Questa macchia grigia, ch'io vedo dentro ai miei occhi, può
essere la cosa più comune della vostra scienza oculistica; ma mi dà gran
fastidio, e vorrei guarire. Esaminerete con i vostri ordigni eleganti, quando
verrò costà fra una quindicina di giorni, cornea, pupilla, retina e il resto.
Intanto, giacché la vostra amicizia mi sollecita, vi descriverò, come posso, il
mio nuovo malanno.
In mezzo alla molta luce ho la vista da lupo cerviere. Il
giorno nelle vie, la sera in teatro distinguo, cento passi lontano, il neo
sulla guancia di una bella donna. Leggo per dieci ore di fila, senza stancarmi,
il più minuto caratterino inglese. Non ho mai avuto bisogno di occhiali; posso
anzi imbrancarmi fra quegli animali di sì altera vista, che, come dice
il Petrarca, incontro al sol pur si difende. Non ho mai tanto amato il
sole, quanto lo amo da due mesi a questa parte: appena comincia l'aurora,
spalanco le finestre e lo benedico.
Odio le tenebre. La sera, di mano in mano che cresce
l'oscurità, si fa più intensa di contro a me, proprio nel punto dove fisso gli
occhi, una macchia color cenere, mutabile, informe. Durante il crepuscolo o
mentre splende la luna, è pallidissima, quasi impercettibile; ma nella notte
diventa enorme. Ora è senza moto, sicché, guardando il cielo nero, sembra uno
squarcio chiaro a lembi irregolari, come la carta dei cerchi da saltimbanco
quando v'è passato in mezzo il corpo di pagliaccio; e si crederebbe di vedere,
attraverso a quel buco, un altro brutto cielo di là dalle stelle. Ora s'agita,
s'alza, s'abbassa, s'allarga, s'allunga, caccia fuori de' tentacoli da polipo,
delle corna da lumaca, delle zampe da rospo, diventa mostruosa, gira a destra,
poi rigira a sinistra, e va intorno così delle ore furiosamente innanzi al mio
sguardo.
Ho accennato a queste immagini tanto per procurare di farmi
intendere; ma veramente non c'è ombra di forma. In un mese, dacché devo godermi
un tale spettacolo, non ho mai potuto afferrare una figura determinata. Quando
mi sembra di trovare certe analogie con certi animali, con qualche oggetto, sia
pure fantastico, con qualche cosa insomma di definibile, ecco che quel disegno
in un attimo si contorce e si rimuta indecifrabilmente. È una cosa laida, una
cosa volgare. Se si potesse annasarla, puzzerebbe. Sembra una larga pillacchera
di fango; sembra una chiazza animata, una lacerazione purulenta che viva. È un
orrore.
Non dico di vederla sempre. La vedo tutte le notti, ma più o
meno a lungo, secondo la disposizione, non so se del mio animo o del mio corpo.
Spesso, Dio volendo, appena comparsa sparisce.
Il terribile è che mi compare davanti all'improvviso, mentre
sto pensando a tutt'altro. Stringevo al barlume di una lucerna morente la mano
di una cara fanciulla, dicendole quel che non si racconta neanche a voi altri
medici, ed ecco a un tratto la macchia che le sporca il seno. Mi sentii
inorridire.
Anche di giorno s'io entro, mettete, in una chiesa buia, rischio
di trovare quella sudiceria sotto l'ombra fitta dell'organo, sui vecchi dipinti
affumicati, nel finestrello nero del confessionario.
La paura di vederla me la fa scorgere più presto.
La notte non guardo mai impunemente l'acqua di un fiume o del
mare. Andai giorni addietro a Genova. Era una bella sera, un resto d'estate. La
vòlta del cielo tutta serena, tutta di una tinta appena digradata da ponente a
levante con un po' di giallo, un po' di verde, un poco di paonazzo, mostrava
nondimeno, quasi sull'orizzonte, una zona isolata di nubi dense. Una striscia
sottilissima, limpidissima d'aria brillava tra le nubi ed il mare. Il sole, che
era rimasto nascosto un poco di tempo, da quelle nubi, scendeva dal loro lembo
inferiore per tuffarsi nelle onde quiete. Prima il suo oro, quando non si
vedeva di esso che il segmento di sotto, parve una lumiera sospesa alle nuvole;
poi il cerchio infiammato toccò con la circonferenza per un minuto nuvole e
mare; poi si cacciò pian piano nell'acqua, mostrando nel segmento di sopra il
fuoco incandescente di una immane bocca da forno. Avevo desinato bene con
qualche mio vecchio amico. Si pigliò un battello e si vogò al largo. Dopo lo
splendore del tramonto il crepuscolo fu di una dolcezza ineffabile. Cantavamo a
mezza voce, sognando. Annottava. L'acqua d'un verde scuro scintillava,
luccicava. All'improvviso vidi lontan lontano nuotare la mia macchia grigia; e
ritrassi paurosamente lo sguardo entro il battello, e la mia macchia mi seguì
tra le forcole e i remi, e, gelato di ribrezzo, mi ricondusse, compagna lurida,
a terra.
Certo (dottore mio, non ridete) è offesa la retina: v'è
qualche punto cieco, un piccolo spazio paralizzato, uno scotoma insomma.
Ho letto come sulla retina, nell'occhio dei condannati a morte, s'è trovato,
dopo recisa la testa, il ritratto degli ultimi oggetti, in cui i disgraziati
avevano ficcato lo sguardo. La retina dunque, non solo rimane fuggevolmente
dipinta: in certi casi resta veramente scolpita.
