Indi a pochi istanti, comparve
sulla soglia Zerduste. Pallido in volto più dell'usato, scintillanti gli occhi
profondi sotto il grand'arco delle sopracciglia d’ebano, chiuso nella sua tunica
nera, frangiata d’oro sui lembi, bello di quella sua marmorea bellezza, cui
faceva più austera il rannuvolato sembiante, sembrava egli il destino, venuto
colà per dire alla sua vittima: la tua ora è suonata!
S'inchinò, ma, contegnoso e
superbo. L’atto era d’ossequio; ma ben altro diceva lo sguardo.
A quella vista sentì la regina
riardere il sangue per tutte le vene. Era là, le stava dinanzi il suo mortale
nemico, l'uomo che forse più non aveva a temer la sua collera, ma che
certamente non poteva sperare perdono da lei. Pallida, ansante, fremebonda per
l’ira a stento repressa, ella si era seduta sul rilevato suo scanno, chiedendo
al riposo delle membra quell’apparenza di forza che le era negata dall'interno
tumulto.
Egli v'ebbe un momento di paura
tra i due, e in quel muto intervallo si guardarono a lungo, si scrutarono a
vicenda; il principe di Bakdi tentando di legger nell’animo di lei, per
misurare le sue parole allo sdegno di cui la vedesse compresa; ella cercando
d’intendere qual causa lo avesse condotto; ambedue più turbati nell'animo, che
non apparisse al sembiante.
La regina fu prima a parlare.
– Sii breve! – diss'ella
asciuttamente a Zerduste.
– Non potrei; – rispose
quell'altro. – Tu m’odii, ed io non voglio essere odiato da te. –
Semiramide lo guardò, tra
corrucciata e stupita.
– Non t’odio; – soggiunse ella
poscia, con accento che egli non durò fatica ad intendere.
Diffatti, in quella che
ricacciava nel profondo del cuore un moto istintivo di rabbia, egli subitamente
ripigliò:
– E disprezzarmi non devi! –
Un sorriso d’amara ironia tese le
labbra di Semiramide, e, come freccia sibilante dall'arco, volò la parola a
saettare l'impronto nemico.
– Perché, Zerduste, perché? Non
sei tu forse il più malvagio tra gli uomini? V'ha egli per avventura tra gli
spiriti d'abisso un'anima più invereconda e più nera? Parlerò a te, principe di
Bakdi, come si parla ad un uomo che tutto agogna e da nulla rifugge, che molto
presume di sé, e la cara virtù, la santa fede, la gentile alterezza dell'animo,
non riconosce e non pregia se non per farne sgabello alle sue scellerate
ambizioni. Quanto più alto ti ripromettevi di salire nella stima del mondo,
tanto più in basso sei sceso, simile al verme che striscia nell’immondo
terreno, e invidia l’aquila levata a volo pe’ cieli, che sdegna, onestamente
altera, di farne suo pasto. Invero, qual è la mia colpa a’ tuoi occhi? Principe
di nobil sangue, non regnatore di Media, t’ho io forse rapito il trono, o la
speranza di ascendervi? No; fu Nino, l’invasore della tua patria; né io
regnavo, quando, per ardimento mio, ma coll’armi di Babilonia, la tua Bakdi fu
presa. L’eccidio del vostro regno poteva essere indugiato, non impedito per
fermo; la conquista della Media e del mondo era opera fatale, serbata alla
progenie di Cus. Non io, dunque, non io veramente, t'ho offeso; non io ti ho
tolto la libertà, le speranze, la patria. Ben io, vedova di Nino, desiderosa di
dare al nuovo ed accresciuto impero testimonianza solenne di giustizia e di
amore, non tiranna, ma reggitrice e madre di tutte le genti chiamate a parte
del glorioso nome degli Accad, ben io t'ho scorto nel tuo umile stato, t’ho
fatto grande ben io; ne’ miei consigli t'ho accolto; la tua sapienza ho
onorato; il figliuol mio t’ho dato in custodia. Fu errore, ma io sola posso darmene
biasimo, non tu farmene colpa. In che t’ho io recato danno? In che ho io
tralasciato di giovarti? E non dovrei ora coprirti del mio disprezzo, traditore
codardo, che hai abusato della mia fede, aspide velenoso, che non ardivi
assalirmi all’aperto e m’hai morso al piede, m’hai ferito nell'ombra? Vedi,
d'una cosa sola mi duole, ed è questa: che la potenza del mio disprezzo non
agguagli la malvagità delle opere tue. –
Accigliato, fremente, stette ad
udirla Zerduste. Le parole di Semiramide irata sibilavano a guisa di flagelli,
lo percuotevano in volto; ma vampa di rossore non gli corse alle guancie; e la
contegnosa rigidezza del sembiante marmoreo custodì il segreto degl’interni
sussulti. La udì, senza torcere pure un istante lo sguardo da lei; e come si avvide
ch’ella era giunta al termine della sua invettiva, così prese tranquillo a
rispondere:
– Una cosa vera hai tu detto
nell’ira, o regina; e di questa sola io vo’ far conto per ora. No, né per la
patria umiliata, né per la delusa speranza di regno, poteva odiarti Zerduste.
