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Era l'ultimo giorno dell'anno, un anno pieno di malinconie e
di fastidii.
Avevo pagato il conto all'oste dei Tre Turchi, e m'ero acconciato
nella carrettella, che doveva condurmi al Santuario: una salita di settecento
metri, a dir poco. Il sole cadente picchiettava di ombrette e di scintille il
fango della strada, il quale, schizzando a destra e a sinistra, pareva
borbottasse pettegolo contro le ruote, che ne disturbavano la quiete molle. Su
quella mota nerastra, tormentata a lunghi intervalli dai pesanti carri delle
ferriere vicine, si distendevano ampie striscie o s'alzavano grandi cumuli di
neve, chiazzata qua e là di brutte macchie di melma e bruna al paragone dei
lenzuoli candidi, che coprivano i campi ondeggiati, divisi da fossatelli, e i
tetti dei casolari e delle villette sparse sulle alture. Di mano in mano che si
andava in su, il fango scompariva per lasciare posto anche sulla strada alla
neve, solcata da poche linee profonde; e, un'ora prima di giungere al
Santuario, i due cavalli, sbuffando, sudando, tendendo faticosamente i muscoli,
cacciando le gambe nella neve fino alle ginocchia, riuscivano a malapena a
tirare il legnetto, di cui le ruote si sprofondavano quasi fino all'asse.
La temperatura, ch'era stata assai mite, essendosi fatta
freddissima, principiavo a sentirmi i piedi gelati e le mani intirizzite.
Battevo i denti quando, verso le sette, al buio, si giunse nel primo cortile
dell'ospizio. Le gradinate magnifiche erano scomparse; qualche pezzo di
balaustro, le cimase, i vasi barocchi, non si vedeva altro. Le immense ali
dell'edificio s'alzavano tetre, e gli archi aperti del vasto atrio, in quella
luce notturna della neve, azzurrognola e pallidissima, sembravano l'ingresso
d'un cimitero fantastico.
Il vento cacciava sotto all'atrio un pulviscolo ghiacciato,
sottile, turbinante, che si faceva strada fra il collo e la pistagna della
pelliccia, fra le maniche e i polsi. Un uomo mi venne incontro con la lanterna;
e mentre io gli chiedevo del signor rettore dell'ospizio, e lo pregavo di
condurmi subito al fuoco, ecco che s'avanza a un tratto fra lui e me una
testina bionda di donna: e le sue labbra sorridevano, ma fissò gli occhi ne'
miei con uno sguardo così audace e lungo che io rimasi turbato. Quella
sfacciataggine non s'accordava coi lineamenti soavi del volto, né coll'abito
della bella persona. Aveva il capo chiuso in una specie di cuffia bianca e il
vestito di colore azzurro; un grembiule candido le si annodava alla vita
sottile e contornava i fianchi e si alzava a coprire la curva del petto, sulla
quale scendeva, appesa ad una fettuccia di velluto nero, una croce d'argento.
Mentre io guardavo la strana fanciulla dalla testa ai piedi, ella, immobile,
impassibile, continuava a fissarmi. In quello sguardo dritto e fiero c'era
qualcosa di tanto singolare, ch'io, che già tremavo dal freddo, mi sentii
rabbrividire.
Il servo, nel vedere la donna, non si scompose, ma le disse
dolcemente: - Signora, piglierà un raffreddore; venga con me - e, pregandomi di
aspettarlo due minuti, la accompagnò lungo il lato destro del portico.
Ella lo seguì sommessa, senza voltare il capo. La lanterna
che, ad intervalli regolari, spariva per un istante dietro alle colonne delle
logge, allontanandosi e diventando sempre più smorta, s'andò a perdere in una
vasta ombra, che mi parve quella d'una chiesa. E mi sembrò che dall'ombra cupa
uscisse un suono flebile e dolce.
Quando il servo tornò, gli domandai:
- Cantano in chiesa?
- Le Figlie di Gesù pregano la Madonna.
- E pellegrini ce n'è?
- Neanche uno. Con questo tempo! bisognerebbe essere matti.
Volevo chiedergli qualcosa della fanciulla bizzarra, ma mi
trattenni. Il buon uomo, zoppicando un poco, mi rischiarava i gradini dello
scalone.
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