Notate poi che, quando chiudo gli occhi per dormire, io sento
la mia macchia dentro di me. E allora è un supplizio diverso. La macchia non si
aggira più intorno a se stessa, ma cammina, corre. Corre in su, e nel correre
tira in su la pupilla; sicché mi pare che il globo dell'occhio debba
rovesciarsi, arrotolando dentro nell'orbita. Poi corre in giù, poi corre dalle
parti, e il globo dell'occhio la segue, e i legamenti quasi si schiantano, ed
io dopo un poco mi sento dolere, proprio effettivamente dolere gli occhi. La
mattina, anche dopo dormito, gli ho indolenziti e un po' gonfi.
Voi altri medici avete la virtù di essere curiosi; volete
penetrare nelle cause, rimontare al seme. Vi dirò dunque in quali circostanze
mi si è manifestata la malattia, che dovete guarire. E, abbiate pazienza, lo
dirò nei più indifferenti particolari, giacché so come da una di quelle inezie,
le quali sfuggono all'attenzione dei profani, voi scienziati potete cavare la
scintilla, che rischiara poi le verità più riposte.
* * *
Il dì 24 dello scorso ottobre, sul far della sera, passavo dal
Ponte dei Re accanto a Garbe per andare sino a Vestone, mia passeggiata
consueta del dopo pranzo, come quella della mattina era verso Vobarno, quando
non preferivo arrampicarmi sulla schiena dei monti, o fare qualche viaggetto,
sempre pedestre, a Bagolino, a Gardone, in Tirolo.
Di due mesi e mezzo passati nella Val Sabbia, le prime due
settimane furono tutte calme, altre due tutte fuoco, e il rimanente tristezze e
terrori. Alle bellezze della natura, che tutti corrono a vedere e che tutti
ammirano, avevo preferito la vallata modesta, povera, dove i monti hanno già un
certo aspetto selvaggio, e dove non c'è il pericolo di vedere mai la persona
allampanata di un Inglese, e neanche la barba nera di un alpinista italiano.
Mangiavo le belle trote rosee del lago d'Idro, gamberi saporiti, funghi,
uccelli, cacini di capra, molte ova, molta polenta.
V'è ad Idro un alberguccio con due stanzine ariose, pulite.
Chi non ha rimorsi vive colà nella quiete del paradiso, senza giornali, senza
botteghe da caffè, senza pettegolezzi, guardando lo specchio del lago, le
giovanotte che vogano, la Rocca d'Anfo sull'altra sponda, esercitando più le
gambe che il cervello, abbrutendosi anzi a poco a poco nella cara, nella beata
libertà del non pensare a nulla e del non far proprio niente.
Quando il cielo è popolato di nubi, spinte a gran corsa dal
vento, l'aspetto di quel paese riesce mutabile all'infinito. I monti che si
accavalcano, le rupi che portano muraglie ruinate di castelli o chiesette con
il loro campanile bianco, i colli bassi coronati di pini, cangiano di figura ad
ogni minuto. Ora le nuvole mettono in ombra il dinanzi del quadro, e il sole
brilla nel fondo; ora il sole splende sul dinanzi, e il fondo rimane buio; ora
invece questa parte o quella del centro stacca nera in mezzo alla luce o
luminosa in mezzo all'oscurità, e s'accendono e si spengono ad ogni tratto
innumerevoli sprazzi di colori vari e vivissimi.
Bisogna salire sul monte roccioso, che sta di contro alla
chiesetta di San Gottardo, dall'altra parte del Chiese. Il monte, verso il
fiume, scende a perpendicolo. A destra si vede sulla bizzarra collina la chiesa
di Sabbio, alta e sottile; a sinistra si scopre da lontano la Rocca di Nozza,
della quale non rimane che qualche pezzo di muro cadente; sotto a' piedi s'apre
il vuoto profondo. Ci si tiene con le mani agli arbusti, e si guarda in giù. Il
Chiese corre in arco, rompendo le onde rapidissime ai sassi enormi, di cui è
sparso il suo letto. Garbe abbasso, un poco a dritta, e più in là, già ben alto
sulla montagna, il campanile di Provaglio. Quasi a piombo, benché dall'altra
parte della strettissima valle, che si strozza in quel punto, lasciando appena
appena luogo al fiume ed alla strada postale, si vede dall'alto in basso la
chiesetta di San Gottardo, di cui la torre scorcia tanto che diventa nana, e
gli archi del piccolo portico sembrano schiacciati. La prima volta poco mancò
che non mi venisse il capogiro. Volevo andare più alto, lì dove la rupe nuda,
quasi verticale, concede appena il posto per mettere il piede tra le sue
strette fessure. Guardai indietro. Il monte, che mi stava alle spalle, tutto
ombroso, spiccava sull'aria celestina.
Saranno state le cinque di sera, due settimane dopo il mio
arrivo a Garbe. Il sole cominciava a scendere dietro il giogo della montagna;
un vento fresco soffiava dalla gola della vallata, e bisognava tenere il
cappello perché non piombasse nel precipizio, quando uno sbuffo impetuoso,
mentre coglievo con le due mani non so che strane foglie, lo fece arrotolare un
tratto, poi andare a balzelloni dall'una all'altra sporgenza delle acutissime
roccie.
Gli dissi addio, e continuavo a capo nudo le mie osservazioni
estetiche sulle piante, allorché, passati appena dieci minuti, mi comparve
innanzi all'improvviso una montanara, la quale, un poco imbarazzata e con
rustico garbo, mi porse il disgraziato cappello. La ringraziai di cuore, e la
guardai in viso. Poteva avere dai sedici ai diciassette anni: abbronzita, ma
sotto la tinta del sole s'indovinava l'incarnato fresco; nella bocca piccola
splendevano i denti, ammirabili di regolarità e di bianchezza; negli occhi
v'era un certo che di selvatico e di curioso, una timidità un poco
impertinente.
- Bella giovane, siete di Garbe?
- Signor no. Sono di Idro.
- E vi fermate qua?