La patria è vana parola, per uso del volgo, nato a servir sempre, qualunque
sieno i confini alla sua stirpe assegnati. Chi regna ha la sua patria nel
trono; chi ha vasti disegni, eccelse imprese da compiere, ha la sua patria
dovunque. Il fulmine, il raggio di sole, non prediligono questa, o quella
parte, del firmamento azzurro. Quello si sprigiona dalla volta celeste e guizza
per quanto è lunga la via dalle nuvole al suolo; questo dardeggia e risplende
dall’orto all'occaso. Che sarebbe stato il regno di Media per la ma ambizione?
Ben altro regno io vagheggiai col pensiero; ben altro regno io chiesi alla
sorte, nella lunga agonia de’ vani desiderii, che m'hanno contristato lo
spirito. Né posso oggi allegrarmi di questa grande vittoria, che ad altri parrà
il colmo d'ogni fortuna nel mondo. Avrò Babilonia in poter mio e tutta la terra
del Sennaar; non ciò che agognavo, non ciò che mi ha stimolato all’impresa.
Godi a tua volta, trionfa di me, o figlia di Derceto, o espugnatrice di Bakdi;
io t'ho amato, ho sperato, e ne porto oggi la pena. –
Le labbra di Semiramide si
atteggiarono ad un sarcastico riso, che mal dissimulava il profondo fastidio
dell’anima,
– Di ciò volevi parlarmi? –
diss’ella.
– Ah non temere! – ripigliò
prontamente Zerduste. – Io non ti stancherò de’ miei gemiti, non ti bisbig1iero
melate parole, così dolci ad udirsi tra i salici, alla tacita luce degli astri,
allo spirar della brezza notturna in riva all’Eufrate. È sfogo d’immenso
dolore, il mio, non preghiera di labbro soave, che dissimuli il tradimento
meditato e prepari le tarde vergogne. Dicevi poc’anzi di Bakdi....Orbene, colà
un uomo ti vide la prima volta; e ancora non eri la sposa di Nino. Sulle mura
combattute vide egli apparire l’audacissima donna, col ferro in pugno, le neve
chiome diffuse in larghe anella, fuori del lucido elmetto, acceso il sembiante,
rigate le guance di nobil sudore, sfavillanti i grandi occhi di guerresca
baldanza, bella più assai, più sfolgorante a’ suoi occhi, che non dovesse
apparirgli più tardi, nello splendor d’una reggia, mollemente vestita di bisso,
ornata di gemme, all’ombra de’ suoi pensili orti, in mezzo ad uno stuolo
d’ancelle e di servi devoti. La contemplò con desiderio infinito, e disse tra
sé: Ahura, potentissimo signore del mondo, io darei la mia vita, la mia fama, e
ogni altra cosa più cara, purché fosse mia quella donna! Nemica era; egli
armato in difesa delle sue mura; poteva scagliarsi su lei, ucciderla di un
colpo, e nol fece....
