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Ecco cosa avea il marito:
Rendona m'avea detto: «Che va a
fare La Ferlita ad Acireale? L'ho incontrato due volte alla stazione.»
«Sarà andato a Giarre; uno dei
poderi di sua moglie è in quelle vicinanze.»
Giorgio, dopo quella stretta di
mano singolarmente espressiva, che mi avea dato la sera in cui il dottore avea
raccontato la storia della sua ammalata dell'Albergo dei Bagni, non mi
avea detto più nulla, anzi avea evitato le più lontane allusioni a quella
circostanza; nei rarissimi momenti in cui lo sorprendevo sovrappensieri si
affrettava a intavolare un discorso qualsiasi, quasi avesse letto una
indiscreta interrogazione ne' miei occhi. Del resto, meno quelle passeggere
preoccupazioni, non si curava d'altro che della moglie e del figlio, il quale
avea una salute cagionevole, e sembrava che tutto il suo mondo stesse in quelle
due creature.
«La mia ammalata deve essere
matta da legare», mi disse un giorno Rendona alla stazione di Acireale, dove
andavo pei bagni. «Ha saputo che al Comunale vi sarà una rappresentazione
straordinaria e vuole assistervi. Figurati, in quello stato! Io me ne son
lavate le mani. È affare che riguarda il capo-stazione, e c'è caso che nella
mezz'ora di viaggio abbia a finire in vagone.»
La sera di quella
rappresentazione anch'io ero a Catania, e vedendo in teatro La Ferlita colla
moglie ero andato nel loro palchetto. Avevo sempre prestato un'attenzione assai
mediocre alla storia della russa ch'era inferma all'Albergo dei Bagni,
poiché alloggiando nello stesso albergo non l'avevo mai vista, né avevo udito
parlare di lei, e avevo dimenticato persino quel che ne aveva detto Rendona,
allorché un improvviso movimento e il subitaneo pallore di cui si coperse La
Ferlita mentre stava discorrendo, me ne fecero risovvenire di botto.
Il teatro era mezzo vuoto, e si
vedevano pochissimi visi nuovi; ma verso la metà dello spettacolo si era aperto
l'uscio di un palchetto in terza fila, di fronte a quello dove eravamo, e vi si
era visto un po' di movimento in fondo; però nessuno era venuto a mettersi sul
davanti; e il palchetto sembrava vuoto come prima. Nondimeno gli sguardi di
Giorgio vi correvano sempre, anzi vi si sprofondavano con tale ansietà paurosa,
che seguendoli vidi anch'io che c'era qualcheduno. Scorgevasi in fondo e
nell'ombra qualcosa di bianco, delle forme indistinte che stavano immobili. Io
ci rivolsi il cannocchiale un istante, e vidi chiaramente un pallido viso di
donna, così scarno che il profilo sembrava scolpito nettamente dall'ombra, e
che gli occhi sembravano nerissimi, enormi, luccicanti come fossero
fosforescenti. Quegli occhi ardenti stavano rivolti verso di noi con una
tenacità singolare. Giorgio era in preda ad una sorda agitazione; parlava con
vivacità delle cose più disparate, e due o tre volte avea preso il suo cappello
e l'avea posato con dei movimenti nervosi. Ad un tratto la figura che stava
nell'ombra si alzò, e venne a sedere un momento sul davanti; era tutta vestita di
trine e di raso bianco, senza un gioiello, coi folti capelli biondi annodati
mollemente un po' bassi sulla nuca; avea dei guanti lunghi sino quasi al
gomito, e attraverso la trasparenza del merletto si vedevano gli omeri scarni,
il petto incavato, le braccia su cui i guanti s'increspavano; sotto la polvere
di riso si indovinava il pallore cadaverico; ma nondimeno quel viso consunto,
quelle labbra smorte, quell'occhio arso dalla febbre avevano un fascino
irresistibile. Ella alzò il suo binoculo e lo puntò su di noi. Tre o quattro
cannocchiali si erano rivolti verso quella strana figura che sembrava sorgere
improvvisamente dall'ombra. La signora La Ferlita discorreva sempre gaiamente,
e ad un tratto, ad un movimento del marito, alzò gli occhi anche lei. Giorgio
senza finire quel che stava dicendo balbettò che andava a far delle visite ed
uscì. L'incognita si ritrasse nel fondo del suo palchetto, né più si vide. Di
tanto in tanto si udiva lassù, in terza fila, uno scoppio di tosse soffocata.
La signora Erminia non mi avea
domandato chi fosse quella sconosciuta la quale per un istante avea attirato la
curiosità di una metà degli spettatori, né io avrei saputo dirglielo; ma era
tornata a casa taciturna, e sembrava meno allegra di prima. Mi disse per altro
essere in pensiero pel suo Giannino che da qualche giorno stava maluccio.
