vedere di buon occhio l'Armeno. Ma in lui era forte la gratitudine e
profondo l'ossequio per la regina. Ora la lentezza di lei a punire il nemico,
la bieca ostinazione dei ribelli nel volerlo morto, gli dicevano chiaramente
che il leggiadro malka delle montagne era già perdonato nel cuore di Semiramide
e che ella lo avrebbe conteso con ogni sua possa alle feroci vendette che
instigava Zerduste. Tra l'avversione dell'animo suo e il debito della
gratitudine, tra le pretensioni dei ribelli e gli indovinati impulsi del cuore
di lei, non era dubbia la scelta di Faleg. Ma come opporsi efficacemente alle
bieche proposte, che al cospetto degli astanti si ammantavano di tanta
giustizia? Gli stessi capi dell'esercito, amici e compagni suoi, che non
vedevano così addentro com'egli ne' fini riposti di Abdenago e negli
struggimenti arcani d'un cuore di donna, facevano buon viso alla domanda, e il
loro spiare ansiosi e muti la risposta di Semiramide, avrebbe chiarito ad occhi
meno accorti de' suoi, da qual parte pendessero i loro consigli. Invero, poiché
tutta la resistenza dei ribelli si restringeva in quel punto, i capi
dell'esercito pensavano che ad assai lieve prezzo si comprava la pace, e non
dubitavano che la regina fosse per accettare un partito, in cui la giustizia e
la dignità sua erano salve del pari.
Avvenne da ciò che Faleg,
cercando invano tra sé come venire in aiuto alla regina, si rimanesse alquanto
sospeso. E gli altri solleciti a trar profitto dal suo silenzio, incalzando
negl'insidiosi parlari. Con quell'atto di giustizia che si chiedeva a
Semiramide, era tolto ogni appiglio ad oltraggiosi sospetti, ogni argomento a
paure degli uni, a perfidie degli altri. La pena inflitta all'Armeno era
l'ostia propiziatoria ai celesti, era il messaggio di pace, il patto della
nuova alleanza tra la regina ed il popolo delle quattro favelle. Ninia sarebbe
tornato alla prima umiltà; Zerduste, poi, bastava cacciarlo fuor del reame,
colla sua vita comprando l'obbedienza dei Medi sollevati. Qual più largo
trionfo per lei, se per ottenerlo non occorreva spargere pur una goccia di
sangue? La pace restituita ad un tratto; i guerrieri d'una medesima patria non
più costretti a combattersi l'un l'altro, a incrudelire ne' padri e fratelli
loro; gli orrori di una guerra civile, gl'incendi, le stragi, i lutti,
risparmiati alla città diletta, che era costata tanti anni di amorose fatiche;
la gratitudine immensa d'un popolo salvato; nulla fu pretermesso dagli accorti
avversarii, in ciò facilmente seguiti, sostenuti, oltrepassati dallo zelo degli
amici malcauti, che facevano a gara per dar nella pania dei fallaci consigli.
Semiramide non rispose parola.
Aveva impallidito all'audace dimanda; in quella condizione di pace gittata là
come la cosa più ragionevole del mondo, tanto più ragionevole allora, che il
costume di guerra non faceva sacra la vita dei prigionieri, aveva ella ravvisato
il colpo maestro del suo implacabil nemico. Ah, egli non era dunque per la
esaltazione di Ninia, che si adoperava l'astuto? Quell'ignaro fanciullo non era
che uno strumento, un'arma brandita contro di lei, un'arma che si gittava, dopo
averla adoperata a ferire! Non era più sete di regno che contrastava il poter
suo; era una vendetta che cercava il cuor della donna, una vendetta tanto più
sottilmente feroce, in quanto che nessuno di quella moltitudine di nemici e di
fautori, poteva averla per tale. Zerduste, infatti, per la proposta degli
anziani, non giungeva egli a far sacrifizio di sé? Accettava l'umiliazione e
l'esilio; si dava inerme in preda allo sdegno di Semiramide, che bene avrebbe
potuto, appena sedata la rivolta e ristabilita la sua autorità, cercarlo
dovunque egli fosse e farlo inesorabilmente morire. Chi, ciò pensando, avrebbe
sospettato della magnanimità di Zerduste? Quella sua volontaria caduta era il
sommo della ipocrisia; quel suo consiglio di finire ogni cosa colla morte del
re d'Armenia, era la stretta fatale in cui la regina, o la donna, doveva
certamente soccombere. E si sentì perduta, allora, e rimase più atterrita a
gran pezza, che non fosse stata prima, all'udire d'ogni altro suo danno.
