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Anton Giulio Barrili Semiramide IntraText CT - Lettura del testo |
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24. Le colombe di Derceto.
Erano rimasti soli, Semiramide e il re d’Armenia; ella profondamente turbata, ma contegnosa e severa all’aspetto; egli vergognoso e tremante, come chi è spettatore d’un’alta rovina e la sa opera sua. I pensieri che turbinarono in quelle due anime, tutto ciò che significarono i loro sguardi in quel solenne istante di pausa, si può immaginar nella mente, non dire. Un senso di scontentezza, forse più veramente d'indomato rancore, serpeggiava nel petto della regina. Lontano e fuggente, com’ella credeva, Semiramide lo aveva difeso contro i sarcasmi di Zerduste; vicino e certamente pentito, le pareva di odiarlo, – E tu, che vuoi? – gli disse ella con accento sdegnoso. – Il tuo perdono; – rispose Ara umilmente. – Ho tutto udito, e tutta misuro la grandezza del mio fallo. Non v'ha pena, per quanto grave ella sia, che io non meriti da te. Sono in odio a me stesso, ed ho la morte nel cuore. – La voce del giovine era supplichevole e imbevuta di lagrime; ma in quella voce lusinghiera a lei parve di udire il sibilo del tentatore. Non era forse quello l’accento soave che già una volta l’aveva soggiogata e tradita? Però stette ella inflessibile. – Come tu qui? – soggiunse ella poscia. – Ov’è Faleg? – Poc'anzi, – rispose egli sollecito, – io mi sono spiccato da lui. Avevo udito delle proposte a te fatte, delle condizioni messe dagli anziani di Babilonia al loro ritorno nell'antica obbedienza. Potevo io partire? accettare una vita ed una libertà che a te costassero il regno, fors’anco la sicurezza della persona? Risolsi di portarti il mio capo; io stesso sarei disceso dalla reggia, ma per via discoperta, incontro a’ tuoi nemici, ai carnefici miei. Ed eccomi pronto. – No, gli è inutile! – esclamò la regina. – Non lo consentirebbe la maestà del mio nome; – aggiunse ella gravemente, dopo un istante di pausa, in cui parve risolversi a temperare l’asprezza delle sue prime parole. – Ciò che ho risoluto sarà. Tu sei libero; parti, che non abbiano a ritrovarti in Babilonia domani. – Ma tu, allora? – disse Ara sgomentito. – Ma tu? - Io.... – ripigliò Semiramide, con labbra atteggiate ad un freddo sorriso. – Io mi sottrarrò alla rabbia dei tristi. – Fuggire! – gridò il re d’Armenia, tratto in inganno dalle ambigue parole. – Ah sì, n’è tempo, o regina. Quello scampo che generosa mi profferivi, non rimane anche a te? Ma dimmi, innanzi di correr la sorte della fuga; dimmi, o dolce signora, mi hai tu perdonato? – Sì; – bisbigliò Semiramide, lasciandosi afferrare la mano, che il giovine amante coperse di baci e di lagrime. Ella era fuor di sé stessa in quel punto. La infinita mestizia de’ suoi casi, il recente colloquio col suo atroce nemico, l’improvviso apparire del re, l’aveano percossa per modo, che ella ne era rimasta un tratto smemorata ed attonita, senza pensieri, senza volontà, senza forza. Ara incalzò nelle amorose preghiere. – Vieni adunque, vieni senz'altri indugi, o diletta! Pensa a Zerduste. Lo scellerato, che tu hai voluto campar da’ miei colpi, ben altre vendette prepara. Vieni, usciamo da questa reggia, da questa città, ove tutto è pericolo per te. Andremo lunge, assai lunge di qua; io ti sosterrò, mia regina: ti difenderò io, fino all’ultima stilla di sangue; ti amerò, ti amerò tanto, o Semiram, che tu dimenticherai le mie colpe, le angosce patite, il trono perduto e quant'altro avesti mai di più caro. – Fuggire! – esclamò ella, scuotendosi a un tratto da quel suo doloroso torpore. – Fuggire io! E lo pensi tu forse? Non si giunge dov’io son giunta, o malka d’Armenia, per finir così male; non s'imprime un’orma così profonda nella memoria degli uomini, per cancellarla con un esempio di solenne viltà. Altro scampo io m'ho scelto, lo