Giorgio stette un'ora presso la culla a tempestare Rendona di domande, di dubbi
e di timori esagerati, e passò il rimanente della sera colla moglie, più
affettuoso che mai e quasi riconoscente. Malgrado di tutto ciò si tradiva in
lui un certo sforzo, come se volesse vincere una inesplicabile irrequietezza;
sembrava in certi momenti che temesse qualche cosa.
Io ero ritornato ai miei bagni.
Una volta mi era sembrato d'incontrare nel piccolo giardino dell'albergo quella
stessa donna che mi avea fatto sì strana impressione al teatro; era la medesima
figura estenuata e triste, in cui la fierezza e un certo che di vivo e di
ardente, sembravano ribellarsi ancora; andava lenta, stanca, appoggiandosi al
braccio di qualcuno - un signore alto e biondo - e mi fissò in volto quei
medesimi occhioni divoranti e accerchiati di un solco bruno.
Il giorno stesso vennero a dirmi
che la signora che occupava il grande appartamento del primo piano desiderava
parlarmi. Non conoscevo la signora del primo piano, non mi aspettavo
quell'ambasciata fatta in modo singolare, ma non fui incerto un istante sul chi
ella fosse, e di chi avesse a parlarmi. Scendendo al primo piano sentivo un
presentimento doloroso che mi stringeva il cuore.
Allorché entrai stava presso la
finestra; quantunque fosse la metà di maggio, avea fatto accendere un gran
fuoco. Il sole era tramontato e nella stanza regnava la luce incerta di
quell'ora, sebbene anche le due lanterne fossero accese. Dalla finestra si
vedevano alcuni fiocchetti di nuvole rade, ancora leggermente illuminate sul
cielo più scuro, che andavansi sfilacciando qua e là. Il viso della donna
rimaneva al buio, sprofondata com'era in una gran sedia a bracciuoli. Era
vestita di nero; avea una treccia bionda, allentata e quasi disciolta, che
serpeggiava sulla spalliera e le mani dimagrate e bianche scintillavano di
gemme. I suoi occhioni grigi, profondamente infossati, sembravano ardere e
consumarsi, le labbra pallide e chiuse avevano una piega dolorosa. La morte
avea lambito colla sua ruvida lingua quel viso trafelato, così bianco come se
non vi scorresse più una sola goccia di sangue, e vi avea lasciato delle
sfumature livide. Non la dimenticherò mai più.
Ella inchinò il capo con un triste
sorriso, e mi fé cenno colla mano di mettermi a sedere.
Taceva, come dovesse superare uno
sforzo, o ricordarsi di quel che voleva dirmi; c'era ancora qualcosa che non
era vinta e che si ribellava in lei; la fronte altera di quella tigre ferita a
morte avea un'aria di maestà.
«Ella sarà sorpresa del mio
invito,» mi disse lentamente, «ma io la conosco da un pezzo, e non ho tempo di
aspettare una presentazione. Ella è amico del signor La Ferlita... l'ho visto spesso
con lui a Firenze, allorché egli ebbe un duello... si rammenta?... ed anche qui
vicino, a Catania... li ho visti insieme.»
Chiuse gli occhi un momento, o
almeno mi parve, ché così com'era situata il suo viso non si distingueva
chiaramente. Dopo due o tre secondi di silenzio riprese con un accento che mi
parve più profondo.
«Adesso anche lei sa chi sono
io... Giorgio le avrà parlato di me.» Costei abbordava il punto spinoso della
nostra conversazione con tale altera e disinvolta franchezza che di noi due io
ero al certo più imbarazzato di lei. Mi porse la mano secca, arida, arsa. «Ora
spero che mi perdonerà il disturbo che le ho dato», aggiunse con una voce che
mi penetrò sino all'anima; sentivo confusamente quel che avrebbe dovuto esserci
nel cuore di Giorgio se egli si fosse trovato al mio posto. Ella dopo un altro
silenzio, forse dopo aver superato un'ultima esitazione:
«Il signor La Ferlita è
ammogliato?» mi domandò.
«Si.»
«È felice?»
«Lo credo.»
Ammutolì e reclinò la fronte
sulla mano. Che cosa sarà stato in quell'anima? Quando rialzò il capo il suo
profilo sembrava essersi pietrificato; il naso e la fronte spiccavano
nell'ombra con linee secche ed angolose, ma era perfettamente rassegnata o
impassibile.
«Grazie, signore», mi disse.
«Un'ultima preghiera... non gli dica nulla di questa mia fantasia da inferma,
non gli dica nemmeno di avermi vista.»
Mi accomiatò con un'ultima
stretta di mano, e rimase immobile e calma. Soltanto allorché fui sull'uscio,
voltandomi verso di lei, la vidi che si teneva il fazzoletto sul viso.
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