Ben le restava uno scampo; la
guerra disperata, la sorte dell'armi. Ma questa, che fallacissima era, non
poteva farla altresì micidiale nel sangue di Ninia? E poi, a che proseguire la
lotta? Era ella tanto desiderosa di regnare, temuta, non amata più dal suo
popolo, odiata, non creduta dall'uomo, per cui aveva messa a repentaglio la sua
possanza e la fama? V'hanno istanti supremi, in cui le anime più salde sentono
il fastidio della lor medesima forza, dovuta usare in troppo vili contese; e
allora dalla inerzia, che si offre noncurante ai colpi nemici, spira assai più
sublime grandezza, che non dall'ardore crescente, dalla terribilità della
pugna.
Così smarrita, la regina volse a
Faleg uno sguardo di suprema tristezza. Lo intese il fedele guerriero, che incontanente
si fece a salire i gradini del trono e si curvò sul ginocchio, per udire i
regali comandi. Ma egli non era già più un comando quello che Faleg doveva
udire dal labbro di Semiramide.
- Tu lo vedi, o Faleg; - sussurrò
la regina con malinconico accento. - Tutto è perduto oramai.
- Signora! - rispose sommesso il
guerriero, e il cenno del capo significò tutto quello che il labbro taceva.
- Or ora, - proseguì la regina, -
udranno che Semiramide non accetta le loro condizioni. Potrei forse?...
- T’intendo! - interruppe Faleg,
notando il rossore subitaneo che imporporava le guance della regina. - Ma
perché dir loro il tuo proposito fin d’ora? Tempo ti resta a pensare.
- Ho pensato; - soggiunse ella; -
perché tacerei?
- Perché eglino, i tuoi nemici,
che stanno aspettando un forse preveduto diniego, rimangano ancora crucciosi
nella loro incertezza. Pensa, o regina, al giubilo che sentiranno, alle ire che
non si periteranno di rinfiammare prontamente nel popolo, e consentimi di
risponder loro per te. -
La regina assentì con un gesto
lievissimo, e Faleg allora, vòltosi da’ piedi del trono ai congregati, parlò:
- Cittadini di Babilu, Casdim
venerati, e voi tutti seguaci delle fortune di Ninia, che mettete condizioni al
ritorno nell'antica obbedienza per la regina degli Accad, oramai la nostra possente
signora vi ha udito. Altro vi resta da aggiungere?
- No; - risposero i grandi
rifuggiti in Barsipa; muoia l’Armeno, e l’autorità di Semiramide non avrà più
fidi sostegni di noi.
- Se gli Dei non sono placati, -
soggiunsero i Casdim, - Ninia regnerà in sua vece. Così viva egli in perpetuo!
-E noi, - gridarono gli anziani,
- aspetteremo che il signor delle sorti ci mostri a cui dovremo obbedire. Ninia
è il re consacrato, e i soccorsi di Media non sono lontani.
- Sta bene; - replicò Faleg, con
voce impressa di guerresca baldanza; - li vedremo noi primi, i vostri soccorsi
di Media... se la regina vorrà. Andate, frattanto; la possente signora degli
Accad, cui Belo ha concesso l'impero dello scettro e la vittoria della spada,
si raccoglierà nella solitudine de’ suoi alti pensieri, mediterà le proposte,
chiederà lume d’inspirazione a Nebo, al veggente consigliero dei re. La tregua
spira domani; prima che il raggio di Sam si specchi nei sette colori della gran
torre di Barsipa, i ministri della reggia vi annunzieranno ciò che la regina
avrà risoluto di fare. -
Il parlamento ebbe fine con
queste oscure parole di Faleg. Taciturni, dubbiosi, uscirono i congregati dalla
sala di Nemrod. Invero, essi erano inquieti a ragione. Il silenzio della regina
somigliava troppo a quella cupa tranquillità di natura, che precede lo scoppio
della tempesta.
Come furono partiti, anche
Semiramide si ritrasse nelle sue stanze.
- Ah, Faleg! - diss’ella al
guerriero. - È finita; io non lo ucciderò! Egli è un fellone e un ingrato; ma
se io lo odiassi, avrei forse atteso i consigli del volgo ribelle? E adesso,
io, regina degli Accad, dovrei piegarmi per avventura ai comandi?
