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Il prete girò, senza saperlo, a sinistra, dove la strada sale
e s'interna nella montagna; passò a' piedi della chiesetta di San Rocco, posta
sul vertice di una rupe acuta, e camminò verso il prato così detto del Lago.
Incontrava parecchi di quei carri alpini che, formati delle sole ruote dinanzi
e di due lunghissime stanghe, le quali si trascinano per terra con la loro
estremità posteriore, servono a portare il carico voluminoso di una erba appena
tagliata, olezzante d'ogni grato profumo e tempestata de' fiorellini d'ogni
allegro colore. I poveri buoi, scendendo lenti e gravi dall'erta ripidissima,
puntavano vigorosamente le zampe tra i sassi enormi, docili alla parola delle
montanine che li guidavano, maestosi e rassegnati, con l'occhio umido, un poco
inquieto e assai mesto. Le donne salutavano, ma il curato non rispondeva. Una
volta rischiò di rimanere schiacciato sotto a un carro, che non aveva scansato
in tempo. Lasciò la strada; andò su per i sentieri, su per le roccie nude. La
notte era diventata scura, e il prete andava senza sapere dove mettesse i
piedi. Si trovò a un tratto sulla riva dell'alto lago, uno scolo de' ghiacciai,
dove finalmente il rumore di due torrentelli, che precipitavano dalle cime e si
frangevano tra i sassi, e il vento rigido delle gole, e la tosse, che gli
spezzava il petto, richiamarono in sé il curato, il quale cadde con le
ginocchia a terra e, giungendo le mani e fissando gli occhi nella vòlta tutta
nera del cielo, ringraziò con una lunga preghiera il figliuolo di Dio.
In Menico frattanto crescevano le ansie. L'orologio della
canonica aveva suonato la mezza dopo le dodici, e il padrone non ritornava. Il
vecchietto aveva visto spegnersi i lumi nella villa del barone e sapeva bene
che non c'erano moribondi nel paese: dove diamine quella testa sventata era
dunque andato a passar la notte? Non s'attentava di allontanarsi troppo di
casa; guardava dalle finestre, ma non vedeva altro che tenebre fitte. Se non
fosse stato il servo di un sacerdote si sarebbe sfogato assai volentieri con
qualche grossa bestemmia. Tendeva le orecchie, un cane aveva abbaiato, nulla;
si sentiva un calpestio lontano, ascoltava, nulla. - O il reverendo l'avrà da
fare con me. Starsene via tutta notte senza neanche avvisare! Siamo cani? E
poi, col rischio di pigliarsi un nuovo malanno in tali disordini da
scomunicati, e con quella maledettissima tosse, che non lo lascia mai stare.
Figurarsi, sono ore queste da gironzare per le strade e da tenere alzati i
galantuomini? Gliele voglio cantare secche, ma secche. Farebbe perdere la
pazienza a san Luigi Gonzaga -. Tornava a guardare nell'oscurità e ad
origliare; niente. Alla fine gli parve di udire in su, distante, il passo di un
uomo; era un uomo, certo, che scendeva dalla montagna; il passo s'affrettava,
rintronava; i cani abbaiavano: era il passo del curato. Allora il piccolo vecchio
si pose dinanzi alla porta con il muso arcigno e gli occhi da cui schizzavano
scintille di rabbia; aveva i pugni piantati sulle anche in atto di sfida, come
se volesse impedire al prete l'ingresso della canonica, e già schiudeva le
labbra per cominciare la ramanzina quando, vista la faccia del padrone,
ammutolì e lo lasciò passare.
Borbottava tra i denti o per meglio dire tra le gengive: - Dio
santo, che mutria! E come ha conciato i panni! Mi ci vorrà un mese a ricucirli
e a rimetterli un po' in assetto. Bella carità cristiana.
Il curato passò il resto della notte all'inginocchiatoio,
davanti al Crocifisso, che lo aveva salvato. L'alba fece parere più livido, più
macilento, più contorto e più sanguinoso quel Cristo in croce, con la sua testa
china incoronata di spine.
