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La camera, assai grande, era posta in un angolo dell'immenso
edificio; aveva due finestre piccole, dalle quali si vedeva giù nella notte una
zona biancastra e poi uno spazio nero, che si confondeva con le tenebre fitte
del cielo. Continuava a nevicare, e tirava vento. Il letto alto e larghissimo
aveva l'ampio padiglione di damasco cremisi a fiorami gialli, con quattro
angioletti dorati sulle aste torte; la coperta, che scendeva sino a terra, era
di raso giallo con disegni verdi, orlata di pizzo bianco. Accanto al letto
stava l'inginocchiatoio, e sull'inginocchiatoio spiccava dal parato del muro un
crocifisso d'ebano. Una delle pareti era ornata di un quadro assai bello, che
figurava un santo col bambino Gesù; nelle altre si vedevano in piccole cornici
alquante riproduzioni della sacra Immagine, qua ricamata a fili di seta rossa
in raso bianco, lì eseguita a bucherelli e ritagli in cartoncino, o modellata
in cera tramezzo a nuvole di cherubini e a ghirlande di frutta e fiori. Nella
camera reverendissima stonava la scatola di cerini, che Pasquale aveva
lasciato, dove dall'una parte si vedeva un caporale, che fa la sua brava
dichiarazione alla cuoca, e dall'altra una silfide molto scollacciata e
sbracciata.
Mi sdraiai nel seggiolone, e m'occupai un pezzo a guardare le
scintille del fuoco, che scoppiettava. Non volevo andare a letto prima che
l'orologio segnasse le dodici. Nell'animo pieno di una vaga afflizione mi
sentii nascere il desiderio acuto dei miei parenti, de' miei amici, che avevo
lasciato pochi giorni addietro, ma che avrei voluto vedere in quell'ora
appunto, nella quale l'anno vecchio spirava e il novello vedeva la luce. Poi
dicevo tra me: - Sono ubbie. Non ci ho pensato fino a questo momento, ed ora
perché ci penso? Che differenza c'è egli tra l'una e l'altra mezzanotte? Non
sono forse tutti uguali i giorni dell'anno? - E non ostante provavo dentro un certo
stringimento: mi pareva di essere rimasto a un tratto solo in questo mondo, e
sentivo un vuoto nuovo nella mia vita, un nuovo e lacerante distacco dagli
affetti mortali. Pensavo ad altre prime notti dell'anno: alle speranze, che si
spingevano audaci nei campi allettatori dell'avvenire, ai rinnovamenti del
cuore umano, che, pure invecchiando, crede di ringiovanirsi; e fra tutte quelle
notti, ce n'era una, una, che mi tornava con tenace insistenza nella memoria,
come il ricordo straziante d'una gran gioia irremissibilmente perduta.
Il minuto in cui un anno si connette ad un altro è una pietra
miliare nell'esistenza dell'uomo, o è la cifra d'un numero, che si muta?
Guardavo la lancetta ed ascoltavo il tic tac del mio oriuolo nel silenzio
profondo. Non si sentì neanche un rintocco, neanche un botto di campana in
quell'ora in cui la immaginazione dei poeti e dei bambini evoca le streghe e
gli spettri.
Mezzanotte era passata da un po' di tempo, quando udii un
fruscìo, come di persona che si muovesse fuori, ed un bisbiglio, come di voce
che parlasse sommessa. Tesi l'orecchio: il romore continuava. Pigliai allora la
candela, e, spalancando l'uscio della camera, guardai nella vasta, ricca e
freddissima sala, che la precedeva.
I grandi ritratti appesi alle pareti, nel lume pallido
sembravano vivi. Forse quei personaggi che, dopo visitato il Santuario, avevano
mandato in larghe cornici dorate le loro gravi immagini, conversavano insieme:
erano dame in abito da corte, magistrati in divisa, marescialli in uniformi,
principi, due re, tre regine. La porta della sala dava sulla loggia: nella
loggia, sullo scalone non c'era un'anima. - Oh sta a vedere che ho da far con
gli spiriti! - brontolai fra me stesso. Rientrai nella camera risoluto a
lasciare che si sbizzarrissero a loro posta, e, non avendo sonno, mi sdraiai
daccapo nel seggiolone. Il fuoco s'andava spegnendo, e la candela mi lasciava
quasi al buio. Buttai nel camino un fascio di legne grosse.