scampo de’ forti. Morrò. Checché ne pensi il malvagio, morrò nobilmente, morrò da regina. – Tu morire, o Semiram? – proruppe forsennato il garzone. – No, non sarà, non sarà mai; è impossibile!... – È necessario; – soggiunse ella, con malinconico accento. – Vivere con maestà non è più consentito; altra via non rimane. – Ah, scherno de’ cieli! – gridò egli disperato, cacciandosi le mani a furia entro i capegli. – È per me.. per colpa mia!.. – No; – interruppe Semiramide. – Non ti accusare; non dar cagione a te stesso! È il signor delle sorti, è Nisroc, che ha voluto così; son io che gli ho armata la mano a ferirmi. Non ho io forse invocata sul mio capo questa grande sventura! Non ho io chiesto a Militta di concedermi un amor vero e possente, anche a patto dei più acerbi dolori. Ho amato, e furono ore d’immensa allegrezza per me. Tristi giorni seguirono.... Orbene, che importa? Non son io vendicata del tuo disprezzo? Non sei tu umiliato, piangente, a’ miei piedi? – Ah, tu sei generosa e magnanima; – disse Ara con impeto; – e sebbene io veda tuttavia sul tuo volto la nube d’un nemico pensiero, non debbo lagnarmi del mio destino, né voglio. Concedimi tempo a meritar la tua, grazia, o regina! Vivere tu devi, e risorgere. Non mi dire che ciò è impossibile!... Forse tu vedi troppo grave il tuo caso. Altra via non rimane, dicesti; e perché? Non è sempre aperta la via della pugna? Né già tutto l'esercito s'è collegato ai ribelli; schiere numerose e fedeli ti restano ancora; tu puoi, tu devi tentare. – E vincessi pur anco! – esclamò Semiramide, crollando il capo, in atto di supremo fastidio. – Imperocché, vedi, io l’ho pensato, ciò che tu mi consigli, e non è vero che tutto sia irreparabilmente perduto per me. S'inganna il malvagio, e quel suo traviato fanciullo con lui. Prima che trionfassero i vili, molto sangue potrebbe tingere ancora l'Eufrate, e più d'un cuore, che oggi si gonfia di facili speranze, impicciolirsi ad un tratto e gelarsi per alto spavento. Ma tutto questo a qual pro? Io non mi curo più oltre di malvagi, o d’ingrati. L'anima ha le sue tristezze invincibili, sente talvolta il fascino de’ superbi raccoglimenti, la voluttà delle inerzia mortali; e allora, poni mente, riesce a tedio la pugna, e più che il vincere, più che il soverchiare di nostra gloria i mortali ossequiosi, o tementi, è dolcezza il cadere, l’estinguersi. Così farò, re d’Armenia; e se ti duole.... – soggiunse ella con un fil di amarezza, – se ti duole, io l’ho caro. Sarà questa la tua punizione, per aver creduto ad altrui, per aver dubitato di me. – Non m'ero io dunque ingannato! – disse Ara sospirando. – Il tuo cuore non mi ha perdonato del tutto! – La regina non fece risposta a quel grido di un’anima afflitta. – Vedi? – soggiunse ella, cedendo all'amaro proposito ond’era tutta compresa. – Il mio disegno è formato, – E avvicinatasi ad uno stipo che era lì presso, ne tolse una piccola ampolla di vetro e la librò in alto, di rincontro alla fioca luce del vespero, davanti agli occhi di Ara, che stette muto, sbigottito a guardarla. – Da questo tenue involucro, – proseguì Semiramide, – non traspare che un umile liquore verdastro. Ma la vita, la pace, l'allegrezza, la morte, tutto è qui dentro, come nel cuore umano s'accolgono i germi d’ogni contentezza e d’ogni pena eziandio. Ampolla preziosa! Essa è dono del vecchio Sumàti. – Ara chinò il capo, fremendo. Imperocché egli aveva udito dal colloquio di Zerduste colla regina, quanto fosse colpevole l'Indiano. – Ah, non parlare di lui! – gridò egli, con accento di rabbia. – Perché, ch’egli è morto pentito? – ripigliò la regina. – A me, dopo tanti immeritati dolori, il vecchio della Triade ha lasciato un conforto. Tutta la mia regia possanza non avrebbe potuto procacciarmi questo maraviglioso liquore, stillato da erbe d’arcana virtù, nei silenzi d’una dotta vigilia. Meraviglioso invero, e ben degno della