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La villa del barone banchiere era sorta all'improvviso. A un tiro
di schioppo fuori del paese si vedeva dianzi una casa costrutta in sasso e in
cemento, miracolo in quel villaggio fatto tutto di legno. Era stata alzata
dieci anni addietro da un brav'uomo, il quale, essendo andato per mezzo secolo
a lavorare giù per l'Italia da calderaio, e avendo raggruzzolato molte migliaia
di lire, voleva godersele con la famiglia in santa pace nell'aria pura e nelle
lunghe nevi del suo caro luogo natale. Non l'avesse pensato mai! Il dì che fu
messa la prima pietra, ecco gli muore la figliuola; appena finito il solaio del
primo piano, ecco gli si ammazza giù per una rupe il figliuolo; appena compiuto
il tetto, passa a miglior vita la moglie. Il misero signorotto, solo,
disperato, pieno di acciacchi e di paure, camminò un anno nelle stanze vuote,
meditando con desiderio ineffabile al tempo della sua miseria, quando la moglie
ed i figli, sani e robusti, mangiavano polenta asciutta, ed egli martellava
quindici ore della giornata su caldaie e padelle. Morì di settant'anni
lasciando la sua casa al Comune, il quale vi teneva il fieno, giacché, un poco
per cagione dell'uso di abitare in isconquassate catapecchie di legno, un poco
per l'idea che quell'edificio fosse stregato e recasse sventura, nessuno
offriva un quattrino per andarvi a prendere alloggio.
I vetri delle finestre non c'erano più, le imposte
cominciavano a sconnettersi; ma il palazzotto così bianco e alto e regolare,
con la sua bella cornice e i suoi balconi sporgenti, rallegrava la vista, in
mezzo alle capanne ed ai tugurii neri della valle. S'aggiunga ch'era piantato
in uno dei più bei siti: sul contrafforte del monte, dove i paeselli della
vallata di qua e di là si vedono tutti, e l'occhio si spinge sino al piano
verde ed al castello di Sanna; e di dietro l'ombreggiava una folta macchia di
larici antichi, mentre dinanzi lo rallegrava una prateria quasi orizzontale,
piena di grandi arbusti di sambuco rosso, con i suoi grappoli che sembravano
coralli infiammati, e ricca di fiori color di rosa, dondolanti sui gambi
altissimi, di fiori gialli, violetti, bianchi, da farne la più gentile e
variopinta corona per una vergine sposa.
La casa del calderaio, già bella, era diventata un incanto.
Sulla fronte, nel piano terreno, sporgeva una nuova loggia, chiusa durante le
ore del sole da tende che parevano di splendido drappo persiano; nei fianchi
uscivano fuori due nuove ali in forma di padiglione, da cui quattro gradinate
esterne scendevano alla prateria trasformata in giardino, dove non mancavano le
zolle simmetriche, l'ampia vasca circolare con l'acqua limpida e i pesci d'oro,
né i sedili dondolanti sparsi nei luoghi più misteriosi ed ombrati. Nel lato
posteriore dell'edificio un nuovo portico riparava le cavalcature mentre
aspettavano i cavalieri; la cucina, la scuderia de' muli, l'abitazione dei
servi ed altri luoghi di basso uso avevano trovato posto in una specie di casa
rustica, unita alla palazzina per mezzo di una lunga tettoia, la quale veniva
tutta nascosta da piante arrampicanti e da arboscelli trapiantati.
Queste nuove fabbriche erano di legno, alzate su in fretta e
destinate alla vita di tre mesi: non importava che le prossime nevi ed i geli
le sfasciassero tutte.
Ai lavori aveva presieduto il vero scopritore, o, per meglio
dire, inventore delle miniere, un farabutto matricolato, al paragone del quale
il presidente della Società siderurgica, il barone banchiere, poteva dirsi una
perla. Lo chiamavano Gregorio Viorz, e si bucinava che fosse stato due volte in
carcere per truffa; gli attribuivano anche un veneficio, commesso per interesse,
ma le prove mancavano e la giustizia non se n'era impacciata. Comunque sia, ad
Innsbruck, sua città natale, n'aveva fatte tante, che non poteva più rimettervi
il piede.