- Certo, non lo sperano essi! -
rispose Faleg. - Le armi adunque scioglieranno la contesa; e meglio per noi se
ciò avvenga domani.
- No; né domani, né poi! -
esclamò Semiramide. Faleg la guardò trasognato; e v’ebbe un istante che egli
temè non aver bene udito, o aver la regina male inteso la sua proposta;
l’ultima, a parer suo, che recasse un costrutto.
- Né cedere, né combattere! -
sclamò egli poscia. - Che dunque faremo?
- Nulla! - rispose la regina,
levando in alto la fronte e chiudendo gli occhi in atto di raccoglimento
solenne. - Domani sarà avvenuta tal cosa, che sciolga il nodo per sempre.
- Ah! - proruppe il guerriero,
impallidendo. - E vorresti....
- Non mi dir nulla! Spesso han
d'uopo dell'altrui consiglio i regnanti; ma v'hanno giorni, ore supreme, in cui
non è dato pigliarne, fuorché dalle voci arcane dell’anima. Tu, se mi ami e
rammenti....
- I tuoi benefizii, o regina?
Come potrei averli dimenticati, io che ripeto da te ciò che sono, io oscuro
figlio del borgo di Susqueanna, io innalzato da te ai primi gradi della milizia
del regno? E come suddito e come servo di gratitudine, son tuo; la mia vita ti
appartiene, fanne ciò che più ti talenta.
- Grazie, buon Faleg! - ripigliò
Semiramide, crollando mestamente il capo. - Dedicare la vita dei nostri servi
ed amici ad utili imprese non è più dato oramai; né alcuna io vorrei sacrificarne,
per consolare una stolta vanità colla pompa d’una rumorosa caduta. Tu sei
libero, o Faleg; nessun vincolo d’obbedienza ti lega più alla regina; soltanto
al fedele servitore, al costante amico, Semiramide chiede oggi un servizio.
- Parla! - diss'egli commosso. -
Ogni tuo desiderio sarà legge per me.
- Esci di Babilonia, e sia teco
una scorta d’uomini, quanti reputerai bisognevoli, ma scelti tra i più fedeli e
i migliori de’ tuoi. Si tratta di campare un uomo da morte; - aggiunse ella con
imperioso e rapido accento; - la salvezza di quest’uomo è l’ultima volontà
della regina degli Accad. Vanne dunque subito a lui.... m'intendi? a lui! Per
le segrete scale che conducono al gran sotterraneo, guidalo fuori di Imugur
Bel. Se alcuno dei cittadini lo ravvisasse, potrebbe aizzare contro lui la
rabbia d'una moltitudine forsennata. Ciò devi ad ogni costo evitare....
- E impedire, fino all'ultima
stilla del nostro sangue! - soggiunse Faleg. - Non dubitare! Sacro per te, il
re d’Armenia è sacro per ogni tuo servitore.
- Sta bene; - ripigliò Semiramide
- Travestito, o celato in quel modo migliore che a te consiglierà la prudenza,
lo condurrai per la via di Gomer, sulla sinistra dell'Eufrate, fino alle contrade
di Assur. Meglio sarebbe che tu potessi accompagnarlo fin oltre il paese di
Nahiri....
- Ed anco al passo di Lukdi! -
interruppe Faleg sollecito, andando incontro ai voti della regina. - Non mi
dire di più; la vita sua sarà salva. –
Semiramide si accostò ad uno stipo
d'ebano, riccamente scolpito, e ornato di bei fregi d'argento.
- Prendi; - ella disse; - qui son
gemme d'altissimo pregio. Sia tutto tuo, quanto potrai recare con te. Eccoti
ancora; questo è il mio suggello regale; forse, lunge dalla città che reca l’impronta
de’ miei benefizi, la sua autorità sarà ancora onorata, ed esso potrà in alcun
tuo bisogno giovarti. Ed ora, o Faleg, giurami che tutto farai giusta il mio
desiderio; giurami che condurrai salvo il prigioniero fuor della terra di
Sennaar, né lascerai di custodirlo fino a tanto egli non sia lontano da ogni
pericolo.
- Pe’ sommi Dei te lo giuro! Mi
colga lo sdegno di Auv; mi faccia Nergai il più codardo e il più dispregevole
dei guerrieri di Babilu; gli spirti d’abisso m'involgano nelle tenebre eterne,
se a questo nobile ufficio io non consacrerò le forze tutte dell’animo, la
virtù del braccio e la vita. Ma tu, frattanto, o regina?....