- Parto domani con mio padre, che è lì tra i cespugli insieme
con le nostre capre. Lo vede? Guardi bene, lì in fondo - e m'indicava il luogo,
ma io distinguevo appena di lontano un uomo che aveva la barba bianca.
- E ad Idro dove state?
- Fuori del paese circa due miglia, sulla via che conduce al
monte Pinello.
- E che nome avete, bella fanciulla?
- Teresa, a' suoi comandi, signore.
Si continuò a discorrere. Io la tempestavo di interrogazioni,
guardandola negli occhi, i quali ora vagavano di qua e di là impacciati dal mio
sguardo, ora mi si ficcavano in volto, anzi addirittura nel cuore. Ad uno sposo
non aveva pensato mai: non sapeva, e lo giurava ridendo e spalancando gli occhi
sinceri, che cosa fosse amore. Ella non aveva nessuno al mondo, salvo il padre,
che l'adorava, s'intende, e non l'aveva mai lasciata un giorno dacché era nata;
ma il buon vecchio doveva andare appunto allora per quindici dì a Gardegno a
far valere i proprii diritti sulla successione di un fratello, morto con molto
ben di Dio e senza figliuoli. Il vecchio, già caporale sotto l'Austria, leggeva
e scriveva come un notaio, era uomo di conto e per giunta più agile, più
vigoroso, più coraggioso di un giovanotto di vent'anni. La fanciulla,
nell'assenza del padre, rimaneva ad Idro, affidata ad una santola di
settant'anni.
Dottore, ve lo immaginate, andai per quindici giorni ad
abitare il pulito e solitario alberguccio di Idro. Tutte le mattine e tutte le
sere salivo lungo la stradicciuola erta, torta, sparsa di sassi acuti, che
conduce a monte Pinello, e mi fermavo alla casa della montanara gentile. Due
giorni disse di no; poi non ci fu angolo erboso di quella scoscesa china su cui
non ci si adagiasse a discorrere, di giorno cercando l'ombra più cupa sulle
sponde di un torrentello, entro una grotta naturale, negli ampi interstizii dei
massi enormi precipitati Dio sa quando dalle creste del monte; di sera, durante
le prime ore della notte, cercando una zolla morbida sotto il cielo stellato.
La Teresa, certo, non somigliava alle ragazze di città: la sua
pelle era ruvida, la sua passione quasi ferina. Nei primi giorni amava tre
cose: il suo padre, le sue capre e me; dopo una settimana non parlava più del
padre, non badava più alle capre, mi aspettava sull'uscio del casolare a
cominciare dall'alba, spesso mi veniva incontro sino ad Idro, mi trascinava, mi
violentava, mi buttava in terra come se volesse sbranarmi.
Certe volte dal suo corpo esalava un odore acre e inebbriante
di erbe selvatiche, certe volte un puzzo di capra nauseabondo, e non di rado un
fetore di strame, che ammorbava. Insomma invocavo tra me il ritorno del
vecchio.
Il giorno innanzi al suo arrivo cercai di preparare Teresa
alla mia partenza: le dissi che dovevo andare a Brescia e a Milano, ma mi
affrettai a soggiungere che sarei tornato presto, dopo due settimane al più,
forse dopo una. Ella non piangeva: tremava tutta, ed era diventata del colore
del piombo. Ripeteva con voce strozzata: - Lo so che non torni più, lo so che
non torni -. Io promettevo, giuravo, ma ella mi continuava a guardare con gli
occhi senza lagrime, e, fatta veggente dalla passione, insisteva: - Non torni
più; lo sento qui nel cuore che non torni più -. Non potei cavarle altre
parole.
Invece di andare a Brescia o a Milano, tornai a Garbe. Avevo l'anima
rósa dal rimorso: tante volte mi sentivo spinto dalla coscienza a correre ad
Idro, alla capanna di Teresa; poi gli abbracciamenti suoi, furiosi e disperati,
mi facevano paura, e non di meno io non potevo pensare ad altro che a lei. Non
sapevo se l'amassi, benché l'immagine sua mi stesse scolpita sempre davanti.
Finalmente, dopo una trentina di giorni, la coscienza vinse, forse anche la
curiosità. Andai ad Idro, e, traversando i magri prati, arrampicandomi sulle
roccie, risalendo il letto di un torrente asciutto, mi trovai di contro al
casolare dall'altra parte della stradicciuola; gli alberi ed i cespugli mi
nascondevano.
La fanciulla stava sull'uscio, immobile, esposta senza riparo
ai raggi del sole. Nel primo istante non la riconobbi: la carnagione era
diventata d'un rosso cupo, i capelli le cadevano sulla fronte e sulle spalle a
ciocche sconvolte, il viso appariva stranamente smagrito e allungato, il labbro
inferiore pendeva in giù, gli occhi spenti fissavano innanzi senza vedere: non
so perché, credetti di essere in faccia a un cadavere bruciato. In
quell'istante una voce d'uomo chiamò dall'interno del casolare così sinistra e
soffocata che pareva uscisse da un sepolcro: - Teresa, Teresa -. La fanciulla
non diede segno di avere udito, e la voce continuava tetra e straziante: -
Teresa, Teresa.
Scappai; corsi a Brescia, ma il rumore della città mi riescì
insopportabile: tornai a Garbe, dove, a forza di ripetere a me stesso, che il
tempo rimedia a tutti i mali, anche agli strazii della passione e dell'abbandono,
trovai qualche momento di pace. Non ostante, dormivo poco, tormentato com'ero
da sogni orribili e da inquietudini febbrili; mangiavo pochissimo; camminavo
molto, sperando nella stanchezza.