All'aurora principiò il concerto delle campane. Le suonava
Menico, facendosi aiutare durante i suoi servigii di sagrestia e di chiesa, o
quando si sentiva le braccia stanche, da un ragazzotto, che per solito era uno
dei due monelli trionfatori del giorno innanzi, e propriamente quello bruno, il
quale della metà dei trentasette fiorini guadagnati per l'uccisione
dell'orsacchiotta non aveva visto il becco di un soldo, tanto i suoi parenti
erano stati lesti a mangiarli tutti ed a berli.
Era la domenica, e la messa del curato doveva principiare alle
dieci. Verso le otto un contadino, che veniva dalla valle, consegnò a Menico
una lettera per il suo padrone. L'indirizzo, scritto in calligrafia sottile,
snella, elegante, palesava una mano di donna. Il prete pigliò la lettera, la
guardò; le dita gli bruciavano, le mani gli tremavano; una visione
terribilmente allettevole di donna mezza nuda gli passò nella fantasia, e gli
parve di udire nelle orecchie l'eco seducente e paurosa di una voce che bisbigliasse:
Datemi il vostro amore, Don Giuseppe, il vostro amore! - Il curato voleva ad
ogni costo sapere chi avesse mandata la lettera: ma il contadino doveva essere
già lontano, né Menico aveva avvertito da che parte fosse andato via. - Del
resto, - osservò il vecchietto, alzando le spalle, - apra e vedrà chi scrive -.
Il prete stracciò in fatti la busta e spiegò i fogli, ch'erano parecchi, con un
gesto d'angoscia; ma tosto si rasserenò, si mise a sedere e a leggere. La
lettera era della signora Carlina, la moglie del dottore.
«Reverendo signor curato, Ho bisogno di tutta la pazienza, di
tutta la indulgenza del suo cuore. Il mio buon Don Giuseppe si è mostrato in
questi mesi tanto dolce verso di me, ch'io non esito ad aprirgli la mia anima
intera, con le sue tristezze, i suoi dubbii e le sue paure. Mi pare anche di
non agire come dovrei; ed ella mi rimproveri o mi conforti, ma sopra tutto mi
consigli, giacché la mia esperienza è così piccola e la mia natura, pur troppo,
così timida, ch'io non solo non so risolvermi a operare, ma spesso non
distinguo bene quale sia il cammino da scegliere. Mi compatisca, signor curato.
Ho diciott'anni compiuti: dovrei essere quasi una matrona:
però sino a tre mesi addietro, sino al giorno del mio matrimonio, io era
vissuta come una bambina, fra mio padre, ottimo uomo, ma severissimo, e mia
madre, donna tutta di casa. Non si vedeva nessuno, io non aveva passione per la
lettura; ricamava, teneva i libri di cucina volentieri, mettendo nell'arte
della cuoca, massime ne' piattini dolci (bisogna, Don Giuseppe, ch'ella venga
ad assaggiarne uno il primo giorno che avrà tempo. S'intenda con Amilcare),
mettendoci, confesso, un poco d'ambizione. Del resto dicevano che la mia salute
era delicata. Ella, signor curato, mi guarda qualche volta in faccia con un
cert'occhio compassionevole, come se dicesse: poveraccia, è tanto magra, tanto
pallida! Amilcare mi ha, come dice lui, ascoltata più volte: non ha trovato,
dice lui, neanche l'ombra del male. Fatto sta che io non sono mai obbligata a
rimanere a letto, e che posso dichiararmi sul serio una grande camminatrice,
una vera alpinista. Anzi, a questo proposito, vorrei ch'ella persuadesse
Amilcare a farmi camminare meno. Quand'egli va nelle montagne alla visita de'
suoi malati, vuole, quasi ogni volta, ch'io lo accompagni; ieri mi condusse con
quel sole, verso le due, sino a Masine dalle scorciatoie dei viottoli; un'ora e
mezzo di salita, e che salita, e che sassi! Giunta nel paese, mi cacciai a
sedere in un angolo della chiesa, una chiesa umida e melanconica, dove mi toccò
attendere due orette buone che Amilcare avesse finito di dar ricette e di cavar
sangue, e intanto mi sentiva tutta intirizzita da un'aria fredda gelata. Non ho
coraggio di dir di no. Amilcare osserva giustamente che il camminare desta
l'appetito, e che io, avendo bisogno di rinvigorirmi, devo mangiare, carne
sopra tutto, e bere almeno un bicchiere di vino; ma il vino proprio mi ripugna,
non lo dico per affettazione, e la stanchezza mi toglie anche quella poca
voglia di mangiare che aveva dianzi.