- Io? Non temere, - gridò
Semiramide, con aria di serena baldanza; - io mi sottrarrò, checché avvenga,
alle insidie dei tristi. Son figlia a Derceto; nol rammenti tu forse? Il giorno
che a me non resti più luogo sulla terra, le sacre colombe della materna Dea mi
rapiranno a volo pe’cieli. Statti di buon’animo, o Faleg; va, e pensa a ciò che
m’hai giurato di fare. –
Il forte animo di Faleg veniva
meno per tenerezza e sgomento. Il fedele servitore, condotto a quel punto
supremo, non sapeva darsi pace; vedeva di non poter più rimanere, e tuttavia
non gli bastava il cuore a spiccarsi di là. Semiramide gli sporse la mano; egli
cadde in ginocchio, l'afferrò tra le sue, la baciò ripetutamente, la inumidì
colle sue lagrime; indi, tutto vergognoso della sua debolezza, coll'anima
infranta, senza pure alzar gli occhi a guardare la sua venerata signora, a
passi concitati si allontanò dalla stanza.
La regina rimase immobile a
lungo, attonita, smemorata, come chi, perduta ogni speranza, o desiderio della
terra, più non abbia un concetto in cui riposare la mente. Gli occhi suoi
inconsapevoli si erano rivolti al cielo sereno, che si scorgeva per mezzo alle
colonne di un ampio loggiato. Il sole volgeva al tramonto; e le torri, le
cupole, i terrazzi di Babilonia, si tingevano in colore di fiamma viva ai raggi
obliqui dell'astro morente. Offriva un meraviglioso spettacolo, quell'aureola
di fuoco, entro a cui s'involgeva Babilonia, come una regina nel suo manto di
porpora. Ahimè! quanti pensieri senza fine dolorosi doveva risvegliare
nell’animo della gran vedova di Nino, quella gloria della sua città prediletta!
Il possente raggio di Sam, innanzi di sparire dietro le arene del lontano
deserto, innanzi di nascondersi per sempre allo sguardo di lei, vagheggiava le
vaste mura che ella aveva innalzate, salutava i pinnacoli dei suoi templi e
delle sue moli superbe, glorificava al cospetto dei cieli, esaltava l'opera
sua.
Ed ella intanto si spegneva nella
sua solitudine, la dolente regina! Quel maestoso splendore si sarebbe diffuso
il giorno vegnente sulle mura dilette; ma ella non le avrebbe più contemplate;
e Babilonia, e il popolo degli Accad, e il figlio, ingrati tutti ad un modo,
avrebbero dimenticata la gloriosa fondatrice, la regina, la madre!
A poco a poco le alte gradinate
dei templi, i terrazzi e le casupole si venivano ascondendo nell’ombra. Un
vasto semicerchio di fuoco, simile a vampa d’incendio lontano, radiava
nell’orizzonte, faceva uno sfondo rossastro alle negre torri di Barsipa.
– Deh! – esclamò la regina,
seguendo cogli occhi quella gloria morente. – Come tu volgi precipitoso al
tramonto, astro superbo, che rallegravi il mondo della tua luce! –
E di sé, non dell’astro, pensava
ella in quel punto. Umane grandezze, splendidi sogni, sconfinate ambizioni,
gloria, potenza, amore.... ah sì, questo d’ogni altra cosa più prezioso a
grandezza! questo era il grande, l'irreparabile eccidio; tutto l’altro era
nulla. E forse, in quel mentre, il re d’Armenia, lieto della ricuperata
libertà, non memore di lei che per l'odio, s'affrettava sulle orme di Faleg.
Ingrato! Ah, la sconoscesse il popolo, la tradissero i grandi del suo regno,
dimenticassero tutti le sue gesta, i suoi benefizi; che poteva importarle di
ciò? Ma egli! l’uomo che era caduto ebbro d’amore ai suoi piedi, che colle
infiammate parole, coi giuramenti solenni, aveva strappato dalle sue trepide
labbra una confessione, dal suo seno palpitante i santi veli del moribondo
pudore! l'uomo che ella aveva amato, pur combattendolo, che aveva sperato
vedersi un'altra volta a’ piedi, vinto, più ancora che dalle sue armi, dalla
certezza della sua innocenza! No, ella non avrebbe creduto mai possibile una
ingratitudine sì nera. E per quella sua stolta fede, non già per le arti di
Zerduste, non già per la ribellione di Ninia, non già pel traviamento del suo
popolo, ella si disponeva alla morte. Ingrato, sì, ingrato e codardo! La
gentilezza dell’affetto, la magnanimità, la costanza, la fede, e infine tutto
quanto è di bello e di nobile nel fango umano, tutto si rifugiava, e per
morire, in un povero cuore di donna.
