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Le matrone intime della famiglia se
n'erano andate lasciando le ultime raccomandazioni, il va e vieni dello
strascico della suocera era cessato, il bambino dormiva nella sua culla azzurra
e bianca, la convalescente cominciava ad assopirsi anche lei. Giorgio s'era
messo a sedere ai piedi del letto. Quella quiete, quel silenzio, quella luce
temperata gli infondevano una gran serenità nell'anima; sembravagli sentirsi
penetrare da una pace solenne; quelle pareti, quei mobili noti aveano una
fisionomia onesta e sorridente, e nel tempo istesso avevano qualcosa di nuovo,
ché quella camera tranquilla sembrava più piena, quella piccola culla azzurra,
rannicchiata in un suo canto, riempiva un gran vuoto fra il canapè ed il letto.
Nella strada si sentivano ancora i rumori di una città che si addormenta; il
trotto rapido delle carrozze che ritornavano alla rimessa, il chiudersi delle
ultime finestre e delle ultime porte, il passo affrettato di coloro che
ritornavano dal caffè o dal teatro, i discorsi spezzati, e in mezzo a tutti
cotesti rumori il respiro della donna un po' irregolare sembrava unirsi al
respiro appena sensibile del piccolo essere che le dormiva vicino. Gli occhi di
Giorgio andavano dal letto alla culla, vi riposavano volentieri, e da quelle
deboli creature che dormivano tranquillamente, fiduciose sotto gli occhi di lui
che stava come a vegliarle e proteggerle, venivagli una gran forza, una gran
pienezza di vita, che gli faceva sempre più soffice il tappeto sul quale posava
i piedi e lo schienale della poltrona al quale appoggiava la testa, gli rendeva
più dolce il tepore di quella camera, più blanda la luce della lanterna. Non
aveva sonno, quella calma lo riposava dalle tante noie e dalle tante
chiacchiere della giornata. Senza sapere di esser felice, godeva istintivamente
di paragonare il suo stato presente a quello di coloro fra i suoi amici che
sapeva più combattuti dalle angustie e dalle tempeste della vita; passava in
rassegna macchinalmente, in quella specie di sonnolenza, i paradossi dei loro
discorsi, le contraddizioni delle loro azioni, e d'uno in un altro sfilarono
anche le agitazioni del suo spiriro, le gioie turbolente e turbate, le febbrili
aspirazioni del suo passato, di quel passato di ieri che sembrava già tanto
lontano, e che gli infondeva una specie di inquietezza penosa, e si legava sino
alle ultime parole dei suoi amici e all'ultimo racconto del suo medico. A poco
a poco s'immerse in una meditazione profonda. Erminia dormiva, rivolta verso di
lui, bianca e serena, colle trecce nere sul bianco guanciale; di quando in
quando sembravagli, per una strana allucinazione, che quel viso fattosi più
cereo si profilasse, si incadeverisse, che dei profili secchi, rigidi, vi si
disegnassero vagamente, dei profili che egli conosceva, consunti dalle febbri e
dalle passioni, e che gli si erano disegnati implacabilmente dinanzi agli
occhi, mentre Rendona parlava della sua ammalata all'Albergo dei Bagni.
Quei capelli neri su quell'altro viso aveano qualcosa di affascinante, di
repugnante, di spaventoso. Egli s'alzò per andare a baciare in fronte la sua
Erminia e per curvarsi sulla culla del figlio. La creaturina stava
raggomitolata in mezzo ad un pugno di batista e di trine, avea i labbruzzi
semiaperti e i pugni chiusi sul petto; la madre dormiva serena e sorridente
come se lo vedesse ancora. Egli volse intorno uno sguardo che sembrava
distratto, lo riposò sulle pareti e sui mobili; poi si mise a baciare con una
certa vivacità il bambino, che si svegliò strillando.
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