Signor curato, ella non ignora come fu il caso delle mie
nozze. Amilcare è il mio solo cugino; era, si può dire, il solo giovinotto che,
ne' mesi d'autunno, frequentasse la nostra casa; e poi buono, bello, di bei
modi cortesi, e con una vivacità di parlare tutta sua; studiava molto; a Vienna
si faceva onore; era diventato dottore, e poi medico condotto in questa valle.
In somma, quanti sogni io andava mulinando nel mio cervello! Stava desta la
notte per poter continuare le belle fantasie, parendomi che la intera giornata
non bastasse a tante care e interminabili meditazioni. Mio padre si mostrava
poco contento; gli piaceva poco ch'io dovessi sposare un medico; diceva che i
medici sono tutti materialisti, parola ch'io non capiva bene, ma che non mi
piaceva affatto; e mi dipingeva la vita di questa valle come una specie di
sepoltura: otto mesi d'inverno, la neve alta sei piedi, tredici gradi di
freddo, impossibile a una donna l'uscir di casa, le ansie per il marito, un
mondo di guai. Ed io pensavo all'opposto dentro di me; l'inverno sarà il mio
paradiso; due stanzette ben calde, fiori accanto alle stufe, i miei ricami, la
mia cucinetta, qualche lettera alla mamma, e poi, anzi prima di tutto, sopra
tutto, il mio Amilcare sempre indulgente, sempre grazioso, sempre allegro, e
che lunghi discorsi, e come sarà contento di tornare nella sua casina, presso
la sua Carluccia, che gli vorrà tanto bene! Scusi, signor curato: sono una vera
sciocca. Dunque ci siamo sposati; il viaggetto di nozze, un incanto; il primo
mese in questa valle una delizia. A dirgliela però Amilcare fumava un poco
troppo anche in principio, e mi appestava la camera.
Io non diceva niente; ma qualche volta mi mancava il respiro,
mi sentiva un tantino di mal di stomaco. Cose da nulla. Il mio sposo mi amava;
discorreva sempre del futuro, quando ci pianteremo in una città, e il suo nome
diventerà celebre, e guadagnerà tanti quattrini, e gli pioveranno addosso tanti
onori, e darà delle grandi feste, nelle quali io dovrò essere acconciata da vera
regina. Quest'ultima parte non mi andava a' versi; ho sempre avuta poca
inclinazione a figurar nella gente. Certe piccolezze mi davano già ombra,
m'offendevano un poco; aveva torto.