famosa sua patria! Una goccia soltanto, stemperata nell’acqua purissima, rinfranca gli spiriti languenti; poche goccie dànno l’ebbrezza; un sorso intiero, la metà di quest’ampolla, è, la morte; morte soave, lenta e sicura. Tu lo vedi, o malka d’Armenia; io non son troppo da compiangere. Va dunque, poiché l’ora è già tarda, ed ogni istante è prezioso. Io t’ho amato, e non m’incresce di confessartelo: ti ho perdonato ogni cosa; non ho più odio nel cuore. Tu piangi e le tue lagrime mi compensano di molte amarezze; va dunque, e ti sovvenga di me nella vita, come io penserò a te nella morte. – Così parlò Semiramide, cercando di allontanare il dolente. Ora, ella aveva a mala pena finito di parlare, che un atto improvviso di Ara la colpi, e un grido le ruppe dal petto, grido di stupore, di sgomento o di gioia inattesa. Il re d’Armenia l’aveva ascoltata in silenzio, ora guardando lei, ora l'ampolla, che le stava tra mani. Pallido, ansante, confuso, pendeva dalle sue labbra, non osando dir nulla per tentare di smuoverla dal suo fiero proposito; ma ben si scorgeva al sembiante come fosse trambasciato, al pensiero di perderla. Ciò appunto aveva mossa a compassione la regina, persuadendole alcune più amorevoli parole di commiato; ed egli dal canto suo ne aveva preso ardimento ad afferrarle un braccio, accostandosi con atto supplichevole a lei. Ma tosto, senza ch’ella facesse più in tempo a ritrarre la mano, le aveva egli strappata l'ampolla e in un baleno l’aveva accostata alle labbra, trangugiandone un sorso. – Che hai tu fatto, disgraziato? – gridò ella, tendendo le palme verso di lui. – Nulla; ho bevuto la parte mia. Ecco, vedi, io non ti ho tolto nulla del tuo. – E le mostrò l’ampolla, ancora a mezzo ripiena; indi, sorridendo, la posò sullo stipo. – Ah, dissennato! – esclamò la regina, con accento di tenerezza ineffabile. – E tu, giovine, bello al pari d'un Dio, con tante speranze nella vita lontana.... – Senza te sarei morto; – interruppe egli sollecito; – è in te la mia speranza, in te la mia vita. – E cadde a’ suoi piedi, tremante d’amore. Ella gli pose le braccia intorno al collo e rimase a lungo muta, ma accesa, palpitante, appoggiata su lui, con tutto il soave suo peso. L’astro notturno, che era spuntato poc’anzi sull’orizzonte, risplendeva tra i cespugli del giardino, e la sua tacita luce, penetrando tra le colonne del loggiato, inondava que’ due volti confusi. Ad un tratto ella si sciolse da lui. – Smemorata! – gridò. – Ed io?.. Balzò rapida in piedi, corse, afferrò l’ampolla, e avidamente bevve ciò che restava del verdastro liquore. – Come è dolce! – diss'ella poscia, tornando verso l'amato. – Come è dolce, poiché tu l'hai recato alle labbra! – Il giovine innamorato la strinse tra le sue braccia. – Eccoti bella, amica mia! – le diceva egli, guardandola con occhi rapiti. – Eccoti bella tra tutte le donne, o tu, cui l'anima mia ama! Tu m’hai involato il cuore, o sposa mia nella morte; tu m’hai involato il cuore col primo de’ tuoi sguardi; né più, da quella notte di celesti ebbrezze, io sono stato signore di me. Tu sei tutta bella, amica mia, né cosa alcuna è in te che non mi faccia riardere il sangue per febbre acuta d'amore. I tuoi baci sono più dolci del liquor della palma: la fragranza che spira da te, vince tutti gli aromi. – Ara, o diletto, sostienmi nelle tue braccia! Oh, sei pur bello! E avventurosa tra tutte le donne fu certamente colei che ti diede la vita! Ara, rivolgi gli occhi tuoi, che non mi guardino fiso, imperocché essi mi faranno smarrir la ragione. Amico dell'anima mia, e come hai tu potuto allontanarti da me? Oh, grazie sian rese agli Dei; non ci separeremo mai più! Morire con te! Gioia che io non avrei più osato sperare! Sostienmi, o diletto! Sia la tua mano sinistra sotto al mio capo e abbraccimi la tua destra. – Amica mia, sposa mia, le tue labbra stillano miele; il tuo collo vende più