* * *
Vi dicevo dunque, dottore, che il dì 24 dello scorso ottobre
passavo sul far della sera dal Ponte dei Re accanto a Garbe. Un uomo,
appoggiando i gomiti sul parapetto e il mento sulle palme, guardava molto
attentamente l'acqua del fiume. Uscivano tra le sue dita delle ciocche di barba
bianchissima; la faccia, mezzo nascosta dal cappello tirato sulla fronte, non
si vedeva bene. Non era vestito propriamente né da contadino, né da operaio:
portava una casacca e de' larghi calzoni d'un colore chiaro grigiastro.
Passai accanto al vecchio; non si mosse; continuò a fissare
l'acqua vicino alla pila del ponte, dove, stringendosi per attraversare le due
arcate, gorgoglia impetuosamente. Guardai abbasso anch'io, credendo che vi
fosse qualcosa di curioso a vedere; non avvertii niente di strano, ma quel
gioco di onde, a cui non avevo mai badato, mi piacque.
È una lotta formidabile tra l'acqua che corre e i sassi
colossali che tentano di sbarrarle la via. E le onde, incalzate da quelle che
sono dietro, e queste cacciate innanzi dalle altre più lontane, a cominciare
dai rigagnoli nascenti nelle nubi, quanta fatica, quanta astuzia devono
adoperare, e come s'affannano a spuntarla di proseguire il loro cammino! Lo
spettacolo del contrasto fatale tra il moto e l'immobilità, eterno e d'ogni
attimo, mette nell'anima un timido scoramento, e nello stesso tempo fa
sorridere di un così cieco impeto nell'operare e di una così orba caparbietà
nel resistere. C'è dei momenti, in cui le forze opposte della natura somigliano
a fanciulli mal educati, l'uno dei quali gridi voglio, e l'altro,
pestando i piedi, ripeta non voglio.
E su quei massi, i quali spuntano fuori dal letto, che non è
un letto di pace, vegetano, seminati dal vento in un pugno di terra deposta
colà dallo stesso vento a un granello alla volta, de' virgulti di salici, degli
arboscelli di pioppo, i quali canzonano, deboli e flessuosi, la furia che li
circonda. La natura, come la vita, è una catena di vani sogghigni.
Se il masso non solleva molto la testa, l'acqua gli corre su,
e scende poi in cascate gaie, cercando il piano più basso: è un cristallo
terso, curvo, regolare, una campana lucida, un ombrello trasparente, con
qualche filetto opaco di vetro di Murano; e si frange poi a' piedi in ispruzzi
d'infinite perlette bianche, di quelle che le Muranelle infilano le sere d'estate,
sedute sul gradino della porta di casa, ciarlando di Tita e di Nane.
L'onda è avveduta: sceglie per solito il cammino migliore. Ma
qualche volta si trova chiusa tra i sassi, e allora, non potendo aspettare,
scatta in uno sprazzo e via; tal'altra si caccia distrattamente in un
laberinto, e gira e rigira e, se vuole uscirne, le conviene tornare indietro;
finalmente accade che ella si smarrisca in uno spazio dove il caso ha messo un
insormontabile sostegno di pietre, e allora si ferma impaurita, perde la bussola,
s'accascia e da turbine diventa specchio. E sotto all'acqua, che riflette in
iride la tinta del cielo o che si trasforma in ispuma d'argento, v'ha il vario
e brioso colore dei sassi, giallo, rosso, bianco, verde di muschi e di licheni.
La gran battaglia si concentrava alla pila del ponte. Le onde
combattevano le onde, che cozzavano insieme, si spezzavano, si frantumavano,
s'accavalcavano, s'ammonticchiavano, diventavano matte di furor bellicoso,
mandavano bava in vece di sangue, e gocciole e stille sino al parapetto del
ponte, con un romore, con un frastuono da far tremare un eroe.
Il vecchio guardava sempre impassibile.
Andai per la mia strada, senza curarmi di lui, passo passo
fino a Nozza.
Il cielo nuvoloso, minaccioso, principiava a oscurarsi, e soffiava
un vento assai fresco dalle alte montagne. Rinunciai a proseguire la
passeggiata, e tornai indietro. Al Ponte dei Re c'era sempre il vecchio, nello
stesso posto, nella stessa attitudine di prima. Guardava sempre a' piedi della
pila. La cosa mi parve bizzarra; mi avvicinai al vecchio e gli dissi: - Buon
uomo, scusate -. Non si mosse. Continuai: - Scusate se vi disturbo; ma il cielo
è negro, minaccia il temporale e non è lontana la notte. Se abitate discosto,
dovreste incamminarvi.
Il vecchio si rizzò lento lento, mi guardò in viso come
trasognato, e, senza aprir bocca, tornò ad appoggiarsi al parapetto e a
contemplare il fiume.
Io insistetti:
- Avete bisogno di nulla?
- No -, rispose senza voltarsi.
Gli diedi la buona notte e m'avviai verso Garbe. Fatti cento
passi mi voltai. Non so se fosse curiosità o compassione: nella faccia di quel
vecchio bianco credevo di avere letto un dolore profondo, una sinistra
melanconia. Pallido, con gli occhi infossati, con le labbra nericcie, mi aveva
fatto pietà e terrore. Mi trovai al suo fianco, portato da una forza quasi
involontaria, e gli dissi interrottamente, aspettando una risposta che non
veniva:
- Scusate di nuovo. Ditemi se posso giovarvi in qualcosa. Vi
sentite poco bene? Vi offro una stanza a Garbe per questa notte. Mi sembrate
forestiero. È accaduto anche a me fuor di paese di trovarmi senza danaro: ne
avete forse bisogno?
Dopo queste ultime parole il vecchio si voltò gravemente,
tentando di muovere le labbra a un sorriso. - Grazie, non mi occorre nulla -, rispose.
Poi, messa la mano nella tasca dei calzoni, ne cavò il pugno serrato e,
alzatolo sopra il parapetto, l'aperse. Il vento fece volar via nel fiume,
sparpagliati qua e là, forse una ventina di piccoli biglietti.