Il male è cominciato quasi ad un tratto, quando venne ad
abitare nella villa accanto a lei, signor curato, quella donna che dicono la
baronessa, e quando, fino dal primo giorno del suo arrivo, mandò in gran furia
a chiamar mio marito. Da quel momento non è stato più lui. Ha cento fumi per la
testa; pare che si vergogni di me; e non ostante mi sforza a seguirlo nelle sue
camminate sui monti, ma non mi guarda, non mi parla, non m'aiuta nemmeno a
salire un'erta o a passare un'acqua. Anche in casa, se gli parlo, mi risponde
sì o no, o non risponde affatto; ogni sua parola, quando finalmente la dice, è
un rimprovero o, che mi duole ancora più, un sarcasmo: non so più né vestirmi,
né pettinarmi, né quasi mettere alla bocca il cucchiaio, né adoperare la
forchetta e il coltello. La casa gli sembra piccola; non gli piace né il
desinare né la cena, per quanto io mi lambicchi nell'indovinare i suoi gusti e
nel condire e cuocere le vivande. È andato quattro volte a cenare all'osteria
con i carrettieri, ed anche le altre sere, quando non è alla villa o non esce
per i suoi malati, va a bere la genziana, e ne beve (mi vergogno) più di un
bicchierino di certo. Allora poi! Mio signor curato, mio buon Don Giuseppe, mi
aiuti: io ci perdo la testa e ci muoio. A mio padre, alla mamma non posso dir
nulla; ella, Don Giuseppe, è la sola persona sulla terra che mi sappia
compatire e soccorrere.
E divento anche cattiva. M'affatico a stargli intorno con le
carezze, con le dolcezze; mi respinge, ed io torno più mansueta che mai; ma
qualche volta non posso; sento nascermi dentro come uno spirito fiero di ribellione,
nuovissimo, incomprensibile, e ch'è pure tanto contrario alla pieghevolezza
della mia natura. Provo una sensazione che non aveva provata mai: un'agrezza,
un'amarezza profonda. Oramai conosco il sapore del fiele. Comprendo tante cose
di cui prima non capiva nulla: un mondo brutto mi si apre dinanzi. Mi sono
guardata bene nello specchio. Sì, sono magra; sì, sono pallida; ma i miei occhi
mi paiono neri e grandi, la mia fronte, la mia bocca, tutti i miei lineamenti
sono regolari, e il mio corpo non è poi uno scheletro. Non ostante, al mio
marito di tre mesi, al mio sposo non piaccio più. Cita le bellezze tonde della
baronessa. Le ho viste io quelle sfacciate bellezze: è passata tre volte sotto
le mie finestre, seguìta da corteggiatori e da servi, sulla sua mula bianca. Le
ho piantato gli occhi in faccia e la ho studiata bene: sulle guance ha il
rossetto, sulle labbra la polvere di corallo, e le sue magnifiche sopracciglia
sono tracciate col pennello.
Falsa al di fuori come dev'essere bugiarda al di dentro. E mi
ha rubata la stima, mi ha rubata l'affezione di Amilcare! Ora, un'ultima
parola, signor curato. Amilcare vuole che io vada a visitar la sua ganza. Ho
detto di no, ed egli insiste, ed io, caschi il mondo, non voglio. Ho ragione?
Ho torto?
Don Giuseppe, mi pigli per la mano. Ella che vede le cose di
questo mondo dall'altezza della sua santa pace; m'insegni a uscire dalle
bassezze di questi miei nuovi sospetti e dalle viltà di queste mie nuove
angoscie. In un mese come è mutata La sua disgraziatissima
CARLINA».
Il prete aveva letto la lettera attentamente, sospirando in
principio, fremendo alla fine. - Povera santa! - esclamò; e scrisse questo
polizzino con la sua scrittura larga e affrettata: «Verrò domani. Discorreremo,
e vedrà che i suoi dubbii non sono giusti. Pazienza, indulgenza, dolcezza: ecco
i rimedii. Preghi la Santissima Vergine Maria, che conosce le debolezze e le
ambascie dei mortali. A rivederci domani».
Menico aveva annunziato da un po' di tempo, che una donna, la
Pina del Rosso, ed il vecchio padre di lei chiedevano di parlare al reverendo
signor curato. Entrarono con gli occhi pieni di lagrime; e la donna,
singhiozzando, raccontò che il suo marito voleva vendere le giovenche, tutte,
una ventina, l'unica loro ricchezza, per impiegare il denaro nella impresa
delle ferriere: - Deve condurre le bestie doman l'altro al mercato di Malè, e
ci andranno con le loro mandre altri cinque o sei di questi indemoniati.