Ma ecco che il bisbiglio ed il fruscìo vanno crescendo, e in
un angolo della camera s'apre un uscio a muro, ch'io non avevo visto, ed entra
col lume in mano, parlando tra sé a frasi lente e brevi, la bella bionda.
Mi sentii pietrificare. La donna, che doveva essere ben
pratica di quella stanza come dell'intiero ospizio, dove, tutto essendo
affidato all'onestà e alla decenza, gli usci mancavano di serrature, andò
dritta alla parete sulla quale stava appeso il quadro, e, posata innanzi ad
esso, sopra un tavolino, la lampada con cui era venuta, si mise a guardarlo
fissamente con quel suo occhio che trapassava gli oggetti. La tela
rappresentava un santo giovane, di volto pallido, delicato, soave; aveva la
barba alla nazarena, i capelli neri, lo sguardo tenero e le labbra socchiuse,
come se pronunciasse flebilmente una parola d'affetto. Accanto, sopra un
altare, in mezzo a festoni di allegri fiori, si vedeva il Bambino, tutto nudo,
che, alzando i braccini e facendo atto di saltare, pareva volesse uscir di
botto dalla cornice per gettarsi nelle braccia di chi lo stava guardando. Era
roseo, era paffutello, era gaio, vispo, gentile, carezzevole: un amorino da
mangiar di baci.
La bella bionda guardava ora il santo, ora il bambino. Al
santo diceva:
- Ti ricordi, Giovanni, la mattina in cui ci siamo sposati? La
mamma non voleva, il babbo non voleva; facevano tanti discorsi, che non capivo.
Io credeva soltanto a te. Che lieta mattina! Mi stringevi la mano, e mi dicevi
una parola... Ripetila, te ne scongiuro. La indovino dalla tua bocca. Eravamo
in paradiso, seduti l'uno accanto all'altra sotto un baldacchino, in mezzo a un
prato fiorito, e le fanciulle e i giovinetti ci venivano intorno a cantare, a
suonare, a ballare; ci facevano una riverenza, e noi salivamo nel nostro trono
un gradino più in su, poi un altro gradino e un altro gradino ancora: era la
scala di Giacobbe. Quando fummo arrivati al più alto di tutti i cieli, mentre
ti davo un bacio, una mano di ferro mi buttò giù d'un colpo, e allora
precipitai dalle nuvole a capo fitto, e scendevo, scendevo sempre, e il viaggio
non terminava mai. Era un sogno. Ti ho ritrovato; eppure non somigli a quello
di prima. Prima mi parlavi, mi baciavi, mi stringevi fra le tue braccia;
eravamo in festa tutta la settimana; ora sì, mi vuoi bene, non dico di no, ma
sei tutto misteri.
Vuoi che aspetti? Sempre aspettare, sempre. Domani, doman
l'altro, non ti risolvi mai. T'amo tanto, che mi contento di guardarti,
Giovanni, Giovanni.
Aveva un sorriso pieno di lagrime; la sua voce insinuante,
rispettosa, timida, avrebbe rammollito una rupe. Continuò a guardare e tacque per
un istante; poi, mutando espressione, si volse al putto: - Bambino mio, anche
tu mi dici di attendere. Domani, doman l'altro! Sei cattivo. La tua mamma
t'adora, luce degli occhi miei, sangue del mio sangue, carino, diavolino mio; e
tu mi stendi le manine care e ti rivolgi verso di me, ma non t'affretti a
ricadere sul seno che t'ha nutrito. Non ingannarmi, monello. Dormivi in una
cuna ornata di brillanti, e gli angioletti ti cantavano la ninna nanna, e le
farfalle con le loro ali di tutti quanti i colori ti svolazzavano intorno; ma
un dì sei scomparso, non t'ho trovato più, sparito sotto un monte di fiori,
sotto un manto ricamato d'oro e d'argento, in mezzo ai ceri, ai bimbi, ai
canti... Ora che sei tornato, perché non mi balzi in grembo? Non l'ami più questo
petto? - e si sbottonava dinanzi il vestito azzurro, e mostrava al figliuolo il
seno ignudo, mentre la immagine dipinta del fanciullo continuava a sogguardarla
e a ridere.
