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Il villino abitato dalla contessa
era nel viale Principe Amedeo, le sue finestre chiudevano da tre lati un
giardinetto tascabile, largo cinquanta metri, ma avevano di faccia San Miniato
e il leggiadro serpeggiamento del Viale dei Colli. Le aiuole verdi del
giardino, grandi come tappeti da bigliardo, e quegli alberi nani facevano un
bel vedere sulla facciata nuova, lisciata e imbellettata, e sulle finestre di
cui i vetri irradiavansi dei colori delle tende allorché il sole vi batteva
sopra. Alla sera, dalle otto alle undici, mentre i rumori della città si
perdevano in lontananza, la luce che scaturiva da quelle finestre strette fra
di loro, adorne, civettuole, foderate di velo e di damasco, ricamava a giorno
come un merletto il disegno della cancellata sul marciapiede della larga via
oscura e quasi deserta, e lambiva le foglie lucenti delle magnolie. Le poche
persone che passavano si fermavano un istante, o mettevano il capo allo
sportello della carrozza, per rallegrarsi la vista a quella luce, a quei
luccichii che carezzavano qua e là i mobili e le stoffe, a quel dolce tepore
profumato che indovinavasi, e immergendosi nel buio, mentre si allontanavano,
si voltavano ancora per cercare di leggere un sorriso sulla faccia di quella
dimora felice.
Al di dentro quella dimora felice
avea un altro aspetto. Nella stanza più lontana dalla via, nell'angolo più
remoto, stava di solito Nata, vicino al camino, illividita dagli azzurri
bagliori della fiamma, cogli occhi semichiusi, come enormi macchie nere sul
viso smorto, allungando i piedi sul tappeto, abbandonando il capo sulla
poltrona, sfogliando le pagine di un libro o trastullandosi macchinalmente
colla ventola. Tutte le altre stanze erano vuote, mute, fredde; il domestico
passeggiava silenzioso nell'anticamera, e in mezzo a quel silenzio lo
scoppiettare dei tizzi, il tic-tac dell'orologio, o il rumore delle carozze che
passavano nella via avea qualcosa di triste.
Allorché Giorgio era andato a far
visita alla contessa, verso le cinque, tutte le finestre della casa luccicavano
come specchi; al disopra delle tegole rosse e in mezzo alle guglie sottili dei
camini il sole sembrava diffondersi come un'aureola di polvere d'oro. Nata,
udendo una carrozza che si fermava al cancello, aveva volto istintivamente il
viso verso l'uscio del salotto, con un rapido movimento. Giorgio la trovò
presso la stessa finestra, davanti a un piccolo tavolino incrostato di rame
dorato, su cui c'erano i suoi libri e le sue lettere, e sembrava più sola e
derelitta che mai. Il salotto, tutto foderato di seta azzurra, era poco
illuminato e vi ardeva un gran fuoco. Quello splendido giorno invernale non
metteva né un raggio, né un sorriso in quella stanzina. Gli uccelli facevano
gazzarra nel giardino elegante e malinconico, e fin sulle finestre, e fra i
vetri e le tendine vedevasi una lista di cielo terso e limpido. La luce
attraverso la seta delle tende penetrava tenera, diffusa, e nell'angolo del
caminetto era assorbita dai chiarori rossastri della fiamma. Nata, colle spalle
rivolte a quel quadrato di luce azzurrina, sembrava quasi al buio, i suoi occhi
parevano più grandi e profondi, e il suo pallore sembrava quasi verdastro. Ella
batté le mani con un movimento infantile, e stendendogliele entrambe, col suo
più bel sorriso:
«Bravo! Se sapesse come giunge in
buon punto, e come le son grata della sua visita! Vede? Tutta la mia vita si
passa così, a contar gli alberi del viale. Ed ecco la mia più grande
distrazione.»
