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Francesco Berni Rime IntraText CT - Lettura del testo |
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67. Sonetto della massara.
Io ho per cameriera mia l'Ancroia, madre di Ferraù, zia di Morgante, arcavola maggior dell'Amostante, balia del turco e suocera del boia. È la sua pelle di razza di stoia, morbida come quella del leofante: non credo che si trovi al mondo fante più orrenda, più sucida e squarquoia. Ha del labro un gheron, di sopra, manco: una sassata glie lo portò via quando si combatteva Castelfranco. Pare il suo capo la cosmografia, pien d'isolette d'azzurro e di bianco, commesse dalla tigna di tarsìa. Il dì de Befanìa vo' porla per befana alla finestra, perché qualch'un le dia d'una balestra; ché l'è sì fiera e alpestra che le daran nel capo d'un bolzone, in cambio di cicogna e d'airone. S'ella andasse carpone, parrebbe una scrofaccia o una miccia, ch'abbia le poppe a guisa di salciccia; vieta, grinza e arsiccia, secca dal fumo e tinta in verde e giallo, con porri e schianze suvi e qualche callo. Non li fu dato in fallo la lingua e i denti di mirabil tempre, perché ella ciarla e mangia sempre sempre. Convien ch'io mi distempre a dir ch'uscisse di man di famigli; e che la trentavecchia ora mi pigli. Fûr de' vostri consigli, compar, che per le man me la metteste per una fante dal dì delle feste; credo che lo faceste con animo d'andarvene al vicario et accusarme per concubinario.
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