Mentre io, irritato, stavo per rimproverarlo, balbettò con
voce strozzata: - Ho sete.
- Scendete a bere nel fiume -, esclamai duramente.
Il vecchio s'incamminò alla rampa scoscesa, che va giù a lato
di una testata del ponte; ma, giunto lì, vacillò sulle gambe mal ferme. Corsi
ad aiutarlo e, sostenendolo per l'ascella, lo condussi al fiume. Riempii io
stesso il suo cappello di acqua. Bevette a brevi sorsi.
- Non vi rimettete subito il cappello bagnato in testa, che
non vi faccia male. Abitate lontano?
- No.
- Ma non siete di questo paese?
- No.
- E dove state di casa? Vi accompagnerò.
- Non importa. Sto vicino.
- V'accompagnerò ad ogni modo.
Il vecchio mi guardò dritto negli occhi, e con accento
risoluto disse: - Non voglio.
Poi, meno seccamente, aggiunse quasi con ripugnanza: - Aspetto
qualcuno.
- Un figlio forse?
- Non ho figli.
- Un parente?
- Non ho parenti.
- Un amico?
- Non ho amici.
- Chi dunque?
Pensò un poco e rispose:
- Il destino.
S'appoggiò di nuovo al parapetto del ponte e tornò a guardare
l'acqua di sotto.
- Perdonate alla mia insistenza. Di che paese siete?
- Di un paese dove si muor di dolore.
- E andate?
- In un paese che non conosco.
Queste risposte misteriose fecero nascere nel mio cervello uno
sciocco sospetto. Esclamai con espansione: - Se dovete rimanere nascosto, se la
giustizia vi cerca, giuro che non vi tradirò.
Il vecchio s'alzò dritto in piedi, e rispose alteramente: -
Non ho nulla da nascondere agli uomini -. Poi, mormorando tra sé: - La mia
coscienza è pura.
- Gli uomini vi hanno ingannato forse, vi hanno fatto del
male? Avete trovato al mondo molti nemici?
- De' nemici? Ne ho avuto uno solo.
Quest'ultima frase venne pronunciata dal vecchio con voce così
cupa, il suo occhio era così bieco, ch'io mi sentii gelare. Gli dissi: - Vi
lascio dunque, e Dio vi benedica.
- Dio, Dio! - sentii ripetere parecchie volte; e la voce
sepolcrale del vecchio si perdeva nel muggito del Chiese.
* * *
Non intendevo di abbandonare il pover'uomo. In quattro salti
fui a Garbe con l'intenzione di parlare al sindaco, medico valente e cuor d'oro,
e di condurre meco due contadini, i quali facessero la guardia, foss'anche per
tutta la notte, al vecchio strano. Trovai il sindaco sotto il portone della sua
casa, una casa antica, murata da un suo antenato, gentiluomo francese, fuggito
dalla strage di San Bartolomeo.
Il sindaco discorreva con il segretario comunale e con l'oste
di Sabbio, due tipi curiosi. Questi con la faccia tonda, grasso, grosso, il
pizzo lungo e folto sotto a due gran baffi neri, le sopracciglia spaventose, la
voce tonante, un cappello in testa di larghe tese, a cui non manca altro che la
piuma per potersi dire spagnuolo; famigliare con tutti, spavaldo, buon diavolo,
mette la mano in atto di protezione sulla spalla dell'avvocato, del farmacista,
del signor cavaliere, e apre volentieri la larga bocca al riso sguaiato, mentre
dice una barzelletta sporca; una specie d'idalgo, che versa maestosamente il
vino dal boccale nel bicchiere de' suoi avventori, che tiene il pugno al
fianco, maravigliato di non trovarvi la spada, e s'è mangiato in qualche mese
per darsi il gusto di parere un negoziante in grosso il poco suo patrimonio, e
spera di portare le ossa in una grande città degna di lui, lontano dalle
piccolezze montanare, dove si sente proprio fuori di posto. L'altro, il
segretario comunale, sottile e lungo come il campanile di Garbe: veste da
contadino, con la giacchetta e i calzoni di quella certa stoffa lustra color
cannella sudicio, ma tiene la giacchetta buttata sulle spalle, mostrando la
camicia, che non pare sempre di bucato, e le braccia, e il petto nudi, assai
più scuri dell'abito; ha letto Dante, scrive da letterato fino, sa a mente
tutte le innumerevoli ordinanze, tutte le infinite circolari prefettizie
indirizzate al Comune, che è cosa miracolosa; cita versi e proverbii latini;
non ha casa; l'inverno dorme sulla tavola nuda del Consiglio comunale, con una
busta dell'archivio per origliere e per coperta il tappeto verde: l'estate
dorme sotto il piccolo portico di quella chiesa di San Gottardo, della quale ho
parlato indietro, poggiando il capo allo scalino di granito, lungo disteso
sulle lastre sconnesse del pavimento, godendosi il vento fresco, che soffia
senza interruzione dalla stretta gola dei monti; vive di pane e di cipolle, di
polenta e cacio pecorino, ma si compensa con qualche bicchieretto di acquavite,
e, quando ne ha bevuto un tantino più del bisogno, vuole abbracciare tutti,
l'ostessa, il reverendo parroco, il sindaco, persino i carabinieri in
pattuglia.
Questi signori, e tre contadini, che ero andato a scovare
nella bettola vicina, s'avviarono meco al ponte. Si passò dalla chiesa di San
Gottardo, palazzo d'estate del segretario; ma, quando fui lì, non mi potei
trattenere: lasciai che il vecchio sindaco procedesse con il suo passo, che
egli, poveretto, cercava di affrettare, ma che mi sembrava ancora troppo lento,
e corsi innanzi. Andai su e giù per il ponte, precipitai abbasso dalla rampa
del fiume, guardai di qua e di là in quel buio della brutta notte che era già
principiata: non si vedeva un'anima. Gli altri mi raggiunsero ansanti. In un
batter d'occhio diedi le mie istruzioni. Il sindaco doveva fermarsi sul ponte;
l'idalgo doveva perlustrare un mezzo chilometro della strada di Nozza; il
segretario doveva rimontare il corso del Chiese lungo un viottolo a sinistra; i
tre contadini dovevano salire i meno erti sentieri delle montagne. Quanto alle
vie più scoscese non era neanche da pensare che il misero vecchio avesse potuto
tentarle. Quartiere generale: il ponte.