Un forte scoppiettìo del fuoco, che in quel silenzio da tomba
sembrò un fracasso diabolico, le fece voltare il capo, e mi vide. Mi cacciai
nel fondo della poltrona, cercando di farmi piccino, di schiacciarmi nella
spalliera imbottita, tanto da sfuggire all'occhio tranquillo e tremendo.
Mi si avvicinò piano piano, senza curarsi di allacciare
l'abito; mi porse le mani piccole e bianche, facendo segno che le dessi le mie:
gliele diedi; allora ella, stringendomele, mi tirò a sé lentamente, ma
vigorosamente, sicché mi alzai ritto di contro a lei, confuso e tremante. Mi
prese il capo fra le mani, e si pose ad esaminarmi.
- I tuoi capelli, - bisbigliava, - sono mutati. Mi sembrano
meno neri. Ti sei fatto radere la barba - e passava le mani delicate intorno
alle mie guance ed al mento. - I tuoi occhi non brillano più del loro fuoco
divoratore. Ma io, Giovanni, t'amo tanto, tanto!
Aggrottava le ciglia come se tentasse di pensare. Avvicinò le
sue labbra alle mie; io mi ritrassi; ma ella, che mi stringeva sempre il capo
fra le mani, trattenendomi, pose la sua sulla mia bocca. Le labbra erano di ghiaccio,
e il respiro di quella larva di donna pareva un lievo soffio gelato. Mormorò: -
Dimmi che mi ami. Non sono sempre la tua sposa, la tua cara, la tua bella?
Nello studiarmi di retrocedere quasi insensibilmente e nel
tentare di svincolarmi da quella stretta rigida, caddi sulla poltrona. La
giovine si mise a sedere sulle mie ginocchia, circondandomi il collo con il
braccio sinistro, mentre con l'altra mano m'accarezzava il volto. - Senti, ho
freddo, - diceva. - Vieni, vieni a scaldarmi -, e mi sussurrava nell'orecchio
delle parole, ch'io non volevo intendere. Intanto il fuoco illuminava di luce
rossa e oscillante quei lunghi capelli d'oro, la faccia gentile, il collo, i
seni nudi e turgidi.
Sentivo offuscarmi il cervello, come se il vecchio vino bevuto
alla cena mi portasse di colpo tutti i suoi fumi alla testa. Non riescivo a
liberarmi dal peso e dall'abbraccio di lei, che mi fissava sempre con il suo
sguardo di donna innamorata in un mondo vano di spettri, e nella quale i segni
della passione terrena prendevano l'aspetto innocente e agghiacciante di una
fatalità tutta inconscia. Ripeteva: - Vieni a scaldarmi, vieni, - e m'obbligava
a porle una mano sul petto e a baciarla.
Dagli alari cadde sul pavimento un tizzone acceso, che rotolò
fino ai piedi della donna. La sollevai di sbalzo e mi precipitai per rimettere
con le molle nel focolare il legno ardente, profittando poi subito della
confusione per fuggire nella gran sala attigua, senza che la giovane se
n'avvedesse. Ascoltai all'uscio: non si sentiva più nulla. Dopo qualche minuto,
inquieto di quello stesso silenzio, socchiudendo l'imposta, guardai nella
camera. La bionda stava di nuovo immobile rimpetto al quadro, contemplandolo.
Non parlava, non sorrideva. Finalmente, sottovoce, ma con accento di fiducia sublime,
ripeté più volte: - Tornerò domani, tornerò domani -, e, ripreso il lume, senza
guardare intorno, lenta, grave, se n'andò via dall'uscio dond'era entrata.
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