Eppure!... eppure ella aveva
sperato fino all’ultimo istante. Le pareva enorme cosa, inaudita vergogna,
immeritato oltraggio de’ cieli, essersi imbattuta nell'uomo più sleale e più
vituperoso del mondo. Ma ohimè! così era per lei; così avviene pur troppo per
tutti; ai vili le più alte venture; ai nobili cuori le più atroci amarezze, i
disinganni, le onte più gravi. E in questo pensiero, peggior d’ogni morte, si
prostrò, si rinchiuse lo spirito di Semiramide, che là, di rincontro alla luce
del sole morente, pareva, non più donna viva, simulacro di pietra.
In quel mentre un passo
frettoloso si udì nella camera. Hurki si fece innanzi alla regina.
– Potente signora.... – diss'egli
peritoso.
– Che è? – dimandò la regina,
destandosi repentinamente da quel suo doloroso torpore.
– Un uomo chiede parlarti.
– Il suo nome? – proruppe ella, a
cui il cuore avea dato un sobbalzo.
– Regina, te ne prego, non ti
turbi l’annunzio; – soggiunse l’eunuco, che era lungi dallo argomentare la
cagione di quell’ansia subitanea; – è il principe di Bakdi, che dimanda di
essere introdotto alla tua sacra presenza. –
La vista improvvisa d’un serpe
cui lo sbadato viandante abbia molestato ne’ suoi meridiani riposi, non arrecò
mai così fiero turbamento, come quello che sentì la regina, all'udire quel nome
e la richiesta inattesa.
– Zerduste! – esclamò, quasi
sperando di avere male inteso.
– Sì, egli stesso, o regina. Egli
viene sulla fede sacra della tregua, che spira domani. Conduce seco una scorta
numerosa; ma solo ed inerme entrerà al tuo cospetto. Gravi cose lo spingono a
questo passo; né egli si allontanerà, fino a tanto non ti degni ascoltarlo. –
Semiramide stette alquanto
perplessa, combattuta da sdegno, da ripugnanza e stupore.– Che vuole costui? –
diceva ella tra sé. – Ah, certo, un nuovo tradimento egli medita; un nuovo
colpo si prepara a ferire. Riposa sulla fede della tregua, il malvagio! E l’ha
tenuta egli forse, la fede giurata alla regina degli Accad? Ha egli risposto
lealmente alla sincera fidanza della nostra amicizia? Alta sapienza dei tristi!
Credono essi alla virtù che non hanno, fondano i loro perversi disegni, tendono
le insidie scellerate, sulla magnanimità delle vittime loro. E mi conoscono
bene addentro, costoro! Mi sanno generosa, gl’infami! Esser diversa da loro,
com’è diversa la luce dall’orror delle tenebre, ecco il vantaggio che mi resta
sovr'essi; ed ecco altresì l'arcana ragione della loro vittoria. Oh, perché non
sarei io malvagia un istante, un solo istante com’essi? –
Così pensando, la regina non
aveva più posto mente alla presenza e alla aspettazione di Hurki.
– Che debbo io dirgli, mia
clemente signora?– si fece egli allora a domandarle.
– Che io ricuso di vederlo; –
rispose la regina.
– Ma pensa.... – balbettò egli
inchinandosi. – Forse da, questo colloquio potrebbe dipendere....
– Che cosa? – tuonò Semiramide. –
Che cosa potrebbe egli dire, che a me fosse grato ascoltare da lui?
– Non so; – disse di rimando, e
con umilissimo accento, l’eunuco, – Di te mi preme e della tua gloria, o
signora. È un nemico che chiede parlarti.... è il maestro e il custode di
Ninia.... –
E non ardì proseguire. Ma il nome
di Ninia aveva toccato un’intima fibra del cuore materno. Stette ella alquanto
sopra di sé; indi, scuotendo il capo, come chi, veduti i pericoli e le molestie
a cui va incontro, ha tuttavia pigliata la sua risoluzione, si volse ad Hurki e
gli disse:
– Venga il malvagio; lo udrò. –
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