Dio l'aveva dotato, per disgrazia degli uomini, di un ingegno
feracissimo e di un'attività senza pari; tanto che con la metà della fatica e
del cervello, ch'egli impiegava nelle vie torte e buie, avrebbe potuto lungo la
strada dritta rendersi ricco e stimato e sicuro della propria fortuna. Ma
dall'animo perverso nascono inevitabilmente certe debolezze fatali, le quali
sciupano tutto; e il Viorz ne aveva due. Prima: assottigliava troppo, sicché,
studiando nelle imprese tutti i pericoli e industriandosi di mettere a tutti un
anticipato rimedio, creava spesso le difficoltà nell'atto in cui voleva
prevenirle. Seconda: man mano che si avvicinava il momento di raccogliere il
frutto delle sue iniquità, la gioia e l'orgoglio del buon successo gli
scemavano la calma, lo inebbriavano, e la prima cautela volpina si trasformava,
nella lotta contro gli ultimi intoppi, in violenza brutale.
Un così fatto personaggio non poteva dare il suo nome a nessun
affare d'industria o di banca; anzi si doveva tenere avvolto, almeno sul
principio, in un prudente mistero. Aveva dunque bisogno di qualcuno da mettere
in mostra: un galantuomo no, perché non si sarebbe prestato a simili birbonate;
un noto birbante no, perché avrebbe, invece di adescarla, fatto scappare la
gente. Ci voleva, per esempio, un signore che si fosse mangiato il patrimonio:
vizioso e in urgente necessità di quattrini; d'intelletto bastevole per capire
e secondare le finezze dell'impresa, ma di poca inventiva, perché non gli
saltasse un giorno il ghiribizzo di fare da sé; di bei modi signorili, con un
bel nome e un titolo sonoro. A tutte le indicate qualità bisognava unirne
un'ultima: quella di non essere punto conosciuto nella classe degli uomini di
banca, o, meglio, di esservi conosciuto favorevolmente. Questa prerogativa
s'univa alle altre nel barone di Steinach.
Era piuttosto un uomo scettico e leggiero, che propriamente
perverso. L'uso della società galante di Vienna e di Parigi l'aveva rotto ad
ogni vizio, senza fargli perdere il garbo delle maniere aristocratiche ed una
certa sensibilità di natura. S'era impacciato tre o quattro volte in affari
grossi e romorosi, ma, puntualmente, con indifferenza, aveva pagato le perdite,
rimettendoci sino all'ultimo soldo. Allora, dopo avere conosciuto Gregorio
Viorz, che non lo perdette mai più di vista e che lo richiamò in gran fretta,
qualche anno appresso, appena avuta la prima ispirazione della Compagnia
siderurgica, andò a Monaco al giuoco, facendosi prestare la posta, e
guadagnò; e con quel guadagno, piantatosi a Parigi, cominciò la vita del
cavaliere d'industria.
In un modo o in un altro se la campava, sempre abbigliato,
benché con un'ombra di gofferia teutonica, secondo l'ultima voga, in un
quartierino di nobile apparenza e pieno di gingilli artistici, dove regnava
questa o quella signora, bruna, bionda, fulva o rossa, ch'egli ripescava qua o
là e rimutava, al più, ogni sei mesi. Così era giunto al sessantesimo anno,
robusto ancora e pieno di vita, che pareva un miracolo pensando a' suoi vizi e
disordini; né l'età si manifestava in lui altrimenti che in due cose: nella
rotondità del ventre, che con il suo consueto panciotto bianco diventava anche
più maestoso, e nel serbare com'egli faceva presso di sé da un anno l'ultima
baronessa, rossa di capelli, senza provare nessun desiderio di sostituirne una
nuova.
Il curato non aveva aperto bocca nel cammino da casa sua alla
villa, sebbene il dottore lo andasse stuzzicando. Pareva distratto; guardava le
nubi strane, che imbiancavano una parte del cielo.
Un domestico, in livrea turchina con la pistagna color cremisi
e i gran bottoni dorati, fece entrare i due visitatori nella sala, dove il
barone faceva il chilo col resto della compagnia, pregandoli di aspettare che
la signora baronessa li potesse ricevere. Il barone, che fumava il sigaro
immerso in una larga poltrona, s'alzò, andò incontro al prete, e, stringendogli
la mano, gli disse un mondo di belle cose. Aveva bisogno di vederlo, conosceva
le sue virtù, desiderava aiutare i poveri del paese, sapeva che la baronessa
ne' primi dì del suo soggiorno in villa era stata alla canonica a portare delle
elemosine; egli voleva fare qualcosa di più durevole, cento idee di carità gli
frullavano nel cervello, ma per metterle in atto attendeva il consiglio del
savio e sant'uomo, che lo guidasse, che gl'insegnasse a fare il bene utilmente.