Giorgio si chinò ad esaminare la
grande distrazione, un disegno giapponese che la contessa stava incollando su
di una ventola, e si misero a discorrere delle industrie di quel paese, dove La
Ferlita avea passato parecchi anni come addetto alla legazione. Nata gli faceva
mille domande, una più bizzarra dell'altra, e di tanto in tanto, senza
pensarci, gli piantava in volto quei suoi occhioni prenetanti e impenetrabili.
Tutt'a un tratto, fra la descrizione di un bronzo niellato e di un lavoro in
avorio, gli domandò:
«Dev'essere un po' in broncio con
me, dica?»
Egli levò il capo bruscamente; la
contessa non lo guardava neppure, teneva il disegno attraverso alla luce per
vedere se fosse disteso abbastanza, ammiccando un po' degli occhi, colle mani
in alto, bianche come cera e leggermente trasparenti nei contorni. Non sembrava
nemmeno che avesse fatto quella domanda.
«Io!» disse alfine La Ferlita.
«Si, un peu, beaucoup, passionnément
- passionnément!»
«Mais non! rien du tout!»
Ella si voltò, colle mani ancora
in aria e il disegno che faceva da trasparente.
«Davvero? tanto meglio! Non può
immaginare qual piacere mi faccia...»
E chinando il capo con quella sua
aria da statua che non lasciava indovinare se scherzasse o dicesse sul serio,
aggiunse con un certo sibilo nell'accento:
«Merci!»
Successe un istante di silenzio;
ella sembrava tutta intenta al suo lavoro: poi lo buttò in un cestino e andò a
posare il piede sul posacenere, rialzando un po' la veste e appoggiando il
gomito al piano del camino.
«È stato sempre a Firenze tutto
questo tempo, dacché non ci siamo visti?»
«Sì, all'infuori di un mese di
congedo, che poi si fece di otto settimane.»
«Non l'avevo più visto dopo il
mio ritorno, e credevo fosse partito.»
«Io però l'avevo vista.»
«Dove?»
«Alle Cascine, saranno otto o
nove giorni.»
«Non l'avrò riconosciuto. Era una
delle prime volte che incominciavo ad uscire in carrozza, ed ero ancor
debolissima, la folla mi dava il capogiro.»
«Adesso però sta molto meglio.»
«Si, adesso sto bene...»
La Ferlita, il quale era venuto
sognando senza sapere precisamente che cosa, ma tutto pieno dell'immagine di
quella donna che gli avea fatto girar la testa come una trottola, a poco a poco
era rientrato nella sua pelle vedendola da vicino e discorrendo tranquillamente
con lei tanto semplice e naturale; Nata era assai leggiadra così ritta dinanzi
al fuoco, ma nulla più, e solo allorquando fissavagli in viso gli sguardi, egli
sentivasi sconcertato e perdeva qualcosa della sua disinvoltura. Allorché si
levò per andarsene, ella stendendogli la mano:
«Presto, non è vero?» gli disse.
Nell'andarsene, La Ferlita diceva
fra sé:
«Giorgio, amico mio, m'è entrato
il sospetto che tu ci abbia fatto una figura ridicola. Orsù, la testa a casa, e
rimediamo al malfatto.»
Perciò era ritornato altre volte
da lei senza farle un briciolo di corte. Ella gli si era mostrata
riconoscentissima. Lo accoglieva sempre con un'esclamazione o un sorriso, e gli
diceva ch'era proprio una buona azione quella di venire a contare con lei gli
alberi del viale. «Che peccato non esserci conosciuti prima, n'è vero?» Giorgio
rispondeva ridendo: «Ma noi ci conosciamo da un pezzo!».
«Conosciuti?... cioè,
sconosciuti! Incontrarsi in un ballo non è punto conoscersi. Ma tant'è, meglio
tardi che mai. Del resto, vogliam divertirci questo carnevale; ella sarà dei
nostri; ella, la viscontessa, suo marito, e qualche altro. Faremo delle follie.
Non abbia paura, non lo comprometteremo col suo Ministro, o alla peggio lo
faremo compromettere con lei.»