Io m'ero serbato le capanne dei carbonai, di là dal Chiese. In
quindici minuti salii alla prima casupola. Tutti dormivano; picchiai forte;
nessuno rispose; tornai a picchiare con tanta violenza che i colpi rimbombarono
nella valle, e udii finalmente delle voci e delle imprecazioni. Dopo un poco di
tempo s'aperse il finestrello e vidi una testa nera, nella quale brillavano due
occhi da gatto.
- Sapete niente di un vecchio con la barba bianca, lunga,
mezzo malato, vestito di panno chiaro, un forestiere che vagava stasera presso
il Ponte dei Re?
- Andate all'inferno.
- Domandatene, di grazia, ai vostri compagni.
- Andate all'inferno voi e il vecchio - e chiuse la finestra.
Dopo un quarto d'ora avevo già rifatto il cammino, ed ero
salito da un'altra parte ad un'altra capanna. Il mio bastone nell'urtare sul
legno del piccolo uscio destò quattro o cinque echi sulle cime dei monti.
- Chi è là?
- Un amico.
- Il nome?
- Un amico.
- Non apro.
- Venite alla finestra.
- Non mi muovo.
- Avete visto un vecchio?
- Non ho visto nessuno.
- Un vecchio vestito di chiaro, con la barba lunga e bianca,
infermo.
- Non ho visto nessuno.
- Passeggiava stasera sul Ponte dei Re e nelle strade vicine.
- Non ho visto nessuno, vi dico - e tornò a russare.
Tre quarti d'ora dopo eravamo tutti sul ponte. Non s'era
trovato niente, non s'era saputo niente. Neppure i due carabinieri di Vestone,
che l'idalgo aveva incontrati sulla via e aveva condotti seco, ci poterono
aiutare in nulla. Il sindaco giudicò allora, che noi dovevamo andare a dormire.
Era, infatti, la sola cosa ragionevole che ci restasse da fare.
Vi ho detto, caro dottore, come il mio sindaco sia una perla
d'uomo. Ha un modo suo proprio di curare la difterite, in grazia del quale
salva realmente tutti i bambini del Comune. Parla de' suoi rimedi con
entusiasmo giovanile: non fallano; ad una infiammazione ci vuole il salasso,
anzi ogni malanno guasta il sangue, ed il sangue corrotto va tolto via, perché
se ne formi del sano.
Ora vive senza troppe angustie, badando a' suoi pochi campi;
ma fu trent'anni medico condotto, e quando ricorda le fatiche lunghe e mal
compensate, il sollione, la neve, il gelo, i turbini sulle montagne, lo fa con
tanta dolcezza, che pare quasi un rimpianto. Discorre de' suoi malati
volentieri, con modestia affettuosa, e, se può dire di averli strappati alla
morte, due lagrime di compiacenza gli scendono sulle gote. Ha la barba grigia,
i capelli appena brizzolati, i denti candidissimi, gli occhi celestini, la
fronte da uomo intelligente e virtuoso. Piglia tabacco e lo offre. Dichiara
ogni anno che non vuole più essere sindaco; poi ci ricasca. Non sa dire di no:
tutti, anche i cattivi, lo rispettano e gli vogliono bene. Non l'ho mai sentito
pronunciare su nessuno, fosse il più grande scellerato, una parola severa,
aspra o pungente: non trova in quella sua anima mite un accento sgarbato
nemmeno per l'omeopatia, ch'è tutto dire. Narra molto naturalmente i casi
semplici della sua vita, quando, studente all'Università di Padova e ricco di
una sola svanzica al giorno, si faceva dare all'osteria il riso stantìo per
pagarlo un soldo meno, e ossi di manzo scarnati, e culi di salame: non beveva
mai vino. Un dì, avendo visto nella Piazza dei Signori un giuocatore di
bussolotti, gli si fece amico, andò a desinare con lui più volte, finché imparò
il segreto della magia, pensando che se la medicina falliva, quest'altra arte
lo avrebbe potuto soccorrere. Racconta una interminabile filza di storielle,
parte da stare allegri, parte da spaventare.
* * *
Bisogna ch'io entri finalmente nel cuore del mio racconto. Vi
siete accorto che mi ripugna; infatti nello scorrere gli sgorbii buttati sulla
carta conosco di avere fatto come colui, al quale duole un dente e va per
farselo strappare. Esce lesto, quasi correndo; ma, di mano in mano che si
avvicina alla casa del dentista, rallenta i passi, finché, giunto alla porta,
si ferma perplesso, chiedendo a sé medesimo: - Il dente ora mi duole o non mi
duole? - E così torna indietro un buon tratto di via; e ogni inezia gli serve
per tirare in lungo, un avviso sulla cantonata, un cane che abbaia. Poi si vergogna,
e sale fino all'uscio, e quando, risoluto, ha già in mano il cordone del
campanello, domanda a se stesso di nuovo: - Me lo devo far cavare sì o no?
Insomma, coraggio. Quella sera, dopo avere dato a' tre contadini
i soldi per bere qualche boccale, dopo avere salutato il sindaco, che rientrava
in casa, il segretario, che andava ad augurare la felice notte all'acquavitaia,
e l'idalgo, che, canterellando con la sua voce di basso, tornava a Sabbio, io
non mi sentii nessuna voglia di dormire, e neanche di scrivere, di leggere o di
discorrere. Avevo un gran peso alla testa, e provavo il bisogno di aspirare, di
cacciar negli ultimi meati dei polmoni l'aria frizzante.