– Meglio sarebbe stato ferirla
allora con l’arma dei prodi, – interruppe Semiramide, – che combatterla poscia,
aggirarla colle insidie, trarla a rovina con le arti dei vili. –
Chinò la fronte Zerduste e
prosegui, con accento d’amarezza profonda:
- Così avess'egli preveduti gli
affanni che gli dovevano essere derivati da lei! Ma allora, dimentico della sua
terra, delle speranze perdute, degli ostacoli insuperabili, dei danni futuri,
amò la cattività che lo avvicinava a costei. Pochi giorni di poi, ella era
sposa di Nino; egli dolente prigioniero in Babilonia. E l’amor suo crebbe tanto
più forte, quanto più solitario e nascosto. Vegliava sulle tavole dei Casdim,
le raffrontava colle dottrine de’ loro savi, meditava di purificare il culto
dell’unico Iddio dalle rozze idolatrie della stirpe di Cus; e non si sostentava
nell'aspra fatica, non si nutriva egli che di quel suo amor dissennato. Perché
non lasciarlo nell’oscurità della sua prigionia? Perché dargli inaspettata
grandezza e rinfiammare nel cuor suo le audaci speranze? Regina degli Accad,
vedi in ciò l’opera tua. Mentre egli ti chiedeva disperato al suo Dio, e la
morte improvvisa di Nino gli pareva una prima grazia a lui concessa dal cielo,
perché hai tu mostrato avvederti di lui? perché l’hai tu chiamato alla tua
presenza, onorato del tuo favore, accolto nei tuoi regali consigli? Fatto
vicino a te, conscio della sua forza, sperò, e sperando tentò di piacerti, ardì
concepire il più eccelso disegno. Ma tu non lo amasti; il tuo cuore fu muto a
lui; non t’avvedesti, o fingevi. E finse egli pure; ricacciò nel profondo la
parola che inutile e spregiata doveva morirgli sul labbro; accresciuto di
potenza, non consolato d’affetto, si piantò custode inavvertito della tua
desiderata bellezza, vigile nemico di quanti s’appressavano a te, di quanti
temè potessero un giorno accenderti in seno la maledetta fiamma d’amore. Voleva
egli che tutto fosse silenzio e vuoto intorno a te; nessun altro doveva
ottenere ciò che a lui era negato. Così vigila il drago i tesori che non sono
per esso, e vampe di morte gli sprizzano dalle fauci rabbiose.
– Io lo ravviso nella fedelissima
effigie! – notò la regina, con acerbo sarcasmo.
– Ridi ancora per poco; – disse
di rimando Zerduste, senza punto scomporsi. – Parecchi scontarono colla morte
la colpa di aver desiderato e sperato. Un d’essi, il più audace, a cui gl’inni
sgorgavano dalle rosee labbra, troppo più infiammati che non si convenisse alla
riverenza del suddito, s'argomentava di giungere fino a te, chiamato ne’
silenzi della notte da un messaggero discreto; già nella cupida mente
assaporava le dolcezze ineffabili d’un amoroso colloquio; ma un abisso di
repente si schiuse a’ suoi piedi e gli ardori dell’incauto si estinguevano
insieme colla vita, nei gorghi profondi del fiume. Lo so ben io; tu non amavi
costui, tu ignoravi ogni cosa; ma egli amava te, egli era leggiadro, poteva un
giorno piacere a’ tuoi occhi; così mutevole e pronta negli affetti è la donna!
Zerduste vegliava; egli era forte e prudente. I tuoi nemici furono gli amici
suoi; fu egli che affratellò, congiunse in un odio solo tante collere sparse,
diede un capo, una mente, a migliaia di braccia levate a maledizioni impossenti
contro la regnatrice del mondo. Raccolte nel suo valido pugno le fila di una
vasta congiura, tutte poteva egli deporle a’ tuoi piedi, sgominare i tenebrosi
assalti, distruggere nel silenzio i tuoi nemici, se tu gli fossi stata più
umana; volgerli contro di te, colpirti a sua posta, se tu avessi durato ne’
tuoi superbi dispregi. E tu, frattanto, o regina? Contegnosa ed austera, gli
troncavi a mezzo ogni parola che timidamente accennasse alla sua devozione per
te. Le cure del regno ti possedevano intiera; non d’altro ti davi pensiero;
doveva esser muto all’affetto il cuore della donna, che voleva esser signora e
madre d'un popolo. Così dicevi a Zerduste; ma una notte bastò per mutarti,
bastò una tenera parola per darti in braccio ad un altro. Ah, per lui dunque la
stima, per altri l’amore? Grave fallo, o regina! E sei donna, ed ignori che
l’uomo ha da essere tutto o nulla, per la donna che egli ama? Non io ti ho
tradito; bensì tu stessa ti sei condannata a’ miei colpi. Potevo soffrire ed
attendere; quella notte ha lacerato il mio cuor e.... Eri in mia mano; io mi
son vendicato. Il tuo primo amore ti costa un impero. –
In tal guisa parlò il principe di
Bakdi, per la prima volta scoprendo i tenebrosi recessi dell’anima. Faceva
stupore l’udirlo; più stupore eziandio il veder e quel suo calmo sembiante
atteggiarsi a tanta novità di passione, di asprezza feroce e di mestizia
profonda, di odio implacato e di ardente preghiera ad un tempo. Ed era pauroso
a vedersi, come un portento di trasformazione improvvisa; né più avrebbe
arrecato meraviglia e sgomento, se uno di que’ colossi alati, che raffiguravano
gli spiriti custodi della gente del Sennaar, avesse lampeggiato una torva
occhiata dalle pupille di smalto, e snodate le membra poderose dai vincoli
della pietra tenace.