Daranno via il bestiame per niente: e poi a tali imprese, che il diavolo se le porti,
io non ci credo. Sono trufferie; lo dice anche mio padre, che sa il vivere del
mondo -. E il povero vecchio mezzo paralitico accennava di sì, crollando
mestamente il capo. - Non glielo avessi mai detto al mio uomo! S'è infuriato,
mi ha picchiata; veda queste lividure - e mostrava le spalle maculate. - Ma io
insisteva, e lui giù botte da orbo. Non ho potuto rimuoverlo di un ette. Ci
salvi lei, signor curato; scriva a Trento, scriva all'imperatore; impedisca la
distruzione del villaggio, per carità.
Il prete s'era alzato e, ascoltando la donna, camminava su e
giù per la stanza, in preda ad un'agitazione vivissima. Ripeteva: - Infami -.
Poi disse ad alta voce: Parlerò al Capocomune, m'intenderò con lui, e qualcosa,
se Dio ci aiuta, riusciremo a fare.
- Il Capocomune! Un bel soccorso! - ripigliò la donna. - È lui
che ha fatto impazzir la gente; è lui che suggerisce a tutti di barattare il
bestiame, il quale dà tanti pensieri, come dice, e così poco profitto, con quei
fogli di carta che fruttano del bell'oro solo a guardarli. L'ho sentito io con
le mie orecchie, signor curato. Povero il nostro armento! E poi (la ho da
dire?) a quelli che rispondevano che Don Giuseppe non crede a così fatti
miracoli, il Capocomune replicava: «Ah sì! Quel... (la taccio per rispetto)
quel... lo caccieremo via, e presto. È ora di finirla con quel... Non vede più
là del naso e pretende d'insegnare alla gente». Poi, sottovoce, aggiungeva:
«Sappiate che durerà poco, una settimana al più; lo so io, e basta».
Il prete continuava a camminare, invaso dall'ira: - Ebbene,
andrò domani dal capitano a Malè, chiamerò il signor giudice, farò processare
tutta questa canaglia -. Ma Menico, dalla soglia della camera, diceva: - Signor
curato, sono quasi le dieci: venga a vestirsi per la messa -. Dovette
avvicinarsi al padrone e ripeterglielo più volte, tanto il prete era fuori di
sé.
Don Giuseppe cercò di ricomporsi un poco, salutò la donna e il
vecchio contadino, uscì dalla canonica e, traversando il sagrato, entrò dalla
porticina esterna in sagrestia, intanto che il ragazzotto uccisore dell'orsa
suonava a distesa l'ultima chiamata.
Mentre Menico s'affaccendava nell'aiutare il padrone a
vestirsi, questi premeva violentemente il petto con la mano lì dove il cuore
pulsa, come se avesse voluto impedirgli di battere, e bisbigliava le preci.
Mosse all'altare con gli occhi a terra, senza veder nessuno;
s'inchinò dinanzi ai gradini, poi andò a baciare la tavola consacrata; e nello
stesso tempo ch'egli pronunciava le parole rituali faceva nell'interno queste giaculatorie:
- Io sono indegno di avvicinarmi all'ara dove stanno le reliquie dei Santi; io
sono indegno di essere ammesso al divin desco dove s'imbandisce il Santo dei
Santi. Fate, oh Signore, ch'io non vi porga un bacio simile a quello di Giuda.
Ah, Signore, salvatemi da tanta nefandità purificando il mio spirito... Oramus
te Domine... Kyrie eleison... Oh, dolce Signore, quanti beni avete dato
agli uomini, e come questi vi restituiscono il male. Eccovi in faccia il più
ingrato, il più colpevole di tutti. Perdonatemi, Signore; compatite alla mia
miseria; abbiate pietà di me... Gloria in excelsis Deo...