Quei modi cortesi, quel sorriso aperto, sopra tutto quelle
liberali profferte, mettevano il povero prete in un terribile impaccio. Già
rinasceva nella sua mente la solita tenzone: posso io respingere il danaro del
diavolo? Posso io togliere a' poverelli i soccorsi di cui hanno tanto bisogno?
Non devo io anzi sollecitare codeste larghezze, qualunque sia la lor causa,
lasciando a Dio di entrare nell'anima dei peccatori?
Il barone continuava a discorrere in piedi, davanti alla
finestra, da cui si scorgeva tutta intiera la valle e si vedeva in fondo ad
essa il torrente, sinuoso e lucido, come un nastro d'argento puro, svolazzante
al sole. Intanto gli ospiti del barone chiacchieravano intorno ad una tavola
rotonda piena di libri e giornali, nell'angolo opposto della sala. A un tratto
il maestro di pianoforte della baronessa, un giovinetto piccolo, con gli
occhiali sul naso a ballotta, allievo poco fortunato del Conservatorio di
Dresda, tolta la fascia ad uno dei giornali illustrati, guardando la prima
pagina, esclama: - Oh bello, magnifico stupendo davvero! - Poi, fatta vedere
l'incisione agli altri, che s'accordano negli ah e negli oh ammirativi, sbalza accanto al barone per
mostrargli niente meno che la veduta della sua villa. C'era la loggia con i
panneggiamenti; c'erano i padiglioni con le quattro gradinate, ma con
l'aggiunta, per verità, di due cupole e di due Fortune sulla cima, rimaste,
pare, nella fantasia dell'architetto restauratore; c'erano le fontane con nuovi
getti d'acqua: insomma una reggia.
Si leggeva sotto: Residenza del direttore della Compagnia
siderurgica nella valle di Castra. Il barone, dopo avere gettato uno
sguardo sul disegno, mormorò tra se stesso: - Astuzie di quella volpe del Viorz
- e restituì il foglio al maestro di cembalo, il quale si mise a leggere
l'articolo che accompagnava e spiegava l'incisione. Era un inno alla nuova
impresa: le miniere gonfie di metallo; le ferriere vulcani; e già le braccia
non bastavano più al lavoro, e le richieste del commercio soverchiavano venti
volte la produzione dell'industria; bisognava praticare dei nuovi squarci nei
fianchi del monte miracoloso, moltiplicare le fucine, emettere nuove azioni
alla banca. Seguivano la parte artistica e la parte sentimentale: le
descrizioni del palazzo e del giardino; le beneficenze del direttore, vera provvidenza,
vero Messia della valle: asili d'infanzia fondati e già frequentati da trecento
bimbi, che, oltre all'insegnamento, vi ricevevano gratis la colazione e il
desinare; nuove strade in lavoro; farmacie aperte, eccetera, eccetera: una
rigenerazione.
Il maestro di pianoforte leggeva ad alta voce, con enfasi,
facendo spiccare le più belle frasi; né badava punto al barone, il quale,
interrompendo il suo ragionamento col prete, gridava: - Basta, basta; leggerete
poi -. Ma il prete non porgeva più nessuna attenzione alle lusinghe dell'altro;
tendeva invece le orecchie per udir la lettura, avvicinandosi anzi passo passo
alla tavola tonda. A un certo punto, senz'aspettare la fine, strappò dalle mani
del leggitore il foglio e lo stracciò in più brani, ripetendo: - Sono tutte
menzogne, tutte menzogne.
Il barone uscì dalla stanza, il medico scomparve. Ci fu un
mezzo minuto di silenzio e d'immobilità generale; poi si vide alzarsi un
ufficiale dei cacciatori, che stava accanto al maestro di pianoforte. S'accostò
al prete e, dopo un formidabile ruggito d'ira, gridò: - Ringrazii la sua
chierica ed il suo collare se questo braccio... - e alzava il braccio in atto
di minaccia.
In quel momento il servo in livrea turchina con le mostre
cremisi e i gran bottoni dorati entrò e annunziò dall'uscio: - La signora
baronessa prega il reverendo signor curato di passare nella sua camera.
Il curato piegò la testa in atto di saluto e, lentamente, uscì
dalla sala.
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