Lo udì Semiramide, lo guatò
lungamente, e un senso di paura le ricercò le vie segrete del cuore. Ella era,
vissuta tanti anni d’accanto a quel mostro, né mai s'era avveduta
dell’imminente pericolo! Così siam noi spensierati, quando non abbiam ragione
di temere. E un giorno viene, che il nemico ci è sopra, egli che spia le
occasioni, e a noi più non è dato resistere. Fu atterrita, non sopraffatta, la
fortissima donna; e tosto riprese balia di sé stessa.
– Nobile affetto invero, – ella
disse, – e degno d’esser mostro alle genti, quello che accende tutti i più
malvagi istinti della umana natura!
– È amore, possente amore, che non
cercato c’investe e si fa in un punto signore di noi; – replicò prontamente
quell’altro. – A te lo chiedo, che il sai; si governa esso forse? e spregiato,
non divampa più forte? È fiamma; la sua natura è di ardere. Tu l’hai destata in
me; non ti lagnare, se ella s’è fatta a tuo danno un incendio.
– T’ho io mai dato lusinga, o
speranza? – dimandò la regina, con piglio severo.
– No, e di questo mi duole! –
rispose amaramente Zerduste. – Ah, fiero tormento, che tu tra tanti mali, non
hai provato, o Semiram! Sentirsi forte, vedersi grande, sapersi capace di
altissime imprese, e tuttavia desiderare invano un sorriso d’amore; per una
donna esser nulla, quando, per ogni altra creatura, e in faccia al destino, si
è tutto! Cede ogni ostacolo alla tua volontà, o la tua avvedutezza lo rimuove,
o la tua pazienza lo strugge; solo una donna ti resiste, e tu, che pieghi a tua
posta uomini e cose, ti rodi dentro te colla tua rabbia. Ella non t'ama; ella
ti deride, fa peggio ancora, non si cura, né s’avvede di te. E allora, o
Semiram, allora il più nobile affetto si corrompe, come, negletto nella coppa,
si corrompe e inasprisce il più generoso liquore. Fu un senso d’invidia
profonda e di desiderio deluso, che produsse il male e rese gli spiriti ribelli
all’Eterno. Ah, il forte, il costante amatore, l’uomo che tutte le virtù della
mente gagliarda avrebbe adoperate a comporti il trono più glorioso e più saldo,
si sprezza? E il primo garzone vanitoso che giunge, e ripete con labbro avvezzo
una soave parola, si accoglie con ansia, si ama, cedendo a lui come una vil
femminetta del volgo? Bada, o Semiram, io sono ambizioso, ma nol fui
nell’amarti. Non chiedevo di salir teco sul trono degli Accad; sarei rimasto
nella polve ai tuoi piedi, e patria, e speranza di regno, altari e tutto, avrei
dimenticato, per non avere altro culto che l’amore, altro pensiero fuor quello
della tua sfolgorante bellezza. Ed oggi ancora, io, fatto più forte dalla
vittoria, io signore de’ tuoi destini, io re di Babilonia tra breve, imperocché
il tuo Ninia non ha mano così ferma da impugnar virilmente lo scettro, io oggi
ti dico ancora: tutto può ripararsi. Amami, credi a questa fiamma divoratrice,
consola uno spirito afflitto! Per la mia potenza io te lo giuro, per la mia
stessa ambizione che non conosce confini: io, il principe di Bakdi, il leone di
Media, sarò il tuo umile schiavo. –
E, tratto dall'impeto della sua
furibonda passione, si prostrò l’acerbo Zerduste, si abbandonò contro i gradini
del soglio di Semiramide, così che la sua fronte sfiorò il piede di lei. Diede
ella un sobbalzo di raccapriccio, e si trasse indietro sollecita.
– Va, non mi tentare! – gridò. –
Che pensi di me? Di qual fango mi credi tu nata? Non amerà te, non ti ascolterà
più oltre, chi ha amato il re degli Armeni.
– Ara! – sclamò Zerduste, con
accento sdegnoso. – Ara che ti disprezza e ti fugge!
– Sì; e perché mi fugge? perché
mi disprezza egli? – tuonò la regina. – Non l’avete voi con arti tenebrose
ingannato, o santi della Triade? –
A quelle parole, in cui si
mostrava così intieramente scoverto il segreto delle sue macchinazioni, levò la
fronte Zerduste e rimase alcuni istanti stupefatto a guardarla.