C'era stata, sere addietro, nell'osteria una interminabile
discussione intorno a questo punto; se, tra Vestone e Vobarno, le trote si
peschino più facilmente sul far della sera, la mattina di buon'ora, la notte
con la luna o la notte buia.
Un pescatore giurava che nell'oscurità profonda ne acchiappava
un subisso.
Presa la canna e un lanternino andai a piantarmi dall'altra
banda del Chiese, dove certi enormi massi formano una specie di diga. Mi pareva
di quando in quando di sentire abboccar l'amo, e tiravo su; niente. Stufo, mi
posi a sedere sopra una pietra e a guardare intorno. Non si vedeva un bel
nulla. Nero il cielo, nera la terra: non una stella, non un lume. Garve,
nascosta da un gruppo di alberi, a quell'ora dormiva. Sul dorso del monte, lì
nel sito ove doveva essere Provaglio, apparve un luccichìo, forse una candela
accesa al capezzale di un moribondo. Era un sepolcro di tenebre, ma un sepolcro
pieno di frastuoni. Il Chiese, battendo contro i sassi, faceva una musica da
assordare: c'erano dentro tutti i toni, tutti gli accordi, e il vento v'aggiungeva
le estreme note acute. A un poco per volta si finiva ad assuefare gli occhi
all'oscurità e a distinguere qualche cosa: i grossi rospi schifosi, per
esempio, che sbalzavano di traverso accanto a me, la spuma bianca, anche il
verde cupo dell'acqua.
Avevo ripreso la canna per ritentare la sorte, quando vidi
correre a precipizio con le onde e fermarsi alla diga una massa grande,
biancastra. Non capivo che cosa fosse, e pure un brivido mi corse dalla testa
ai piedi. Presi il lanternino, che avevo lasciato sul sentiero; ma, mentre mi
avvicinavo col lume a quell'oggetto grigio, l'acqua, che gli aveva fatto
intorno un gran lavorìo, lo sollevò e lo portò a venti passi lontano, dove
diede di cozzo in una gran pietra che usciva dal fiume. L'attenzione intensa mi
aguzzava la vista. Aiutato dal pallido chiarore della lanterna tentai di
guadare il piccolo tratto, mettendo i piedi sulle teste dei sassi: non mi
riuscì. Stetti immobile, con gli occhi fissi. Le onde percuotevano la massa
informe, schizzando bava, come se fossero adirate, e le giravano intorno,
formando un vortice rapidissimo: il Chiese s'ostinava rabbiosamente nel volere
trascinar via la sua preda. La spuntò. L'oggetto strano fece il giro del sasso
e ripigliò il suo cammino, rovesciato in gran furia dal fiume.
Allora principiò una lotta terribile tra me, che volevo
conoscere il mistero di quella cosa biancastra, e il fiume che me lo voleva
nascondere. Conoscevo a passo a passo i viottoli della sponda: in un solo luogo
la roccia, che si alza quasi verticale per un centinaio di metri, obbliga a
salire e a discendere; il resto della via, fino a Sabbio, è piano. Ma quella
salita e sopra tutto quella discesa non erano senza pericolo nelle viuzze
strette, fiancheggiate da un burrone, la notte. Le piogge dei giorni precedenti
avevano fatto franare in un punto la terra del viottolo, e bisognava sbalzare
sul precipizio. Saltai senza pensarci, non sapendo dove avrei messo i piedi, e
mi trovai dall'altra parte sano e salvo, ma col lumino spento. Continuai la
strada da capre nel buio, intoppando negli sterpi, chiuso tra gli arbusti
spinosi, scivolando giù dalla china sui ciottoli tondi, che rotolavano al
piano. Finalmente giunsi di nuovo alla riva del fiume.
Ma, dov'era andata la massa grigia? Era corsa innanzi senza
intoppi, o gli ostacoli, di cui è pieno il Chiese, l'avevano trattenuta?
Aspettai un pezzo senza batter le palpebre, con gli occhi inariditi che mi
bruciavano. Alla fine passò nella corrente, in un attimo.
Ripresi a correre anch'io su quel margine, dove nascono i
salici sottili e le larghe foglie delle ninfee. Più su il prato è verde,
smaltato di fiori, e ai pioppi si mischiano i pini, gli olmi, qualche piccola
quercia. Lì m'ero posto a sedere tante volte sopra un tronco abbattuto,
studiando le formiche, ammirando gl'insetti gialli d'oro, rossi di rubino,
verdi di smeraldo, leggendo un bel libro o fantasticando alle cose gaie nella
vacuità della vita. Poco lontano, dove il viottolo costeggia un campo di magre
pannocchie, m'ero sdraiato una mattina a guardare per un'ora di seguito tre
giovani donne, che raccoglievano le noci, le quali, scosse da un ragazzo
sull'albero, cadevano nel fiume, e le tre donne, ridendo, mostravano le grosse
gambe fin sopra il ginocchio, con le gonne legate ai fianchi.
La macchia grigia era andata ad arenarsi sopra un banco di
ghiaia, accanto alla riva. Mi tolsi le scarpe e le calze, mi arrotolai i
calzoni alle cosce, e camminai tra le onde. Non mi reggevo in piedi. Il fiume
mi tirava giù con una violenza invincibile. Sentii la piccolezza dell'uomo in
faccia alla volontà delle cose insensate. In quell'istante il Chiese dovette
chiamare in aiuto tutte le forze de' suoi abissi: coperse il banco di ghiaia
con un'ondata impetuosa e, avvoltolando l'orrido oggetto biancastro, lo portò
via inesorabilmente. Mi sentii vinto.