Nelle belle giornate di dicembre
ella lagnavasi sempre d'aver freddo e stavano a discorrere accanto al fuoco che
scoppiettava e illuminava di riflessi cangianti il viso scarno e sorridente di
lei. Gli avea sempre promesso per ischerzo che la prima volta che sarebbe
uscita si sarebbe fatta accompagnare da lui. Un giorno, vedendolo entrare, gli
domandò:
«Fa molto freddo oggi?»
«Punto. È una bellissima
giornata.»
Ella andò lentamente verso la
finestra e sollevò la tendina.
«Infatti,» disse sbadatamente,
«sarebbe proprio la giornata...»
Il largo viale inondato di sole
sembrava in festa. Passavano dei contadini coi loro carri, dei commessi che
avevano preso da porta San Gallo per andare a porta San Niccolò, e delle
sartine che avevano dimenticato la loro scatola dalla portinaia, a coppie,
rasentando i muri o serpeggiando per la via, tenendosi per mano, dondolando le
braccia o tirando in su il vestitino nuovo sugli stivalini polverosi; passava
qualche fiacre aperto, lesto, chiassone, scoppiettando la frusta, oppure colle
tendine calate che lasciavano passare una mano o un occhio curioso; e in mezzo
a tutto questo va e vieni, dei passeri vispi e petulanti che saltellavano sul
marciapiede. La cupola del Duomo, il campanile, e la torre di Palazzo Vecchio,
spiccavano sul cielo con profili netti, su di un caos di tetti e di guglie; più
in là il palazzo Pitti, bruno e severo, sembrava appoggiarsi alla gran
spalliera di verdura del giardino di Boboli. In fondo la leggiadra cintura dei
colli stendevasi come un immenso giardino punteggiato di ville bianche e
screziato di getti d'acqua, di masse di verdi e di bianchi viali serpeggianti;
e dietro il vasto piazzale, di cui la balaustra si disegnava sull'azzurro, e il
profilo grazioso della Bella Villanella, un immenso sfondo ceruleo, digradante
una luce opalina sui verdi contorni delle colline.
«Ma mi sento molto stanca,»
soggiunse Nata, «come se avessi camminato tanto quanto tutta quella gente lì.
Costoro si danno bel tempo, come se non avessero altro da fare!...»
C'era del corruccio nella sua
voce e nella ruga verticale che solcò un momento la sua fronte.
La contessa stava sempre meglio,
riceveva quasi tutte le sere la de Rancy, Giorgio, e tre o quattro altri; di
tutti i suoi amici, La Ferlita era divenuto il più assiduo, passava sovente le
sere intere in via Principe Amedeo, presso il caminetto, col thè fumante sul
tavolino, e se pur gli balenava in mente il desiderio di baciare la mano
delicata che gli presentava la tazza, lo faceva da dilettante, per una vecchia
abitudine, quasi per un obbligo di cortesia, e non pensava più che sarebbe
stato possibile perdere la testa per quella leggiadra signora colla quale
passava così piacevolmente la sera, in tranquilla intimità. Un giorno le disse
ridendo:
«Perché la prima volta che son
venuto a farle visita mi ha domandato se fossi stato in broncio con lei?...
Dica la verità... c'è stato un momento, tempo fa, in cui devo esserle sembrato
assai ridicolo!»
Ella aggrottò le sopracciglia, o
perché la domanda la pungesse, o perché cercasse risovvenirsi.
«Ridicolo? e perché?»
«Giacché non lo sa, o giacché non
si rammenta, tanto meglio... Non ne parliamo altro.»
«Ma si, mi rammento. Però non mi sembra
ridicolo battersi per la sua dama; io ero la sua dama... allora, in quel quarto
d'ora, nient'altro.»
Egli, che era stato ad un pelo di
rimetterci la pelle invece di far delle armi, si accorse che il meglio era
riderne anche lui. Così su quel passato, imbarazzante per ambedue, ella avea
messo risolutamente, con grazia, il suo stivalino polacco, egli s'era chinato
ad ammirare il piede, e non se n'era più parlato.
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