– Ah! – notò egli poscia,
dissimulando in un ghigno l’interno dispetto. – Fiacco credevo, non traditore
Sumàti. A che dunque morire, precipitarsi disperato nelle acque salse di Van
(imperocché questo da parecchi giorni m’è noto), se tutto ti aveva egli
disvelato l’inganno? –
Così disse, nel colmo della sua
meraviglia, Zerduste, parendogli sciocca la loquacità di Sumàti, se era deliberato
di morire, e più sciocca la morte, dopo essersi disposto a parlare. Ma neppur
egli fu savio; quello il rimorso, lui faceva imprudente l’amore. E invero le
sue parole ebbero eco lì presso; un avido orecchio le accolse.
Intanto la regina a lui di rimando:
– Chiedilo all’ombra sua, tu che
evochi dal negro abisso gli spiriti e fai mentire gli estinti! – Ma già
Zerduste si era riavuto dal suo primo stupore. Ciò ch’egli sapeva del regal
prigioniero e della sua ira tenace, gli mostrava come fosse tornata inutile a
lei la loquacità dell’Indiano.
– Per altro, a che ti giova? –
proseguì egli, senza por mente al sarcasmo. – Ara è caduto in poter tuo; è tuo
prigione; e tu non hai potuto altrimenti mitigare quell’odio, che la Triade gli
ha così profondamente stillato nell’anima. Egli ti abborre e ti sfugge; questo
io so, senza mestieri di evocare uno spirito imbelle. Hai vinto il re, non
soggiogato l’amante; e Bared si è sottratto colla fuga al pericolo dei
tormenti, Sumàti colla morte alla vergogna della sua debolezza; né l’uno, né
l'altro furono al capezzale del risanato garzone, per dirgli che tu eri sempre
degna di lui, e che lo aveva ingannato il malvagio Zerduste. Che farai tu?
Morrai; me lo dice il tuo sguardo già disviato dalle miserie terrene. Ma bada;
non morrai come speri, da regina e da figlia di Dea; morrai dispregiata da lui,
non giustificata da coloro che tu volesti nemici. Pensa dunque, o Semiram; vedi
per chi tu muori, e perché. Ti amava egli davvero, un uomo che dubita di te,
che ti disprezza, solo perché un'ombra vana ha parlato? Ah, l'amor mio non
sarebbe caduto in questo laccio volgare! L’amo, avrei detto al fantasma; tu
amico un giorno, essa la donna mia per tutta la vita! – Ma pensa; ella fu nelle
braccia di ben altri anzi che nelle tue.... – L’amo! – Ma bada; ella uccide,
impudica e feroce, gli strumenti delle sue voluttà...... L’amo; che importa?
L’amo. Non è egli un gaudio celeste, l’amore? La morte al colmo della
beatitudine, non è forse il dono più grato de’ cieli?
– Vile amore, che nel disprezzo
si nutre! – esclamò la regina.
Ma ancora non aveva ella
pronunziate quelle acerbe parole, che un rumore di passi precipitosi si udì e
il re d’Armenia balzò dal colonnato nella camera; il re d’Armenia cogli occhi
fiammanti di collera, non più potuta reprimere, e la spada lampeggiante nel
pugno.
– È questa la tua pura dottrina,
o santo vecchio dal fiore d’amòmo? – tuonò egli iracondo. – Ma tu
morrai, lo giuro a Zervane, che ha numerato i tuoi giorni! –
E si scagliò, così dicendo, sul
principe di Bakdi, che stramazzò all’urto possente del giovine atleta. Nel
tempo medesimo la spada di Ara cercava il petto della stordita sua vittima. La
corazza di ferro che Zerduste portava sotto la tunica nera, sviò il colpo
gagliardo, che avrebbe dovuto passarlo fuor fuori.
– Ah, un tradimento! – gridò
Zerduste atterrito.
E si divincolava sotto le
strette. Ma l’aquila delle montagne lo aveva tra gli artigli; era più poderosa
di lui; le raddoppiava le forze il furore. E già stava per cacciargli il ferro
nella strozza, allorquando la voce della regina si udì.
– Chi ardisce snudar l’armi al
cospetto di Semiramide? – gridò ella con voce di tuono.
Ara, il furente Ara, si alzò intimorito, e il
braccio gli ricadde inerte sul fianco.
Semiramide lo guardò un tratto, pallida,
ansante, per commozione profonda; indi si volse a Zerduste.
– La tregua è sacra per tutti; –
gli disse. – Va, rettile, vivi! –
Zerduste si alzò fremente da
terra; li saettò ambedue d'uno sguardo, si strinse i pugni al petto, per rabbia
impossente, e fuggì. Ogni sua speranza era perduta; l’audace suo tentativo,
così profondamente maturato, falliva.
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