Il prete, sempre con gli occhi a terra, si voltò verso il
popolo; e mentre con la bocca leggeva l'Epistola dalla parte destra
dell'altare, mormorava dentro: - Agnello senza colpa, che avete voluto essere
calunniato, deriso, offeso per compiere gli oracoli della Scrittura, fate ch'io
possa imitare la vostra innocenza negli atti e la vostra pazienza nelle
afflizioni -. Tornò alla sinistra e cominciò la lettura del Vangelo: - Munda
cor meum... Verbo grazioso nella dolcezza e nell'umiltà, fate che la
dolcezza e l'umiltà non abbandonino mai il mio cuore... Credo in unum Deum...
Il prete scopre il calice, lo ricopre, si purifica le mani a
lato dell'altare, mostra il volto a' credenti, e, sempre con lo sguardo basso,
dice: - Orates frates -. Alza poi
l'ostia, come immagine di Gesù alzato sulla croce, e, consacrato il vino,
solleva il calice. - Oh sangue prezioso, sgorga insino a me quale nuovo
battesimo. Oh se potessi versare il mio sangue tutto per te, il mio sangue fino
all'ultima stilla... per omnia saecula...
Il prete spezza in due parti l'ostia santa, a similitudine
dell'anima di Gesù che si stacca dal corpo; mette una parte dell'ostia nel
calice e la consuma picchiandosi il petto: - Domine non sum dignus... -
Indi riceve il sangue prezioso nel calice, e, dopo essersi comunicato, procede
alle abluzioni: - Dominus vobiscum... Nella ineffabile gioia di vedervi
salire al cielo, oh Salvatore del mondo, sento la contentezza di possedervi
ancora qui in terra; la mia fede vi adora sul trono del vostro amore
nell'Eucarestia, in quello stesso modo che vi adora sul trono della vostra
gloria in Paradiso...
Nel dire: - Ite Missa est - il sacerdote alzò gli occhi e vide dinanzi
alla folla, seduta nella prima linea di panche, Olimpia, la baronessa, accanto
al maestrino di pianoforte.
Il collo di neve ed il principio del seno candido, spiccavano
nella mezza oscurità del tempio. Ella sorrideva colle sue labbra tumide e
rosse, fissando gli occhi negli occhi di Don Giuseppe, lasciva e sfacciata. Il
prete sentì un velo calargli sulle palpebre; non ci vide più; traballò; il
sangue gli corse tutto al cuore. Un istante dopo gli corse tutto al cervello, e
allora non poté più frenarsi, e cominciò sui gradini stessi dell'altare, con la
voce tonante, con il gesto del Cristo nel Giudizio di Michelangelo, una predica
furibonda.
- Via dalla casa del Signore i perversi e gli ipocriti. Fuori
i profanatori dal tempio. Voglio impugnare lo scudiscio di Gesù per cacciare
lontano questi corruttori delle anime, questi ingannatori delle coscienze,
questi avidi succhiatori del danaro del povero. E voi, gente illusa, non
vedete, orbi che siete, quale precipizio vi si apre sotto ai piedi? Rovinate il
paese, gettate nella miseria i vostri figliuoli, la vostra moglie, i vostri
vecchi per correre dietro all'inganno. Aprite gli occhi, figliuoli. Credete a
me, che da dieci anni sono con tutto il cuore vostro padre e fratello, credete
a me, che piuttosto di lasciare questa cara montagna morirei cento volte. Ed io
vi scongiuro, come pregavo momenti fa il Signore, padrone di tutte quante le
cose: ravvedetevi, tornare ai vostri costumi onesti e semplici, alla cura dei
vostri armenti, all'amore di chi vi ama davvero. Avrete la pace in terra, e la
gioia in cielo. Rammentatevi i comandamenti di Dio. Nel sesto i Canoni
penitenziali gridano anatema contro la femmina che si imbelletta per piacere
agli uomini; nel settimo e nel nono gridano anatema contro colui che ruba con la
violenza, con la frode, o con le false lusinghe. Fuggite i peccatori. Dio
v'aiuti e vi ispiri.
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