Rientrando nella mia camera di Garbe ero inzuppato d'acqua e
di sudore, sfinito; avevo gli occhi gonfi, la testa in fiamme; i polsi
martellavano. Non potei chiudere occhio. Appena giorno mi alzai barcollando, e
sulla sinistra del Chiese, lungo la via postale, andai a Sabbio. Ora le mie
membra erano tutte ghiacciate, ora dovevo asciugarmi la fronte.
A Sabbio, dove spesso andavo a far colazione, l'idalgo e la
sua moglie ostessa m'accolsero con un mondo di cortesie, chiedendomi venti
volte se stavo male. - Non è niente, - rispondevo, - l'aria fresca, la
passeggiata e la colazione mi rimetteranno -. Non mangiai nulla. Guardavo come
in sogno il largo portico adorno di ragnateli, le chioccie che venivano a
beccheggiare i minuzzoli di polenta per portarli a' pulcini, la chiesa della
Madonna, la quale, alta com'è sul colle e posta lì proprio accanto, pareva
piantata sopra i tetti dell'osteria.
Mentre io stavo immerso in queste visioni, entra uno dei
figliuoli dell'ostessa, Pierino, bel ragazzotto di sette anni, saltando, e si
mette a gridare: - Mamma, l'ho visto, sai?
- Chi?
- L'uomo che hanno trovato nel fiume stamattina.
- È bello?
- No, è tanto brutto. Domandalo alla Nina.
La Nina era entrata insieme col fratello, ma s'era tosto
rincantucciata in un angolo del portico, con le mani giunte, mormorando
qualcosa sotto voce. Si sentiva a intervalli la parola Requiem, flebile,
soffocata.
- È giovine o vecchio? - ripigliò la madre.
La Nina non rispose. Rispose Pierino: - È vecchio, ha la barba
bianca, lunga lunga. Ha gli occhi stralunati.
- Dov'è? Voglio vederlo - gridai scattando in piedi. L'ostessa
mi sbirciò, e bisbigliando: - Dio, che gusti! - ordinò a Pierino di
accompagnarmi.
In quattro salti fui alla chiesa, quella del paese basso. In
una stanza umida annessa alla sagrestia avevano esposto il corpo dell'annegato.
La stanza era piena zeppa di contadini. Uno diceva: - Chi lo deve conoscere? Si
vede bene da' panni che non è del paese.
Un altro soggiungeva: - Io dico che è tedesco.
- No, è di Milano.
- Indosso non gli hanno trovato niente? - chiedeva un
giovinotto.
- Niente: né una carta, né un soldo.
- Si sarà affogato per la miseria.
- Io dico che è cascato nel fiume.
- Io dico che ve l'hanno gettato.
- L'occhio è da demonio.
- Con quella bocca aperta sembra che ci voglia mangiare vivi.
Una bambina si nascondeva, tremando, dietro al corpo del
padre, e ripeteva: - Ho paura, ho paura; andiamo via.
Il padre intanto esaminava da vicino l'abito dell'annegato, lo
toccava e sentenziava: - Bel fustagno! Dev'essergli costato caro.
M'ero cacciato innanzi tra la folla. Il vecchio del Ponte dei
Re fissava gli occhi nel mio volto, sinistri, minacciosi. Sentivo in quello
sguardo immobile un supremo rimprovero. Alle orecchie mi ronzava un soffio da
tomba, che diceva: - Tu mi hai lasciato morire: sii maledetto. Tu potevi
salvarmi, tu mi hai lasciato morire: sii maledetto. Tu avevi indovinato quel
che io stavo per compiere, tu mi hai lasciato morire: sii maledetto.
Il soffitto della stanza mi crollava sul capo; la folla mi
stritolava. Credevo di essere nell'inferno, in mezzo ai diavoli, giudicato
dalla voce cavernosa e dagli occhi implacabili di un cadavere grigio.
Entrò un contadino, che avevo visto a Idro. Guardando
l'annegato, esclamò:
- Povero vecchio, le voleva tanto bene! Due giorni soli ha
potuto vivere dopo morta la sua Teresa!
* * *
Mi posero a letto con una febbre da cavallo. Le impressioni di
quella mattina, le fatiche della sera precedente, i rimorsi, produssero il loro
effetto: avevo delle allucinazioni spaventose. Gli occhi infiammati mi dolevano
assai. Il mio buon sindaco veniva a visitarmi due volte al giorno, e mi stava
accanto delle lunghe ore, porgendomi egli stesso le medicine e raccontandomi
piano, quando gli sembravo un po' quieto, qualche storiella, che non mi faceva
sorridere.
D'allora in poi la febbre s'è mitigata, ma, ad onta del
chinino, non m'ha voluto lasciare. I medici dicono che è di quelle periodiche,
le quali si pigliano facilmente con l'umidità e con gli strapazzi. Io la
sopporto in pace; ma non posso tollerare in nessun modo questa maledetta
macchia negli occhi. Appena uscito dai vaneggiamenti, me la son vista dinanzi,
e continuo a vederla, come vi ho descritto, ostinata, abbominevole...
Ecco, anche in questo momento uno spettro scialbo e confuso mi
balla di contro, ecco che insudicia il foglio bianco.
Il sole è già tramontato, e la scrivania rimane in una
penombra, che mi basta a gettare sulla carta in furia queste parole, ma che non
mi lascerebbe rileggerle. Volevo finire prima di accendere il lume, e la
macchia si giova della mezza oscurità per lacerarmi il cervello...
La macchia cresce, la macchia - cosa nuova! - prende una forma
d'uomo Le spuntano le braccia, le spuntano le gambe, le nasce il capo. È il mio
vecchio, il mio terribile vecchio!
Parto stasera; vi consegnerò io stesso domani questo
manoscritto. O guarisco o mi strappo gli occhi.
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