odore, che non le mandragole e i gigli. Dimentica ed ama; mettimi come un suggello in sul tuo cuore; come un suggello in sul tuo braccio; imperocché l’amore è possente come la morte che invocata ci attende; la gelosia dura come l’inferno, e le sue fiamme divorano. Io le ho nutrite a lungo del mio sangue, qui dentro; ma l’amor tuo è il più soave dei balsami. – Così favellarono, confusi in un palpito, l'uno dell'altro beati, immemori d'ogni cosa creata. Gloria, potenza, ambizione, dolori, miserie, splendori e fumi della terra, che siete voi per due anime amanti? Sulla vetta inaccessa d’un monte, la fenice compone de’più odorosi rami il suo rogo, e lieta s'appresta a morire. Così eglino, in quel rapimento supremo, nell’alto silenzio d’una notte avventurosa, lunge dal volgo profano, avevano tempio e rogo ed oblìo. Che era già più Babilonia per essi, col suo popolo ribelle e colle sue ire feroci? Che era l’impero degli Accad, e che tutti gli altri destinati a succedergli, giù per la china dei secoli? Odiati dal mondo, lo ricambiavano colla noncuranza e il disdegno; più forti delle sue collere, si perdevano in un'estasi, che non aveva a conoscer dimani. – Ara, diletto mio, come breve è la notte! I segni celesti ascendono rapidi la volta del firmamento azzurro, come viandanti frettolosi che hanno veduta da lunge la meta. – Fermati, – esclamò Ara, tendendo al cielo le palme. – Fermati, se mai udisti parola d’amore; rattieni, o Sin, il veloce tuo corso e sia questa notte eterna! O se ciò non è consentito alla nostra preghiera e te pure incalzano i fati, accresci almeno la virtù dell'arcano liquore e rapisci le nostre vite coll'estremo tuo raggio! – La brezza precorritrice dell’alba susurrava dolcemente fra gli alberi. I gigli, le mandragole e i gelsomini spandevano odore. Ascose tra i rami, gemevano le colombe il flebile verso amoroso. Era un senso di voluttà infuso per tutta la natura, un inno cantato su in alto alla gloria di Dio. Le ire codarde, le ambizioni, i tradimenti, si agitavano laggiù, nella città sottoposta, il cui frastuono a mala pena si udiva, come rombo di tempesta lontana. Dolcezza ineffabile, bevuta a lunghi sorsi ed interi; ebbrezza che scalda le fibre e infonde per tutte le membra un amico sopore; qual voce potrebbe ridirle, o penna descriverle? Non si ritraggono a parole i soavi errori, le fantasie, le visioni, con cui, nel silenzio della sua cella, un’anima innamorata inganna le ore notturne e cede senz’avvedersene al sonno, che forse le proseguirà l'incantesimo. Il raggio tremolante di Istar già impallidiva sull'orizzonte, poco lungi dallo smorto disco di Sin. Il cielo rapidamente sbiancava, e con esso il volto dei due felici, che ancora si tenevano abbracciati, e cogli occhi smarriti, nuotanti nelle ombre di morte, si ricercavano ancora. Poco stante, sorgeva glorioso il sole dai balzi lontani di Elam, e uno stuolo di colombe fu visto levarsi dal colmo delle piante, che allegavano di bella verzura i pensili orti di Semiramide. Le candide volatrici si librarono sulla città, valicarono il fiume e disparvero ad occidente dietro le torri di Barsipa. Il popolo di Babilonia argomentò che Derceto, la gran Dea d’Ascalona, avesse mandate le sue colombe a campare da morte la sventurata sua figlia. E invero, nessuno più vide Semiram, né il biondo malka d’Armenia. Gli orti pensili, le stanze della regina, frugate dal popolo ribelle, non recavano traccia di loro. Forse Hurki avrebbe potuto chiarire l'arcano. Ma il fedele eunuco era scomparso; e Faleg, il fedele soldato, del pari. Zerduste, ministro di Ninia per brevi giorni, re di Babilonia dopo l'arrivo delle soldatesche di Media, dubitò che i due amanti fossero stati sepolti dalla pietà d'un fedel servitore in qualche segreta dell’immane recinto. Ma la tomba, se così era, custodì gelosarnente i suoi ospiti.
FINE.
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